25 febbraio 2018

Morte lenta a Marischio: il lungo tracollo della Tecnowind

La crisi della Tecnowind diventa di dominio pubblico nella prima metà di giugno del 2013.

Il periodo non è dei più adatti per dare alla notizia un rimbalzo mediatico adeguato, dato che l'opinione pubblica cittadina è concentrata - da qualche giorno e con un'apprensione mai conosciuta in precedenza - sui 1.425 esuberi annunciati da Indesit.

Il 12 giugno il Corriere Adriatico esce con un articolo in cui si sottolineano i paradossi di un'azienda con i fondamentali a posto ma funestata da una crisi di liquidità che non si risolve per via di vincoli esterni.

La condizione risolutiva è un mantra sindacale già sperimentato col caso Ardo: le banche che rifiutano di sbloccare le linee di credito - qualcosa come 27 milioni di euro - perché la crisi della Tecnowind è soltanto il riflesso del loro ingiustificato rigore che ha costretto l'azienda a richiedere il concordato preventivo con proseguimento di attività, ovvero trasformare i fornitori in banche.

La pressione aggressiva sulle banche pare funzionare, tanto che nel giro di due giorni, accompagnato da una manifestazione dei lavoratori, viene convocato in Comune un incontro tra l'allora Sindaco Sagramola, le sigle sindacali e gli istituti coinvolti nel debito dell'azienda. L'esito dell'incontro, almeno in apparenza, pare essere positivo tanto che il Carlino del 15 giugno si fa prendere la mano e titola: "Il blitz di Sagramola: le banche ridanno credito".

Nessuno, in quel frangente, prova ad andare oltre il giubilo momentaneo, tanto per capire se si tratti di una soluzione di prospettiva o di un pannicello caldo. I bilanci dell'azienda non dispensano fiducia e ottimismo: perdite di esercizio, oneri finanziari esorbitanti, redditività in caduta libera, ovvero un quadro generale che, senza scelte e interventi gestionali forti, avrebbe reso l'accordo con le banche soltanto un modo per guadagnare tempo e posticipare la deflagrazione della crisi.

Passano giusto due settimane, scandite da mille contraddizioni sull'accesso al Concordato e da una ripresa della produzione sistematicamente rimandata, e l'affaire Tecnowind torna prepotentemente sulla scena perché si scopre che, nonostante la situazione, l'azienda non aveva presentato al Tribunale tutta la documentazione necessaria per l'accesso al concordato preventivo che avrebbe attivato lo sblocco della liquidità. 

A mancare non è la fotocopia di un atto o una marca da bollo ma il Piano Industriale, ossia il documento di indirizzo strategico necessario per convincere il Tribunale che la concessione del Concordato avrà basi solide e di prospettiva. 

Ma per quale ragione il Piano Industriale non viene allegato alla documentazione? Semplicemente perché il Fondo proprietario della Tecnowind è in liquidazione.

Di colpo l'euforia dell'accordo in Municipio lascia nuovamente il campo al dilemma liquidità. In fondo il meccanismo è semplice: per produrre servono materie prime, per acquistare le materie prime serve denaro che non c'è. 

In queste condizioni se vuoi produrre le materie prime devi pagarle cash perché nessuno "regala credito" ad aziende strozzate, e quindi se disponi di circolante le compri altrimenti ti accontenti di una produzione incerta e a singhiozzo. Ma se produci senza costanza ti giochi il mercato, perché i clienti non aspettano e più di ogni altra cosa hanno bisogno di continuità e certezza negli approvvigionamenti di prodotto finito.

A questo punto, e siamo ai primi di luglio del 2013, rompe il silenzio il Presidente della Tecnowind Fosco Celi, che squaderna pubblicamente alcune questioni, a partire dall'ipotesi che l'azienda venga acquisita e salvata dall'imprenditore marchigiano Roberto Cardinali, rappresentante del Fondo Atlantis.

Fosco Celi non prende di petto i gravi deficit di gestione dell'azienda ma anzi si allinea al mantra sindacale della colpa bancaria e, alla fine dei giochi, piazza il colpo a effettoil Fondo Synergo, proprietario di Tecnowind, non è disposto a ricapitalizzare ma è pronto a vendere la sua quota al valore simbolico di un euro. 

Celi presenta questa volontà del Fondo come un presupposto non negoziabile. Il messaggio che arriva è devastante perché significa che Synergo è disposto a rinunciare a qualsiasi transazione significativa con un eventuale acquirente pur di uscire da Tecnowind. Di fatto si sancisce che l'azienda è priva di valore. Al punto da essere messa in vendita allo stesso prezzo di un cornetto Algida

Fosco Celi, in questo contesto, rivela ai giornalisti un elemento e cioè che l'azienda non solo non aveva inviato al Tribunale il Piano Industriale, ma che non si era neanche proceduto alla richiesta di Concordato: semplicemente perché l’assemblea dei soci avrebbe deliberato la richiesta al Tribunale soltanto in presenza di una proposta di acquisto comprensiva di due milioni e mezzo di euro di aumento di capitale, più dodici milioni di euro a storno di parte del debito di 27 milioni che Tecnowind aveva contratto con le banche

In un articolo del 4 luglio 2013, su questo blog, pongo alcune domande a cui nessuno risponde:con quali attività ordinarie e straordinarie si è giunti a una esposizione bancaria di 27 milioni di euro; quale sia il prezzo medio di vendita delle cappe Tecnowind rispetto a quello medio del settore; quale sia il margine operativo reale dell'azienda e quale il fatturato per dipendente, elemento fondamentale per comprendere la capacità di generare reddito d'impresa attraverso i livelli di produttività.

A metà luglio 2013 dopo innumerevoli pressioni e infiniti giri di valzer, il Fondo Synergo, azionista di maggioranza della Tecnowind con l'89% del capitale sociale, scioglie le riserve, annunciando la vendita del proprio pacchetto azionario: il 51% ai dirigenti dell'azienda e il 38% ai lavoratori. 

Si tratta di una vendita ponte che serve per aprire la strada a un nuovo "giro di quote" in direzione del vero acquirente, quel Roberto Cardinali da Osimo proposto e annunciato con le sembianze ieratiche di un Cristo Redentore sulla collina di Rio de Janeiro e chiamato, nel giro di un paio di mesi, a rilevare l'azienda e a presentare al Tribunale la richiesta di Concordato, poi accordata, accompagnata dalla formulazione di un nuovo Piano Industriale.

I contenuti del Piano Industriale sono resi noti i primi di ottobre del 2013sessantuno esuberi, incentivi all'esodo volontario, richiesta di un ulteriore anno di cassa integrazione straordinaria a rotazione, delocalizzazione produttiva in Romania del basso di gamma e sei milioni di investimenti a Fabriano per il periodo 2014-2016. 

Il Piano prevede un numero di esuberi pari a quasi al 20% della forza lavoro impiegata, come a dire di un'azienda sovradimensionata e con una produzione incapace di produrre i margini necessari ad alimentare un'adeguata generazione di valore. Il che consente di comprendere appieno quanto sia farlocco e fuorviante il tentativo politico e sindacale di raccontare un'azienda in salute, esclusivamente gravata dal peso di errori precedenti e di oneri finanziari cumulati da vecchie gestioni. 

Come spesso accade in queste circostanze tutti preferiscono mettere la testa sotto la sabbia. Al punto che il 14 dicembre 2013 la nuova proprietà organizza al Teatro Gentile un concerto per tutti i dipendenti, quasi il viatico musicale di un nuovo inizio fiducioso e condiviso. Una serata speciale che  spinge il Sindaco Sagramola a pronunciare parole di grande ottimismo: "Incredibile, sono passati solo pochi mesi dalle lotte e siamo qui a festeggiare.

La fiducia di fine anno sembra trovare conferma nel 2014, un anno di apparente ritorno alla normalità. Tanto che l'8 aprile del 2014 il Carlino pubblica un articolo in cui descrive le magnifiche sorti e progressive della nuova gestione: il Piano Industriale funziona, con 28 dipendenti che hanno accettato l'uscita volontaria dall'azienda e col resto degli esuberi riassorbito dall'acquisizione di nuove, decisive commesse.

La questione Tecnowind, di fatto, entra in modalità stand by, con la città convinta di aver chiuso bene e senza troppi danni una crisi potenzialmente esplosiva. In realtà i nodi strutturali restano intatti e l'azienda di Marischio, dopo un anno di low profile, torna ad allarmare la comunità; Esattamente nell'autunno del 2015 quando si profila una tangibile divaricazione di risultato tra i risultati ottenuti in Cina e Romania e quelli evidenziati dallo stabilimento fabrianese.

Questa forbice, che non si richiude ricorrendo semplicemente alla cassa integrazione straordinaria, nel giro di un anno metterà di nuovo al centro della scena l'ipotesi di un cambio di proprietà. Tanto che verso la fine di settembre 2016 si ricomincia a parlare di un acquirente straniero e di serrate trattative di vendita che sostanzialmente confermate anche dal fronte sindacale.

Nel frattempo la cassa integrazione a rotazione ricomincia a colpire duro, con circa 40 operai coinvolti ogni giorno, ma la notizia che deve rasserenare gli animi arriva il 19 ottobre 2016 quando il Corriere Adriatico parla esplicitamente di un'offerta vincolante di acquisto inoltrata da un Fondo statunitense di cui, però nessuno conosce l'identità, il profilo e le intenzioni.

Mentre la grancassa mediatica avvalora l'idea di una trattativa concreta e in itinere col Fondo americano, viene nominato un nuovo Consiglio di Amministrazione; una nomina che avviene mentre si intensificano i segnali di singhiozzo operativo, con i primi ritardi nel pagamento degli stipendi ai dipendenti e una politica degli ammortizzatori sociali che sostituisce la cassa integrazione in scadenza con i contratti di solidarietà, che scattano il 5 dicembre 2016.

Con il sopraggiungere del nuovo anno saltano lo stipendio di dicembre 2016 e il 50% della tredicesima e serviranno tre giorni di sciopero per ottenere il saldo delle retribuzioni sospese. Il fantomatico Fondo americano alla fine di gennaio esce di scena, dissolvendo le speranze che si erano  comunque focalizzate attorno a un'operazione caratterizzata da elevati livelli di confusione e di opacità.

Di fatto nel giro di un anno e mezzo vanno in fumo tre possibilità di vendita (forse Electrolux, un Fondo canadese e il Fondo americano) e i primi di marzo spunta all'orizzonte un nuovo Fondo europeo pronto all'acquisizione, che propone di acquistare la Tecnowind per un milione di euro, cifra ritenuta insufficiente dalla banche creditrici.

La pressione dei lavoratori, il coinvolgimento sempre più attivo del Ministero e delle istituzioni locali consentono a Tecnowind di accadere a un nuovo Concordato che salva una produzione temporanea ma non risolve la questione strategica di una liquidità che deve essere necessariamente di lungo periodo. 

Cedere l'azienda resta l'imperativo fondamentale e ancora nel mese di luglio 2017 il Mise rilancia, palando di almeno un paio di trattative finalizzate alla vendita di Tecnowind che però, come già accaduto, svaniscono senza lasciare traccia mentre si avvicina il 4 novembre, data di scadenza del secondo Concordato con i creditori.

Tra novembre e dicembre del 2017 la situazione precipita con gli acquirenti che quotidianamente appaiono e scompaiono, mentre gli stipendi sembrano diventati una variabile tra le tante e s profila la mobilità per 140 dipendenti, dato che la cassa integrazione andrà a chiudere il suo ciclo il 17 dicembre. 

Il 10 gennaio 2018 il licenziamento di 140 dipendenti viene congelato ma l'INPS boccia la cassa integrazione della seconda metà del mese di dicembre 2017. Sono segnali inequivocabili di un default che nessuno vuole vedere, anche se incombe come mai prima d'ora. 

Il 10 febbraio dalla Regione arriva la notizia che la cassa integrazione è confermata per altri sei mesi e sembra una boccata d'ossigeno che fa sparare ancora. In realtà è solo una giornata di bonaccia che annuncia la tempesta: dieci giorni dopo il Tribunale dichiara il fallimento della Tecnowind. 

Il 22 febbraio i lavoratori firmano il licenziamento collettivo e abbandonano simbolicamente le loro t-shirt aziendali avanti alla Fontana Sturinalto: non ci saranno più corpi a indossarle ed è il simbolismo brutale del lavoro perduto.

La storia di Tecnowind finisce: un'implosione prolungata, un lungo tracollo che poteva essere evitato se solo si fosse capito e detto quali fossero le condizioni dell'azienda già nell'estate del 2013. Servivano sicuramente denaro e acquirenti ma era fondamentale anche un po' di verità: invece è stato uno stillicidio di finzioni, di opacità, di cortine fumogene, di ombre cinesi e di illusioni dispensate senza scrupoli, senza sosta e senza senso.

Ai lavoratori della Tecnowind è stato reso difficile tutto, anche ritirare i propri effetti personali. Per farlo devono adattarsi a una procedura senza cuore perché anche il poco che resta rientra nel perimetro del fallimento. Dopo il danno arriva sempre la beffa.
    

11 dicembre 2017

Regalo di Natale: Fedrigoni vende il 22 dicembre?

Lasciamo alle nostre spalle il villaggio di Babbo Natale e procediamo in direzione Vetralla per parlare delle Cartiere Fedrigoni

Dopo il fallimento della trattativa con Benetton-Bonomi e l'annullamento della commessa indiana, che a fine settembre aveva messo in difficoltà la produzione fabrianese di carta moneta del gruppo veneto, hanno ricominciato a circolare voci insistenti sulla imminente vendita di Fedrigoni.

A rilanciare la notizia è stato Il Sole 24 Ore - ripreso dal quotidiano Il Giornale Trentino del 9 dicembre - secondo il quale è quasi giunta al traguardo la trattativa tra il gruppo Fedrigoni e il Fondo statunitense di private equity Bain Capital.

Secondo il quotidiano del Trentino l'operazione verrà chiusa il prossimo 22 dicembre. Ipotesi che trova conferma in un'affermazione del giornalista Carlo Festa del Sole, secondo il quale la trattativa sarebbe nella fase di due diligence, ossia di verifica delle condizioni di fattibilità dell’operazione e dell'eventuale presenza di elementi in grado di compromettere un esito positivo dell'acquisizione.

Del resto i dati di bilancio del 2016 rendono estremamente appetibile il gruppo Fedrigoni: un miliardo di fatturato a fronte di un utile di 63 milioni di euro sono valori attrattivi per un Fondo di private equity, sicuramente più remunerativi di un investimento in titoli di stato.

La vendita di un gruppo industriale a proprietà familiare a un Fondo che persegue istituzionalmente obiettivi finanziari cambia radicalmente lo scenario e le prospettive di sviluppo industriale perché il  raggiungimento degli obiettivi di redditività - necessari per remunerare gli azionisti - spingerà il management del Fondo ad applicare ricette assolutamente tradizionali: taglio delle produzioni meno remunerative, ammortizzatori sociali e riduzione dei posti di lavoro effettivi attraverso il palliativo degli "scivoli" e dei prepensionamenti.

Gli stabilimenti fabrianesi sono un pezzo importante di questa trattativa perché l'imprevedibilità dei mercati - di cui abbiamo avuto prova con la commessa indiana - è tale da escludere la possibilità di produzioni al riparo dal rischio di tagli e di ridimensionamenti.

L'amministrazione comunale, le organizzazioni sindacali e datoriali e la società fabrianese non possono sottovalutare quanto sta accadendo perchè sugli stabilimenti fabrianesi di Fedrigoni pesa un'incognita sociale e occupazionale ma anche simbolica per ciò che la carta e le cartiere rappresentano nell'immaginario collettivo della nostra città e del nostro territorio.

Il 22 dicembre, se sarà quella la data, è dietro l'angolo. Anzi è già ieri.
    

25 ottobre 2017

Il Filo d'Arianna e il labirinto Tecnowind

C'è un buco nero nella questione Tecnowind, un non detto che rende incomprensibile, ai più, quel che davvero sta accadendo all'azienda. Si parla quotidianamente di esuberi, di banche, di concordati, di Fondi d'oltreoceano, di mobilità, di road map e di licenziamenti. Un pastiche che dall'esterno si fatica a decifrare perché manca il Filo di Arianna, l'elemento che consente di uscire da un lunghissimo e ormai cronico labirinto industriale.

Lo storytelling del caso Tecnowind ha la stessa impronta fumogena di quello utilizzato per la Ardo, ossia evocare responsabilità appetibili per un'opinione pubblica alla perenne ricerca di una spiegazione conveniente e di un nemico identificabile su cui scaricare rabbie e tensioni: il ruolo nefasto delle banche, i compratori che appaiono e scompaiono a fisarmonica secondo gli opportunismi del momento, il silenzio claustrale sui conti che sono l'unica fonte plausibile per stabilire lo stato di salute dell'azienda.

In realtà il Filo d'Arianna c'è anche se non si vede bene perchè senza uno sguardo di medio periodo l'occhio si focalizza solo sugli ultimi avvenimenti perdendo di vista la visione d'insieme. Sarò anche ripetitivo ma repetita iuvant: è fondamentale tornare al 2013, l'anno della salvezza temporanea di Tecnowind, quando l'azienda - vale la pena ricordarlo agli smemorati - era così malconcia da essere venduta al prezzo simbolico di un euro.

La "salvezza temporanea" fu il risultato della vendita a prezzo simbolico e di altri due elementi: òa richiesta - accettata dal Tribunale - del concordato preventivo con proseguimento dell'attività e lo sblocco della liquidità concesso dagli istituti bancari a corollario del concordato medesimo.

Di fatto l'azienda fu regalata, scaricando sui fornitori una quota rilevante dei suoi problemi finanziari e con un intervento delle banche davvero ai limiti delle dinamiche di mercato.

La contropartita di queste condizioni di favore - che consentirono l'ingresso di una nuova proprietà - era, ovviamente, un risanamento capace di trasformare la Tecnowind in un'azienda capace di reggersi da sola e di competere sul mercato delle cappe aspiranti senza corsie preferenziali e senza aiutini.

A distanza di quattro anni siamo di nuovo da capo a dodici: l'azienda è in vendita, ha richiesto ed ottenuto per la seconda volta il concordato preventivo, gli acquirenti latitano e sono state avviate le procedure di mobilità.

Il Filo d'Arianna c'è e si vede bene: Tecnowind non è sostenibile dal punto di vista industriale e non produce risultati per gli azionisti, come dimostra il frequente cambio della proprietà, perché un'azienda redditizia non viene messa in vendita sperando nel primo acquirente che capita e come se non ci fosse un domani.

A questo punto, per fare il bis della Ardo, mancano solo gli acquirenti cinesi e iraniani, a riprova che, a Fabriano, raccontare la verità è una sfida impossibile. Il recente passato non ci ha insegnato nulla. Ben ci sta.
    

31 luglio 2017

Il fabrianese devoto al dio Parcheggio

Lo ammetto: le cosiddette “riforme a costo zero” sono una mia ossessione, le considero uno strumento interessante per cambiare la città senza svenarsi col mantra del "non c'è i soldi". 

Le riforma e costo zero aiutano a migliorare l'esistente, danno all'occhio la sua parte e fanno sentire il cittadino in uno spazio più bello. 

Quel che è sfuggito, fino ad ora, ai decisori politici è che il principale servizio che un’amministrazione deve assicurare ai suoi cittadini è legato al decoro, alla bellezza e alla conservazione delle cose e dei luoghi. Azioni che, in alcune circostanze, possono essere realizzate combinando costi sostenibili ed elevato valore aggiunto. 

Gli ultimi dieci anni, invece, sono stati un’epopea dell’abbandono, un trionfo del rattoppo, un continuo ricoprire crepe che si aprivano nel corpo della città fino a formare una rea mistura, di degrado urbano e di rammendo senza bussola, sempre più estesa e sempre meno reversibile. 

La manutenzione, in questo senso, non ha ragion d'essere come intervento di routine ma rappresenta un altro modo di vedere le cose: è il superamento del richiamo dantesco al “guarda e passa”, è cambiare la scena aggirando il vincolo finanziario, intervenire innestando il senso estetico sulla volontà politica. 

Riformare é ridare forma e, a Fabriano, lo spazio urbano più bisognoso di nuova forma è il centro storico, la città vecchia marginalizzata da crimini urbanistici che hanno spinto verso la periferia il cuore pulsante della città. 

Il nodo da sciogliere intra-muros, il tema su cui si misurano le differenze tra i riformatori e gli immobilisti, riguarda la circolazione automobilistica e le ipotesi di pedonalizzazione ma a monte c'è dell'altro: lo stravolgimento urbanistico ed estetico prodotto dall’assoluta predominanza dei parcheggi

Siamo di fronte a un diritto di sosta vissuto come una prerogativa regale, un dio delle piccole cose assoluto e insindacabile, l'unica vera linea di demarcazione per il fabrianese tra l'esercizio della libertà e la negazione dei diritti umani. 

Insomma, non è più l’occhio a volere la sua parte ma il culo, la comodità più spinta, la vantaggiosa prossimità all’uscio di casa, il particulare sedentario che si fa clava e feticcio. 

C’è effettivamente qualcosa di patologico nel modo in cui i fabrianesi concepiscono il parcheggiare nel centro cittadino. Via Zobicco - lunga, diritta e ricavata tra i Giardini Margherita e le vecchie mura - è imbruttita da un cordone permanente di vetture, allontanate solo dalle riprese della fiction sulle monachelle e dal rischio di rimozione del venerdì mattina. 

Idem per Piazza Quintino Sella, dove ogni centimetro disponibile è stato assegnato alla sacra esigenza di sosta e fermata. Per non parlare di Piazza Partigiani, col grande albero che introduce delicatamente ai Vicoli del Piano circondato da auto infilzate a tutti i costi grazie a manovre effettuate con maestria d'orefice. 

E che dire della suggestiva Piazza Amedeo di Savoia - gioiellino a imbuto che converge a lato della Cattedrale, lastricata di strisce blu e di automobili -, di San Benedetto, brutalizzata da alberi che andrebbero trapiantati altrove e dal solito parcheggio funzionale ai quattro gatti della sosta infinita. 

Ma il culmine e la sintesi visiva di come la deificazione del parcheggio sia al servizio del cattivo gusto é rappresentata dalla piazzetta di San Niccolò, un tempo segnata da quattro aiuole a discesa essenziali e lineari e oggi ridotta al grottesco, come in un dipinto di Bosch, da 12 posti auto e 4 bidoni della differenziata

Scampoli estetici della città medievale - ce ne sarebbero tantissimi altri meritevoli di altrettante citazioni indignate - destinati dal fabrianese anaffettivo e funzionale a una bruttezza intesa come tendenza a modificare lo spazio, le sue vocazioni e la sua tradizione in nome di un'utilità quotidiana assolutamente spicciola e sedentaria.

Aveva, quindi, ragione lo scrittore colombiano Nicolás Gómez Dávila nel dire che “la bruttezza di un oggetto è la condizione preliminare del suo moltiplicarsi su scala industriale”. 

Ed è per questo che la linea divisoria tra cambiamento e conservazione passa anche dalla destinazione d'uso di queste piazze e piazzette. Restituirle a uno sguardo incantato è politica della bellezza declinata nella realtà.
    

19 luglio 2017

La politica, il sampietrino e l'erba alta

Negli anni passati i cittadini fabrianesi si sono trovati, in diverse circostanze, a comportarsi come Renzo Tramaglino nei Promessi Sposi: partire accesi e belligeranti e poi placarsi davanti al latinorum dei Don Abbondio di Palazzo Chiavelli.

Il "calmante" dispensato al popolo bizzoso era di un genere assai efficace: impedimenti tutto abbastanza verosimili, rinforzati da sistematici richiami alla microlingua amministrativa, ovvero al latinorum della dittatura burocratica.

La rigidità del bilancio, la proliferazione della spesa corrente, il Patto di Stabilità, il gioco dei residui attivi, i danni erariali sono stati rimandi di sistema accorati ed efficaci che, come una goccia cinese, hanno finito per convincere anche i cittadini più riottosi che ci fosse davvero poco da fare.

In poco tempo molti fabrianesi hanno cominciato a pensare che la funzione di un'amministrazione comunale fosse meramente esecutiva e notarile, ovvero acefala e privata all'origine di quelle libertà d'azione e di scelta che dovrebbero essere requisiti fondamentali dell'esercizio della volontà politica.

Questo appiattimento indotto dall'alto ha prodotto una duplice conseguenza: da un lato ha pompato nelle vene della comunità locale dosi cavalline di arrendevole fatalismo; dall'altro ha spinto a credere che qualsiasi provvedimento fosse sempre il frutto di una necessità e sempre irreversibile nelle sue conseguenze.

L'appiattimento indotto è stato ribattezzato realismo e molti hanno creduto che nella teorizzazione dell'immobilismo dovuto a vincoli insormontabili risiedesse una sorta di sguardo più lucido e disincantato da esibire con orgoglio ai sognatori urlanti.

In realtà, come sosteneva Einstein, "tutti sanno che una cosa è impossibile da realizzare finché arriva uno sprovveduto che non lo sa e la inventa".

La sfida della nuova amministrazione comunale sarà, appunto, essere sprovveduti, fare quel che sembrava impossibile, dimostrando che impossibile non era e non è.

Il desiderio di cambiamento, inequivocabilmente impostosi col voto dello scorso giugno, si è rapidamente declinato in due scuole di pensiero: da una parte gli assertori del "poco e bene", figli situazionisti dell'appiattimento indotto, tuttora convinti che la politica altro non sia che ordinaria amministrazione; dall'altra quella parte di cittadini che, per mille e sacrosante ragioni, vogliono chiudere con un passato ridotto a fardello e senza l'appiglio della famigerata formula del rinnovamento nella continuità.

I minimalisti del "poco e bene" si riconoscono al volo: le loro doglianze si limitano al sampietrino rotto, alla siepe ridondante, alla comunicazione di inizio lavori, all'erba alta e alla carta per terra. Il Sindaco, per loro, è un amministratore di condominio in fascia tricolore, un occhiuto smistatore di manutentori.

Poi ci sono quelli del cambio radicale, gli inappagati convinti che la politica debba prevalere sulla burocrazia, che il bilancio sia uno strumento al servizio di un disegno strategico e che l'urbanistica sia un veicolo essenziale per riscrivere il destino di una comunità e il suo modo di stare insieme.

La passata amministrazione faceva poco e male e, senza mediazione alcuna, considerava gli inappagati soggetti petulanti e ingenui. La nuova amministrazione non può scegliere tra minimalisti e inappagati perchè il suo largo consenso taglia trasversalmente le due categorie.

La Giunta dovrà fare il "poco e bene" e, nello stesso tempo, tenere sempre desta la rottura col passato. Per questo le due partite più complicate per Santarelli saranno più politiche che amministrative: la gestione del consenso e la costruzione di alleanze.

Una sfida nuova e difficile anche per le minoranze che, diversamente dal passato, non possono più accontetarsi di fare un'opposizione senza politica, limitata al pelo e contropelo su determine e delibere. Nulla sarà più come prima. Conviene capirlo. Senza nostalgie e senza rivalse.
    

4 luglio 2017

Il Consiglio che verrà

I giornali locali, al netto di molte fantasie e diverse supposizioni, rilanciano da qualche giorno la possibilità che il Movimento 5 Stelle sia disponibile a votare un esponente della minoranza come Presidente del Consiglio Comunale.

Non ci sono dichiarazioni ufficiali in tal senso e, di solito, le ricostruzioni di retroscena non coincidono con le reali posizioni grilline. Resta il fatto che l'ipotesi è suggestiva e politicamente interessante perchè mai, fino ad ora, i vincitori delle elezioni comunali hanno rinunciato allo spoil system sulla Presidenza del civico consesso.

Il Presidente del Consiglio Comunale, nei precedenti mandati amministrativi, si è sempre caratterizzato come figura politica, pienamente inserita nelle dinamiche "distributive" di maggioranza, più sensibile, per default, alle esigenze di governo che non al ruolo di garanzia richiesto dalla carica e dai poteri previsti dalla norma e dallo Statuto.

Se il Movimento 5 Stelle dovesse aprire a un Presidente espresso dalla minoranza si farebbe interprete di un atto politico di rottura rispetto al passato e di unità prospettica del Consiglio Comunale inteso come sede e fulcro della rappresentanza politica dei fabrianesi.

In questo caso si getterebbero le "basi climatiche" di questo mandato amministrativo, con una maggioranza aperta al confronto e un'opposizione costretta dall'apertura a cambiare pelle e atteggiamento. 

Il risultato sarebbe una vera e propria riforma di sistema rispetto al passato: una maggioranza che non cade nella tentazione arrogante dell'autosufficienza e una minoranza che non si rinchiude in uno sconfittismo rumoroso e rancoroso.

Se fosse questa l'intenzione politica dei grillini si porrebbe la questione del "come" e del "chi", ovvero il metodo e il soggetto. la questione del metodo è decisiva perchè se è vero che non può essere il 5 Stelle a scegliere il Presidente indicato dalla minoranza è altrettanto vero che un Presidente ostile ai grillini sarebbe inconcepibile e intollerabile proprio nell'ottica di un recupero del ruolo di garanzia connesso a questa figura.

La soluzione potrebbe essere quella di chiedere alla minoranza di indicare una terna di nomi e poi sottoscrivere un accordo serio, trasparente, pubblico e di sistema su una personalità che possa garantire l'intero Consiglio e la sua dialettica che, non dimentichiamolo mai, è sempre il risultato insindacabile della volontà popolare.

La gestione politica del "come" e del "chi", ovviamente, lascia scoperto un altro versante e cioè quello del "se" perchè avere un Presidente espresso dalla minoranza comporta un rischio politico e operativo.

Ma qui entra in gioco la linea di governo che caratterizzerà la nuova amministrazione: se Santarelli vuole procedere spedito come un treno - con poche mediazioni politiche - un Presidente espresso dalla minoranza potrebbe rappresentare un potenziale nodo critico; se, invece, la scommessa dei grillini vuole essere inclusiva, basata sul consenso e sulla ricostruzione di un clima unitario e collaborativo allora l'azzardo può diventare una grande opportunità.

Un fatto è certo: stavolta la scelta del Presidente del Consiglio Comunale non sarà di routine, una casella a disposizione di un appetito da soddisfare ma un primo segnale politico di quali saranno l'approccio e il taglio di questa Giunta Santarelli.
    

28 giugno 2017

La sconfitta del PD: ieri, oggi e domani

Vae victis, verrebbe da dire. Guai ai vinti. Specie quando non riconoscono di essere gli artefici della sconfitta e accampano scuse, ribaltano su forze esterne i propri limiti di visione e delineano macro tendenze nazionali per evitare il bisturi e autoassolversi da ogni anatomia politica su sé stessi.

Il Pd di Fabriano ha perso male nonostante l'illusione della vittoria fosse un mantra che non hai mai abbandonato i protagonisti della coalizione Insieme per Fabriano.

Il distacco tra palco e realtà, la forbice smisurata tra aspettative e risultati ha irretito il gruppo dirigente del partito che a quasi tre giorni dal voto, a parte il balbettìo imbranato del segretario e del vicesegretario del partito, non è stato ancora capace di esprimere un giudizio politico degno di attenzione e di nota.

Questo silenzio ittico è un lusso che il Partito Democratico non può permettersi perchè la rappresentanza politica è una cosa seria: il suo candidato Sindaco ha ottenuto il consenso del 40% dei cittadini votanti e il PD esprimerà 4 consiglieri comunali, ovvero la metà dei seggi attribuiti alla minoranza .

La scelta di tacere, oltre a essere la conseguenza depressiva di un fortissimo shock politico, è anche connessa al tentativo di minimizzare il risultato fabrianese, di diluirlo e contestualizzarlo nel grande calderone del renzismo singhiozzante per non fare i conti con errori, carenze e presunzioni politiche.

Non sono casuali, da questo punto di vista, le dichiarazioni della Senatrice Silvana Amati - esponente di rilievo del PD marchigiano - secondo cui la crisi industriale, il terremoto e la neve hanno determinato il successo del 5 Stelle, quasi avvalorando l'idea di una sconfitta maturata in un contesto esterno e oggettivo di "calamità" naturali ed economiche su cui la volontà politica del Pd non poteva né agire né incidere.

E' molto probabile che sia proprio questa la linea difensiva del vertice democratico cittadino; il "non potevo" che rimpiazza il "non volevo", una fuga dalla responsabilità politica che può funzionare anche perchè il Pd fabrianese non esprime da tempo una minoranza interna combattiva, in grado di contestare questa interpretazione farlocca del voto e di proporre un gruppo dirigente e una linea alternativi rispetto a quello incentrati sul pernicioso Patto di Attiggio.


Ma c'è anche un altro elemento che racconta e descrive il silenzio poco innocente dei vertici del PD locale, è cioè il tentativo di guadagnare tempo, di posticipare gesti e parole in attesa che si chiarisca la partita sanguinosa che le sconfitte di Fabriano e di Civitanova Marche hanno aperto nel Pd regionale, inaugurata da un pesantissimo scambio di accuse tra il Sindaco di Pesaro Ricci e il Segretario Regionale Comi.

Il risultato di questa partita multi livello sarà un Pd cittadino percepito dalla società fabrianese come una forza politica inutile, un corpo residuale, una terra del tramonto destinata ad accogliere reduci, depressi e perdenti.

E' per tutto questo che la sconfitta subita domenica scorsa dal PD prosegue; perchè quando si perde male si perde più volte. Il dato delle urne, infatti, non è epocale solo per la dimensione del risultato ma perchè si innesta sul corpo di un partito oramai spopolato di militanti e dirigenti.

Se dovessero saltare Crocetti e Ducoli l'alternativa alla loro esclusione potrebbe essere soltanto un ritorno di Sorci, Mingarelli e Sagramola perchè il Pd non ha figure nuove su cui investire, ma solo uomini del passato che non possono rappresentare la svolta politica e culturale di cui il PD ha bisogno per uscire dal pantano in cui si è allegramente infilato.

Comunque vada per il Partito Democratico non sarà un successo. E in fin dei conti non sappiamo dolercene.
    

26 giugno 2017

L'assalto al cielo di Santarelli & Friends

Gabriele Santarelli ha vinto in modo netto, con numeri referendari e da mandato popolare pieno, replicando su piccola scala quanto  visto a Torino con il successo di rincorsa della Appendino su Fassino. 

Le dimensioni del risultato sono un fatto epocale per la nostra città, la prova numerica di un lunghissimo ciclo di vita politico e sociale che si chiude, il segno tangibile di un blocco politico, e forse sociale, che cede dopo decenni di continuità, di conformismo e di potere.

In questo senso la vittoria di Santarelli va oltre Santarelli perchè attorno al nuovo Sindaco di Fabriano si è polarizzato un bisogno diffuso, un sentiment di cui era giunto inesorabilmente il tempo: tentare il cambiamento pensandolo come una sfida allegra, senza timori mortuari e senza ricadere nel giogo antico e atavico di una prudenza sicuramente cinica, apparentemente saggia e, alla fine, assolutamente immobile e immutabile.

Per questo il nuovo Sindaco, già da stamattina, si troverà sulle spalle un pesante fardello di responsabilità legate sia al ruolo che al contesto; responsabilità che non sono soltanto di governo della città ma anche più squisitamente politiche. La Giunta Santarelli - per tenere accese partecipazione e inclusione -  dovrà agire in parallelo su almeno quattro versanti
  • realizzare velocemente le prime riforme a costo zero per dare il senso di una direzione di marcia decisa e definita e per tenere caldo l'umore popolare;
  • restituire alla città un minimo di bellezza, ferita e violata da azioni anaffettive e funzionali, che consenta ai cittadini di riavvicinarsi sentimentalmente a strade, piazze e luoghi;
  • lavorare sul clima per restituire ai fabrianesi libere condizioni di dialettica politica da tempo conculcate per non disturbare i manovratori e per alimentare un insostenibile apartheid tra "sommersi" e "salvati";
  • allargare i confini della rappresentanza attraverso il coinvolgimento sistematico dei cittadini.
Ma attenzione, perchè la vittoria di Santarelli non è soltanto il frutto di condizioni esterne e di dinamiche ambientali irripetibili. Il neo Sindaco di Fabriano ha condotto una buona campagna elettorale, restando fermo sui contenuti e mitigando, innanzitutto, certe asprezze caratteriali che avrebbero potuto trasmettere agli elettori il sentore di  qualche deficit di empatia

Con il passare delle settimane il candidato e il Movimento 5 Stelle si sono imposti sulla scena con pacatezza e tranquillità, attraverso un approccio mite che ha reso l'elettorato più disponibile ad ascoltarli e meno propenso a farsi incantare da quel rilancio delle paure che il centrosinistra ha utilizzato con pochissima credibilità ed evidente disperazione.

Il bisogno di un cambiamento profondo, i lineamenti di un grillismo levigato, un candidato Sindaco che ha rinunciato a vestire gli abito del tribuno e a urtare la sensibilità moderata dei fabrianesi: sono questi alcuni tra gli ingredienti di una vittoria schiacciante non solo nei numeri ma anche nei simboli e nel risvolto politico-culturale.

Per completare il quadro non possiamo non dire due parole sulla controparte di questo ballottaggio. La sconfitta di Balducci e del Pd ha qualcosa di profondo e definitivo, il segno di una comunità che si è ribellata al centrosinistra, che detesta profondamente quella parte politica e che ha desiderato punirla più ogni altra cosa.

E' questo il significato profondo della disfatta del PD, la perdita di connessione col popolo della sinistra, non l'analisi recriminatoria su come abbiano votato gli elettori di Arteconi e quelli di Scattolini.

Ogni azione del Pd e della sua coalizione è stata un errore madornale, ripetuto, seriale: il modo in cui è stata chiusa l'esperienza Sagramola, la scelta di un candidato Sindaco che non poteva incarnare il senso di una svolta ed è diventato anche ingiustamente un capro espiatorio, una coalizione raffazzonata di liste impresentabili, di logori democristiani, di vecchie cariatidi della sinistra, di frati cercatori, di giovanotti e ragazzine in cerca di prima occupazione. 

Il tutto condito da una comunicazione suicida - basti pensare al blu arcoriano dei materiali di propaganda - e da scelte difficili da comprendere e da spiegare a lume di ragione, come i fabrianesi ricevuti tra le 18 e le 20, in stile medico della mutua, e la presenza semiclandestina e provocatoria di un Presidente di Regione che invece di parlare di sanità coi cittadini si chiude eremiticamente ed ermeticamente in un ristorante circondato da qualche candidato e da pochi operatori.

Il cambiamento politico ha questo di bello: pulisce, elimina la foschia, rende l'aria pià fresca e più respirabile. Se Santarelli & Friends sapranno tenere il cielo limpido, giocando sull'inclusione e sul confronto, ne trarrà giovamento la comunità fabrianese e potremo dire di aver aperto una pagina nuova.

Li attendiamo alla prova dei fatti, che sono sempre decisivi e sovrani, perchè come ho scritto qualche giorno fa per sapere se il budino è buono bisogna mangiarlo.

Nel frattempo un grande in bocca al lupo a Gabriele Santarelli e alla sua compagine consiliare e amministrativa da un non grillino che ha avuto molto più paura di una continuità asfissiante che di un cambiamento rischioso.
    

9 giugno 2017

E adesso sono in 3 e ½ a ballare l'Hully Gully

Stasera si chiude la campagna per le Comunali 2017 e il silenzio elettorale previsto dalla legge sembra quasi un regalo ai timpani, una sosta provvidenziale e delicata, donata dal sistema dopo un mese di scivoloni di stile e di polemiche limacciose.

E' stata una delle peggiori campagne elettorali degli ultimi decenni: povera di contenuti ma ricca di male parole e cattivi pensieri, quasi irridente nei confronti di una città accasciata, segnata al ribasso da guitti e frombolieri e dalla calca di aspiranti consiglieri rapiti da un "metterci la faccia" più simile a un selfie che a un'assunzione di responsabilità pubblica.

Al netto di frivolezze e di bassa cucina, il consuntivo politico della campagna elettorale appare un po' diverso dalle previsioni iniziali. Quella che era sembrata una partita a due, un bipolarismo quasi inglese completato dalla presenza più o meno rilevante di comprimari e cespugli, ha finito per diventare una sfida a 3 e 1/2.

Inizialmente, al centro della scena c'erano solo due figure: Santarelli del Movimento 5 Stelle e Balducci, a capo di una coalizione di centrosinistra imperniata sul PD.  

Un mese di campagna elettorale non ha certamente stravolto la scena iniziale ma ha reso il quadro più complesso perchè l'approccio soft dei due favoriti ha impedito la polarizzazione dello scontro politico, liberando consenso ed energie a favore di quelli che erano stati inchiodati al ruolo di candidati minori: Arteconi dei Progressisti e Scattolini del Centrodestra.

Ovviamente Balducci e Santarelli restano in pole position per il ballottaggio, ma sia Scattolini che, soprattutto, Arteconi sono usciti dal confinamento iniziale e dal destino di cespugli muniti di una dote spendibile giusto tra il primo e il secondo turno.

In questo contesto Arteconi ha realizzato una duplice operazione politica: riaggregare la sinistra tradizionale, quella della diaspora post '89, attorno a una figura capace di risolvere conflittualità antiche, di levigare rancori storici e di offrire una sponda a fasce di elettorato in uscita dal PD ma frenate rispetto a un approdo diretto al Movimento 5 Stelle.

La sfida, come si diceva, è a 3 e 1/2 e non a 4 perchè il Centrodestra e Scattolini - nonostante un recupero di credibilità rispetto a qualche settimana fa - hanno dato l'impressione dell'anatra zoppa, di una coalizione che avrebbe potuto sfruttare un'occasione irripetibile ma che si è incartata da sola: il pessimo spettacolo offerto al momento di scegliere il candidato Sindaco, l'azione di reciproca guerriglia con la lista Janus e il sospetto, mai chiarito in modo netto e definitivo, di un possibile soccorso nero-verde al centrosinistra in difficoltà.

La campagna elettorale si chiude con un quadro più mosso e interessante in cui i comprimari potrebberio emergere come influenzatori decisivi, anche se da questo inatteso dinamismo non è detto emergano sorprese inaudite o, semplicemente, degne di nota.

Per ora sappiamo soltanto che adesso sono 3 e 1/2 a ballare l'Hully Gully. Il resto, che é poi la verità insindacabile dei fatti e dei numeri, lo conosceremo soltanto domenica notte.  

Buon voto a tutti i fabrianesi!
    

12 maggio 2017

La disfida in bilico dell'11 di giugno

Fino a qualche settimana fa per sviluppare una previsione sul risultato delle comunali di giugno era necessario avventurarsi in una valutazione "sociologica" di pesi e influenze, ossia capire quanto potesse incidere, sull'esito elettorale, il rapporto tra desiderio di innovazione e volontà di conservazione.

Negli ultimi giorni ci sono state accelerazioni che hanno prodotto cambiamenti significativi, movimenti carsici che stanno dando forma a un nuovo contesto che per essere inquadrato e compreso va tenuto distinto dalla dinamica caotica che ha segnato la definizione delle liste.

Il movimento in atto è tipicamente centripeto e spinge soggetti in apparenza incompatibili verso una convergenza di fatto, finalizzata a raccogliere in un unico campo l'opposizione politica al Movimento 5 Stelle, la cui ascesa sembra oggi meno trionfante e più resistibile di qualche settimana fa.

La parola d'ordine è diluire, aggiungere posti a tavola, moltiplicare l'offerta elettorale per evitare una polarizzazione che potrebbe avvantaggiare i grillini, più avvezzi alle alte temperature rispetto al tiepido Balducci.

In questo contesto saranno quattro le liste che appoggeranno Balducci: un Pd in versione sacrificale che si presenta con una lista debole e con pochissimi procacciatori di voti per non disturbare l'elezione del segretario Crocetti; un Pd supportato da una raggruppamento trasversale e simil-sinistro ispirato da Ciccio Romani, da una lista verde-socialista-sgarbiana e da una papocchio popolare senza scudocrociato ma democristiano dentro, frutto dell'asse antichissimo e solido tra Ottaviani-Viventi.

L'obiettivo della quaterna balducciana è portare, a tutti i costi, la coalizione sopra quel 30% - che, in queste elezioni, costituirà una vera e propria soglia psicologica e politica - e attivare la sponda di un centrodestra in bilico tra richiami identitarie e tentazioni consociative.

La speranza del centrosinistra è duplice: ottenere un risultato capace di sollecitare i riflessi conservatori del fabrianese medio e chiudere il cerchio al ballottaggio contrattando una migrazione controllata di elettori dal centrodestra al centrosinistra, pronti a turarsi il naso e sostenere Balducci pur di non far vincere il 5 Stelle.

Ci sono cinque incognite in questo schema logico e politico che rischiano di far deragliare il disegno di conventio ad excludendum nei confronti dei grillini: 
  • la sostanziale volatilità e incontrollabilità dell'elettorato di centrodestra; 
  • la difficoltà per i leader del centrodestra di dirottare i voti sul PD dopo aver chiesto consensi per forze radicali e lepeniste come Fratelli d'Italia e la Lega;  
  • la dislocazione del voto nelle frazioni che diventeranno decisive qualora la partita del ballottaggio dovesse decidersi al photofinish;
  • la difficoltà a utilizzare richiami della foresta antigrillini come accadde alle comunali del 2007 in chiave antifascista;
  • l'incognita politica ed elettorale di una lista di sinistra, quella che sostiene Vinicio Arteconi, che difficilmente, in caso di ballottaggio, potrà essere cooptata in un accordo elettorale a favore di Balducci .
Il candidato sindaco dei grillini ha scelto di affrontare il trend centripeto degli avversari con un approccio deduttivo, leggendo in alcuni processi aggregativi della controparte il sintomo di una grande paura e, quindi, la prova indiretta di una concreta possibilità di vittoria del Movimento.

In realtà non si tratta di manifestazioni di debolezza ma di processi aggregativi destinati a rendere estremamente incerto il risultato. Una cosa è certa: sottovalutare gli avversari -  e vale per i grillini come per il PD - è un errore fatale in una partita epocale in cui a competere non saranno soltanto due candidati principali ma visioni profondamente diverse di una città che, comunque vada, ha bisogno di una scossa che la rimetta in moto.
    

20 aprile 2017

I frizzi e i lazzi di un centrodestra scoppiato

Il centrodestra fabrianese è nel turbine di un miracolo al contrario: racchiudere nel proprio perimetro tutto il carnevale di queste elezioni comunali. 

Il passo indietro deciso da Urbani ha provocato una rottura degli argini politici nel campo berlusconiano e tutti coloro che negli anni passati erano rimasti quieti e nei ranghi hanno cominciato a muoversi in modo scomposto e caotico: passi falsi, repentini cambi di casacca, marchi politici usati come recipienti di piccole ambizioni, candidature annunciate, poi ritirate, quindi riproposte come l'aglio che risale dopo lunga e difficoltosa digestione.

Il risultato è un'area politica che cinque anni fa giunse al ballottaggio con il centrosinistra ed oggi rappresenta un arcipelago sedotto dai frizzi e dai lazzi più che dalla politica, un agglomerato risucchiato da un'insostenibile leggerezza dell'essere e del fare politica

Il centrodestra aveva un'occasione straordinaria: inserirsi come terza forza in una competizione confinata nello scontro bipolare tra grillini e piddini e rappresentare una valida alternativa per chi non vuole farsi schiacciare da una nuova tenaglia politica.

Il volo irrazionale e scomposto del moscone, che pare ispirare la cinetica di tutti i protagonisti del centrodestra, ha invece trasmesso una sensazione diversa: quella di un'area politica scoppiata, che sceglie a caso - per non dire di peggio -, si pente, si duole e si consuma in duelli rusticani che invece di dislocare l'elettorato lo concentrano ulteriormente sui due poli.

Il centrodestra ha pochissimo tempo per invertire la rotta e cambiare atteggiamento. Vincenzo Scattolini, uomo mite e di buone maniere, deve uscire dall'ombra e mettere ordine e pace in una coalizione in cui non si distingue più tra il disegno e il cazzeggio, tra la polis e i balocchi.

Il candidato Sindaco lo deve alla città e agli elettori del centrodestra. La rappresentanza è una cosa seria per tutti a prescindere, anche quando ci si candida per esserci e non per vincere e a prescindere da chi si decide di sostenere e di votare.
    

15 aprile 2017

Metterci la faccia non è più una virtù



Il problema principale del prossimo voto comunale è che si fatica a comporre le liste perché la maggior parte dei soggetti politici ha serie difficoltà a soddisfare il criterio delle quote di genere, conditio sine qua non per l’ammissione delle liste alla competizione elettorale.

Può sembrare un dettaglio tecnico quello delle quote rosa. Ma tecnico non è perché segnala una novità importante rispetto al passato: i fabrianesi, stavolta, non hanno nessuna voglia matta di candidarsi

Fino alle elezioni comunali del 2012 fu un diluvio di consiglieri comunali in pectore, cittadini pronti a proporsi come indispensabili artefici del futuro cittadino. 

E giù incontri, pranzi, cene, santini, manifesti, volantini, immagini, iniziative. Un carnaio di egocentrismi sospesi tra il ludico e il kitch e di soldi buttati senza apprezzabili ritorni.

E’ stata la crisi a cancellare parecchie fantasie politico-elettorali, ma in parallelo essa ha funzionato anche come una mareggiata d’inverno, lasciando a riva tronchi, ossi di seppia, conchiglie, oggetti. 

Fuor di metafora: il gusto della politica si è concentrato attorno a poche persone trascinate dalla corrente, a figure crepuscolari, a tipi da fine corsa, a decadenti chiamati ad assicurare al sistema la delegittimazione conclusiva e il cozzo finale.

Per la stragrande maggioranza dei fabrianesi la parola d’ordine di questa primavera del 2017 è restare alla finestra, tenersi alla larga da liste a candidati, rimarcare un bisogno di distanza vissuto come salvezza e come garanzia.

Stavolta metterci la faccia non è più una virtù ma un rischio di fregatura perché quando un sistema crolla trovarsi nei paraggi nel momento del “chioppo” aumenta la possibilità di trovarsi intrappolati tra il tragico e il patetico.

L’unico modo per fare politica è parlare d’altro: un tempo sarebbe stato un punto di vista controcorrente, riservato a pochi intimi. Oggi é consapevolezza sempre più estesa e diffusa. 

E forse, proprio per questo, non tutto è perduto. Nel frattempo Buona Pasqua!