30 novembre 2013

La fine dei dinoTares


 

Non sappiamo con sicurezza perchè si estinsero i dinosauri, ma abbiamo buone ragioni per ritenere che i lucertoloni sagramoliani abbiano cessato di esistere stamattina, quando ebbri di energie arroganti, di supponenza al limite dell'abuso e di deflagranti appetiti antidemocratici, hanno irriso quel dovere d'ascolto e di comprensione che è parte integrante della funzione politica quando essa si eleva al di sopra del livello medio delle quaglie. Alla disperazione dei fabrianesi impoveriti e vessati i residuati bellici del merlonismo hanno risposto senza il movimento d'un nervo, con le facce trasformate in maschere incaiche e i lineamenti inespressivi degli esattori senza redenzione, ombre bianche e tremule di gerarchetti abituati a colpire di coda e a meditare vendette perchè incapaci di capire il sopraggiungere di nuovi tempi e nuove temperature. La gente gli strappa in faccia le cartelle di pagamento e loro guardano monumentali ed ebeti; poi dicono no a una discussione vera e sanguigna perchè di Tares si parla al punto diciannove, ovvero mai come da programma e da strizza. L'opposizione consiliare, innanzi al fossile diniego, saggiamente molla lo scranno e saluta il consesso ridotto a coccio, a osso buco senza cartilagine commestibile, a contenitore intestinale di volatile democrazia. E quindi la maggioranza, fedele ai propri abissi di mediocrità, riprende come se nulla fosse, archiviando lacrime e disperazione fiscale in nome di questioni vitalissine quali il discutere, con animo e fervore, di carrozze e cavalli, uno squarcio di Mosca sovietica, di vacche da mungere e manone kolcosiane mentre il Muro frana a Berlino e il check point Charlie diventa cimelio ideologico e ricordo fotografico. Il residuo di possibile connessione tra la città e chi la governa è ormai sindone irrimediabilmente lacera. Così come è parso rintocco feroce e simbolico il precipitarsi degli astanti imbufaliti alla conferenza stampa della minoranza, quasi a segnare un distacco visivo tra le istituzioni formali, tuttora infestate da antiche bacillerie merloniane, e un'altra idea del decidere e del condividere oggi incarnata da una minoranza quasi sorpresa di ritrovarsi sull'onda. A scavare il fossato è stata stata l'orgia contabile, la boria di pubbliche burocrazie unicamente interessate a incassare e foraggiare, il precipitarsi a comporre un fatto compiuto perchè non sia mai che qualcuno si accorga che è ancora possibile rimandare il salasso all'anno prossimo venturo. Adesso è il tempo di scavare un fossato strutturale tra le forze vive e quel che resta di una maggioranza di ovini muti, panzoni e proni ai capricci del triumvirato che tiene sotto scacco la politica e la città. Sabato prossimo si terrà, sulla questione Tares, un consiglio comunale aperto, utile quanto può esserlo uno stuzzicadenti per un commensale sdentato. E allora è bene sia chiara una cosa: chiunque parteciperà alla messinscena legittimerà il salasso, perchè ogni giorno che passa avvicina alla data del pagamento e una settimana di decisioni prese ma in apparenza sospese serve solo a calmierare, a lanciare sulla stampa qualche messaggio rassicurante e falso. E' il solito modo democristiano di bidonare il prossimo, facendo credere che c'è ancora spazio per discutere, quando l'unica scelta sensata era farlo oggi cercando di dare linfa a cariche pubbliche svlite e avvilite. Ma questa classe politica ha paura del contatto, della dialettica muscolare, di metterci non solo la faccia ma pure il corpo e le sue mille nervature. Adesso tocca all'opposizione dimostrare di avere ancora un rivolo di sangue e di cultura civica nelle vene. L'altra Fabriano che è emersa oggi ha bisogno di una risposta adeguata alla provocazione arrogante dei DinoTares sagramoliani. C'è solo da sperare che sabato ci sia un'altra assise, che la città sia altrove e Palazzo Chiavelli si spopoli e diventi luogo non di cavalli ma di cammelli. Non di gente che parla in ritardo e a vanvera ma di sabbia, di vento e di dune.
    

Regalo di Natale

C'è un vecchio film di Pupi Avati, che solo a ripensarlo fa salire in bocca un senso di amaro, di assenzio che non si scioglie: Regalo di Natale. Una remota pellicola del 1986 che racconta, con tratto di poesia incantata e pessimista, di un gruppo di amici che, dopo anni, si ritrovano con qualche conto da regolare e quache tradimento mal digerito e male elaborato. Tre di loro consumano la vendetta scorticando gli averi del quarto amico ignaro mentre tutto si svolge in una drammatica notte di Natale in cui, soldi, ricordi e una mano di poker, fanno da sfondo psicologico a una beffa quasi più feroce nel modo che nella disperazione che lentamente s'appropria del tavolo verde. Ci ho ripensato, a questo capolavoro mezzo dimenticato di Pupi Avati, aprendo la busta per il pagamento della Tares. Una missiva con cui l'amministrazione comunale ha sancito la rottura del patto fiduciario che, in quanto vincitrice di democratica competizione, la legava ai fabrianesi come singoli, comunità e corpo elettorale. Di colpo è stato come ritrovarsi seduti attorno a un tavolo da gioco: il fabrianese medio, ingenuo e ignoto come il milite del Vittoriano, in un lato del tavolo rettangolare; Sindaco, Vicesindaco e Dirigente Finanziario sugli altri tre versanti del desco, tutti d'amore e d'accordo a tosare il cittadino puerile e ignaro del raggiro già consegnato all'irrefrenabile inerzia delle cose. Con l'invio delle cartelle Tares, rese fumanti e nervine da aumenti da economia di guerra, una Giunta di benestanti, manco per sogno lambiti dalla crisi, ha deciso di vendicarsi del popolo fabrianese impoverito; una guerra di classe dei ricchi che tolgono ai poveri per finanziare un apparato sovradimensionato e oneroso ma pieno di grasso elettorale e di massa proteica e consensuale già pronta all'uso; un conflitto a bassa intensità in cui, dopo aver fratturato la schiena d'asino del contribuente, gli si concede il lusso sottoproletario di accedere al supermercato del latte scaduto, come non verrebbe in mente neanche a un predicatore mormone chiamato a sovrintendere a una comunità integralista dell'America più profonda. Sono questi gli effetti della dittatura dei numeri, dei valori aggregati che servono a occultare la carne e il sangue di storie personali e familiari, di saldi e quadrature funzionali a imbracare il vero, come foglie di fico rinsecchite e giallastre sui genitali d'una figura michelangiolesca. Purtroppo quel che sta accadendo in queste ore non è espressione di uno strappo imprevisto, di una lacerazione sfuggita alla mano ferma di un pacificatore, ma l'effetto di scelte politiche concrete perchè il centrosinistra sapeva bene che scegliere Sagramola, nel pieno di una crisi devastante, significava spegnere l'incendio di un castagneto con un flut riempito d'acqua gassata; così come Sagramola, una volta eletto, era ben conscio che nominare Tini Assessore al Bilancio avrebbe rinserrato il destino della città in un culto pitagorico del numero, in una rumba algebrica unicamente orientata al ribollir de'Tini e alla sua gloria terrena e imperitura di esperto revisore di conti e conticini, di fogli e fogliettini. E Angelino stesso - non alfano ma da San Donato - sapeva fin da subito che consegnare lo scrigno dei numeri non a Indiana Jones ma a dirigente senza vissuto e radici fabrianesi avrebbe determinato il prevalere del paganesimo contabile sulla religione locale della solidarietà e dello spirito comunitario. E non è un caso, in questo quadro, che si ricorra a una riscossione affidata al braccio secolare dell'Agenzia delle Entrate, perchè una politica ridotta a palcoscenico di non casti divi non può persuadere e convincere il contribuente a tener fede al patto fiscale, ma abbisogna di modalità e approcci imperativi, solerti e spicci. Eppure pare che la protesta spontaneamente salita - come un rivolo di lava - attraverso i blog, i social media e le molte piazze virtuali della fabrianesità abbia creato inediti malpancismi anche nella pecoronissima e inerte maggioranza di centrosinistra, al punto che ieri sera pare si sia tenuta una riunione, non si sa se fiume o acquitrino, sul tema onde trovare la quadra in vista del Consiglio Comunale di oggi. E fanno pensare le vocine discrete che filtrano da ambienti assai vicini al Pd secondo le quali si finirà per attendere la conta dei fabrianesi che stamattina parteciperanno pacificamente ai lavori del Consiglio Comunale prima di decidere se recedere o se andare avanti a testa bassa come i cinghiali delle Cortine. Come se il tanto o il poco dei presenti fossero movimento d'una fisarmonica in grado di restituire, in forma di responso, la moralità o l'iniquità di una decisione che è solo e soltanto responsabilità di chi se ne fa carico.
    

29 novembre 2013

La Giunta che scherza col fuoco


Fuoco 

La grande storia è lastricata di rivolte fiscali, di insubordinazioni tributarie, di resistenza alle azioni prevaricatrici dello Stato onnivoro. Cosa mosse la Rivoluzione Francese se non l'obiezione diffusa del Terzo Stato alle iniquità della fiscalità regia garantita dal sistema degli intendenti creato dal Re Sole? E come si giunse all'indipendenza americana se non attraverso la resistenza dei coloni americani che nel 1773 si rifiutarono di subire le angherie tributarie della madrepatria britannica dando vita al celebre Boston Tea Party? Non stiamo parlando di volgari rivolte, ma di quel diritto d'"appello al cielo", ossia alla resistenza contro l'iniquità del potere, che fu nobilitato e legittimato dal pensiero del grande John Locke. La municipalità fabrianese vive una situazione al limite della rivolta fiscale e hanno fatto bene le associazioni di categoria degli artigiani a pronunciarsi duramente contro la decisione dell'amministrazione comunale di rifiutare un ritorno alla Tarsu, nonostante una legge dello Stato lo consentisse perchè in questo modo hanno costretto le massime cariche cittadine a pronunciarsi senza infingimenti e senza rimandi. Siamo cresciuti pensando che la premura delle istituzioni - rispetto al disagio dei cittadini - fosse inversamente proporzionale alla distanza, ovvero che l'interesse per il bene pubblico diminuisse passando dai comuni, alle province, e da quest'ultime alle regioni, per finire a uno Stato centrale sovranamente lontano e autoreferenziale. Il caso Fabriano ha invece rovesciato questa consolidata certezza, restituendo un volto umano allo Stato centralista e trasferendo all'ente locale, che dovrebbe essere più sensibile ai bisogni della comunità e dei suoi singoli componenti, l'impronta ferrigna e burocratica del potere vessatorio. Stamattina il Sindaco - capace come pochi di trasformare la bonaccia in tempesta - ha replicato a Confartigianato e CNA rovesciando totalmente la frittata. Se Tini era stato abbastanza abile da dire di no al ritorno della Tarsu simulando dispiacere, Sagramola ha squarciato il velo di ogni possibile diplomazia - che è sempre cura delle relazioni e dei rapporti - dichiarando al Messaggero che il Comune non può fare marcia indietro perchè virtuoso nei suoi adempimenti di bilancio, mentre la modifica della legge fa riferimento alle municipalità ritardatarie e in qualche modo morose rispetto ai propri doveri. In pratica al danno della tassazione feroce si aggiunge la beffa della spiegazione, ovvero che i fabrianesi vengono taglieggiati in ragione di quanto è stata brava ed efficiente l'amministrazione di questa città. Di questa rea mistura di indifferenza e disprezzo dobbiamo essere tutti assai grati al primo cittadino, perchè è stato così bravo e tempestivo da sbarrarsi da solo ogni possibilità di un secondo mandato. A tale proposito siamo davvero curiosi di sapere cosa pensino di questa posizione dell'amministrazione i liberali alle vongole che hanno preso in mano il PD cittadino, promettendo nuovo corso e modernità, o quell'on. Lodolini -  marchigiano doc oltre che renziano last minute - che risulta tra i firmatari del provvedimento che consente ai Comuni di fare macchina indietro rispetto alla Tares. Ma c'è un altro aspetto che è emerso in questi giorni di furioso dibattito e cioè la configuazione della catena di comando che determina le decisioni politiche più delicate per la nostra città. Per lungo tempo abbiamo proposto e commentato l'esistenza di una diarchia asimettrica, incentrata sul potere sostanziale del Vicesindaco Tini e sul potere formale del Sindaco Sagramola. Avevamo sbagliato, perchè non si tratta di diarchia asimettrica ma di una vera e propria matrioska: il soggetto che decide - senza se e senza ma - è il dirigente dei servizi finanziari, inamovibile e senza legittimazione elettorale; attorno alla decisione insindacabile del dirigente si staglia il profilo dell'Assessore al Bilancio, che se ne fa megafono politico mentre attorno a Tini si delinea il packaging dal Sindaco, capace di miracoli mediatici al contrario, ossia di rendere indigeribile tutto ciò che si decide e si propone urbi et orbi alla cittadinanza. Il momento di tagliare questo nodo gordiano è giunto, ma purtroppo in città manca una destra liberale capace di trasformare questa visione dei problemi in concreta azione politica. Una destra che non c'è e che non batte un colpo.
    

28 novembre 2013

Ta ta ta ta ta...Tares


 

Il concetto di inerzia applicato al sistema delle decisioni pubbliche riassume la poca volontà di cambiare le cose, il fatalismo di chi potrebbe interrompere un processo ma si guarda bene dal farlo accampando scuse, il far sì che le cose accadano soltanto perchè il decisore ritiene inaccettabile fermare o rallentare ciò che si è messo in moto senza sentirsi smentito nella sua virilità politica.  Prendiamo il caso del decreto del 31 agosto 2013 sull'IMU. La sua conversione in legge è avvenuta in data 28 ottobre 2013, apportando interessanti modifiche al testo originario. All'articolo 5 comma 4-quater si legge che " nel caso in cui il comune continui ad applicare, per l'anno 2013, la tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU) in vigore nell'anno 2012, la copertura della percentuale dei costi eventualmente non coperti dal gettito del tributo e' assicurata attraverso il ricorso a risorse diverse dai proventi della tassa, derivanti dalla fiscalità generale del comune stesso". In pratica il Comune di Fabriano potrebbe serenamente recedere dall'applicazione della Tares - che tante polemiche ha già suscitato tra i cittadini e le forze politiche - senza modificare i saldi di Bilancio e recuperando altrove il differenziale del gettito. Su questa opportunità ha correttamente insistito il Polo 3.0 anche perchè, come ha ricordato il consigliere comunale Solari, sono diversi i municipi che hanno bloccato l'inerzia della decisione presa, coinvolgendo i consigli comunali in una retromarcia condivisa e finalizzata ad alleggerire la pressione fiscale sulle famiglie e sulle piccole imprese produttive e commerciali. L'Assessore Tini è subito intervenuto per sgomberare il campo da qualsiasi tentazion,e seguendo la rodata tecnica del doppio binario: quando lo Stato centrale impone oneri e date bisogna adeguarsi per mantenere intatta la catena di comando; quando invece lascia facoltà di eccepire si fanno orecchie da mercante. Infatti, con parole tristi e costernate, il Vicesindaco ha comunicato, ai cittadini vessati e ridotti a bancomat, che sarebbe davvero bello, per quest'anno, applicare la sola Tarsu, ma non si può, perchè lo Stato centrale doveva farlo sapere prima e adesso è davvero troppo tardi visto che sono partite tutte le operazioni di guerra e di taglieggiamento del contribuente: l'inerzia delle cose oramai non è più possibile interromperla. Insomma, Kennedy riuscì a fermare la crisi dei missili con Cuba, Gorbaciov fu capace di evitare il bagno di sangue nel 1989, Churchill ebbe la forza di rovesciare l'appeasement inglese nei confronti della Germania nazista ma Angelo Tini da San Donato e Immacolata Riscossione non sono in grado di fermare la Tares neanche se a dargli la possibilità non è un capriccio dell'opposizione politica ma una legge dello Stato italiano, di cui l'assessore dovrebbe essere garante e interprete a favore di quei cittadini che pretende di rappresentare. La verità è probabilmente d'altro genere e di natura assai più prosaica di quanto le pubbliche dichiarazioni siano in grado di provare e dimostrare. Anche il gatto, infatti, sa che senza il taglieggiamento sulla Tares - guarda caso da pagare entro il 16 dicembre - i comuni rischiano di non pagare stipendi e tredicesime, a causa della riduzione dei trasferimenti statali e di una struttura che consuma circa l'80% delle risorse incamerate. La sensazione, sempre più fondata e diffusa, è che ormai ogni gesto e ogni decisione siano solo orientate alla tutela autoreferenziale dell'ente, alla difesa sfacciata della sua struttura smisurata e mastodontica, a rimpiazzare la centralità dei servizi con la centralità dei privilegi corporativi e remunerativi della casta dei dipendenti pubblici. E dispiace che un uomo come Tini - abituato dalla propria storia ad avere una chiara cognizione del primato della politica - si dimostri così succube e subalterno rispetto alle pressioni della tecnostruttura. Ma in fondo è un dipendente pubblico anche lui, e notoriamente nessun simile morde il suo simile.
    

27 novembre 2013

I figli della schifosa

Italia: disoccupazione in crescita tra marzo ed aprile 
Una visione distaccata e smaliziata delle questioni sociali ci ha totalmente immunizzati dalle benignate televisive, dal correttissimo paroliere sulla "Costituzione più bella del mondo" e dalla retorica insincera e posticcia sull'articolo 1, mai applicato in quanto inapplicabile ma sempre richiamato per rimarcare il lavoro come diritto e non come effetto di congiunture del mercato e dell'economia. E sempre la stessa lettura delle cose, intelligentemente pessimista, ci ha insegnato che il problema dell'accesso al mercato del lavoro è anche figlio e frutto d'una iniquità sostanziale di trattamento dei lavoratori, della loro diseguaglianza di fatto davanti alla legge in quanto a sostegno, orientamento e tutela da parte del sistema di Welfare. E le differenze tra lavoratori trattati con i guanti bianchi e poveri kunta kinte ridotti a cose posate in un angolo e dimenticate, spicca in tutta la sua geometrica potenza quando l'espulsione dai processi produttivi mette bruscamente in luce le disparità di tutela e di opportunità tra i sommersi e i salvati. In questo quadro spicca, manco a dirlo, il privilegio ontologico dei dipendenti pubblici, emendati dal rischio occupazionale e disposti in una zona franca sindacalmente intoccabile rispetto a qualsiasi oscillazione congiunturale o strutturale dell'economia e del mercato. Questa prima scrematura lascia sul campo soltanto due tipologie di lavoratori privati: quelli delle piccole e piccolissime imprese e quelli che operano in realtà aziendali dimensionalmente più significative. I primi, nettamente prevalenti in un Paese di impresa diffusa come l'Italia, costretti a poco welfare, a coperture risibili, a garanzie limitate e tutele farlocche; gli altri decisamente più riparati dalle maglie del diritto del lavoro, della giurisprudenza e da uno statuto dei lavoratori che nasce socialista ma, alla fine, crea più divisione che inclusione sociale. Ora, quando la crisi rompe l'equilibrio occupazionale, producendo un feroce ridimensionamento degli organici, si stratificano due raggruppamenti: da un lato i dipendenti delle aziende più grandi, che godono di ammortizzatori sociali e normative ad hoc, perchè ritenuti dal sistema massa critica potenzialmente pericolosa per l'equilibrio sociale; dall'altro i dipendenti delle piccole imprese, messi ai margini del mercato del lavoro in forma di lento stillicidio, senza diritto alla cassa integrazione, con uno straccio di mobilità e giusto qualche pacca sulla spalla di fine corsa per rendere ancora più amaro il congedo. Ma a volte questa divaricazione, che dovrebbe far gridare vendetta ai superficiali apologeti della Costituzione più bella del mondo, prosegue nei suoi effetti d'iniquità sociale fino a rendere odiosi non tanto i lavoratori che fruiscono di vantaggi aggiuntivi ma quel sistema statale che invece di garantire pari opportunità sguazza nelle divisioni originarie e le alimenta sfacciatamente. Prendiamo il caso della Ardo, vicenda scandalosa ed emblematica sotto diversi punti di vista. Per garantire l'assistenzialismo di massa il Leviatano statale assicurò una lunga stagione di cassa integrazione, poi rafforzata e potenziata dalla Legge Marzano - coi suoi ammortizzatori lunghi e corredata di finta continuità produttiva -; quindi le cessioni ministeriali contestate e annullate dal Tribunale, e poi l'Accordo di Programma - narrato come panacea d'ogni male territoriale - con tanto di fondi e agevolazioni per chi si faceva carico di riassumere non cassintegrati in genere o licenziati in genere, ma specificamente esuberi provenienti dal mondo Ardo, come se perdere il lavoro altrove fosse minor cosa rispetto al fuoriuscire dall'impero merloniano delle lavatrici conto terzi. Infine, si scopre che per dare un'altra, iniqua mano agli ex lavoratori della Antonio Merloni - che hanno comunque usufruito di tutele incomparabilmente superiori a quelle degli operai dell'indotto espulsi come riflesso della mala gestio merloniana - la Regione non si fa scrupoli di equità e di giustizia, dimenticando che tutti siamo a diverso ma unitario titolo contribuenti di questo ente che moltiplica i centri di spesa e le prebende. E, quindi, fu la volta del FEG (Fondo Europeo di adeguamento alla Globalizzazione), chiamato a finanziare un progetto attivato da Regione Marche e Ministero del Lavoro, basato su tre punti: servizi di orientamento e bilancio di competenze, formazione professionale con possibilità di svolgimento anche in azienda e incentivi finalizzati alla ricollocazione dei lavoratori ex Merloni. Insomma "a chi tanto e a chi niente", con la legge dell'80/20 (l'80% dell'impegno e delle risorse destinati al 20% degli esuberi ad andare bene) perfettamente applicata e pompata e tutto il resto del comprensorio ferito, senza lavoro e popolato di nuovi figli della schifosa per i quali non c'è anima viva a orientare, a incentivare e a formare. E nessuno, per cortesia, venga più a farci la morale se non riusciamo ad applaudire "la Costituzione più bella del mondo" e se ci capita di invocare - mane e sera - l'improbabile avvento di un decennio thatcheriano.
    

26 novembre 2013

Spacca e la voce dei poveri



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Il 12 dicembre verrà inaugurato il supermarket dei poveri e al taglio del nastro sarà presente anche il Governatore Spacca. E’ quindi quasi automatico immaginare, per quella data, un importante afflusso di autorità locali e non, di cravatte regimental e di tailleur scuri, perché il potere onnivoro sa trasformare ogni occasione di probità in una prova autocelebrativa. Scriveva, tanti anni fa, il filosofo tedesco Herbert Marcuse che la vera pornografia e lo scandalo autentico non erano rappresentati dall’esibizione di un pube di donna ma, bensì, dal napalm usato dall'esercito americano nei villaggi vietnamiti. Lo scandalo dei nostri tempi, attualizzando l'approccio del francofortese, non è incarnato soltanto da una povertà sempre più vasta ma dall’uso politico del disagio, dal cerimoniale istituzionale applicato alla triste realtà dei bisogni primari, dall’autocompiacimento di uno Stato che affama le imprese, le spinge a chiudere i battenti o a trasferirsi altrove, mettendo in mezzo alla strada lavoratori che vengono poi tartassati a colpi di tasse, debito pubblico e servizi ridotti al lumicino. Uno Stato che, dopo averti ridotto come un san sebastiano alla colonna, finge di soccorrerti, ricorrendo alle formule più urticanti e allergeniche di compassione riversata dall’alto. Ed è fin troppo facile prevedere che il 12 dicembre troverà forma smagliante e concretezza pindarica la migrazione dal politicamente corretto al politicamente scontato, con il supermercato dei poveri narrato come emblema di come e quanto le istituzioni sappiano farsi carico dei problemi quotidiani e dei bisogni di sopravvivenza materiale che affollano le giornate particolari e amare di tante persone. Così come non mancherà, tra gli astanti inamidati da un senso formale delle circostanze, chi applicherà alle cicatrici sociali il cerottino verbale più consono a far immaginare, nel pomodoro in scadenza, il segno di una comunità che reagisce e dichiara guerra alla povertà, come ama ripetere con retorica normanna l’assessore Saitta. Ovviamente non poteva mancare il convegno tematico, dal titolo “Verso un’alleanza contro le povertà”, in cui si discuterà di povertà non certo attraverso gli occhi dei poveri o degli impoveriti dalla crisi economica e industriale, ma con la lente asettica e sociologica degli esperti in materia, abituati a guardare il disagio con occhio d’entomologo, come fosse una larva di coleottero da sezionare con indifferente e freddissima distanza. E forse Spacca, Saitta e tutto il cucuzzaro farebbero buona cosa a tornare alle parole di Madre Teresa di Calcutta, che era solita sostenere che sono tantissimi quelli che parlano dei poveri e davvero pochi quelli che parlano coi i poveri. Oppure ispirarsi al maledetto e laido Celine, per il quale ogni desiderio dei poveri chiama direttamente in causa il codice penale e non certo le calde poltrone istituzionali.
    

25 novembre 2013

L'eloquenza d'una Piazza vuota

Questa foto l'ho scattata ieri. Non credo mi sia mai accaduto prima di attraversare il Corso di domenica pomeriggio, attorno alle ore 18, e di ritrovarlo completamente deserto. Certo, ieri era una brutta giornata d'autunno, rigida e piovosa, di quelle che suggeriscono e consigliano una prolungata permanenza in poltrona col telecomando in mano o con qualche nota di buona musica. Eppure il clima mite non è esattamente un dato di natura da queste parti e la convivenza con l'"umido" è parte integrante delle stagioni fredde e della nostra scorza di collinari. Allora ho pensato che l'azzeramento delle uscite domenicali potesse dipendere da altri fattori non governabili e indipendenti dai tratti collettivi del carattere fabrianese, come la tendenza ormai prevalente e pervasiva alla socializzazione on line, alle conversazioni su whatsapp e alla rincorsa dei mille applicativi telefonici che trasformano le ore, e a volte l'intera giornata, in un'ininterrotta carrellata di navigazioni e azioni virtuali. Ma pure questa spiegazione, per quanto fondata e modernista, mi è parsa superficiale ed estrema rispetto a un vuoto e a una solitudine urbana più degna di una sconsolata e gelida pittura di Edward Hopper che di uno smartphone di ultima generazione. Così come non fornisce consolazione prospettica, oltre che spiegazione conclusiva, il sapere di moltitudini fabrianesi assiepate nei paraggi del centro commerciale, testimonianza non solo e non tanto di un cambio d'abitudini pomeridiane quanto espressione aggiuntiva di quell'abbandono del centro storico che è problema urbanistico ma anche riscontro di una socialità sempre più ristretta e consumata. Insomma, dopo aver scattato la foto non sono riuscito a trovare una motivazione esaustiva per spiegare quel colpo d'occhio così sconsolante. Nel 1958 il sociologo americano Edward Banfield studiando un paese dell'Italia meridionale introdusse un concetto che è diventato famoso: il familismo amorale. Secondo Banfield la base culturale del sottosviluppo risiederebbe nelle completa scissione tra interesse familiare e interesse sociale, ossia in una cognizione della salvezza esclusivamente legata alla cura di un tornaconto scandito dai vincoli ristretti della consanguineità. In questo senso la piazza cessa di vivere e di pulsare perchè sintetizza l'aspetto associativo della vita e perchè distoglie dalla cura dello spazio domestico, inteso come fortino assediato dalla continua pressione delle contaminazioni esterne. Forse la foto è l'espressione visiva, la prova ottica e fotografica di un precedente e assodato familismo amorale dei fabrianesi, che la crisi ha spinto fino a punte definitive di realizzazione e di compimento. Di fronte a questa nuova linea divisoria, che separa e rende confliggenti interessi individuali e familiari e forme della socialità, ci si può rassegnare immaginando la foto come documento (cosi è se vi pare!), si può innalzare un coro funerario (emigriamo! è finita!) oppure radunare i pochi o i tanti che, di fronte a un'immagine così hopperiana di solitudine e di vuoto, sentono un istintivo rimescolamento di coscienza e di budella che invece di allontanare dalla piazza spinge a ricercarne di nuovo la funzione e lo spirito. In questo moto sentimentale e viscerale - se sincero e legato a una cognizione quasi animalesca delle radici e della comunità - la politica si dispone anche senza intenzionalità come corpo estraneo, come sovrastruttura inutile e impaccio al libero dispiegamento delle residue forze buone. E a volte è sufficiente una sola immagine a nutrire una "didattica del rifiuto" che è propedeutica all'innesco di un'azione costruttiva. E non è un caso che, a volte, sia la comparazione a scatenare la chimica del cambiamento, magari affiancando e confrontando l'eloquenza di una Piazza vuota con il troppo pieno dell'infinita saga Tares, la socialità consumata dai colpi di maglio della crisi con la pressione furente di una municipalità rapace che perseguita il poco che resta di volontà e di ardore popolare. Il grande Tocqueville, di ritorno dal suo fecondo e proficuo soggiorno americano, scrisse parole che, forse, sono ancora in grado di suggerire una risposta: "… L’abitante degli Stati Uniti impara fin dalla nascita che bisogna contare su se stessi per lottare contro i mali e le difficoltà della vita; egli rivolge all’autorità sociale uno sguardo diffidente e inquieto, e fa appello al suo potere solo quando non ne può fare a meno. Si comincia a notare questo fin dalla scuola, dove i bambini si sottomettono, persino nei loro giochi, a regole che essi hanno stabilito e puniscono fra loro colpe da essi stessi definite. Lo stesso spirito si ritrova in tutti gli atti della vita sociale. Si crea un ostacolo sulla pubblica via, il passaggio è interrotto, la circolazione bloccata; i vicini si costituiscono subito in corpo deliberante; da questa assemblea improvvisata uscirà un potere esecutivo che rimedierà al male, ancor prima che l’idea di un’autorità preesistente a quella degli interessati sia venuta in mente a qualcuno. Se si tratta di divertimenti ci si assocerà per dare più splendore e organizzazione alla festa.[….] Negli Stati Uniti ci si associa per scopi di sicurezza pubblica, di commercio, di industria, di morale e di religione. Non vi è nulla che la volontà umana non creda di poter ottenere grazie alla libera azione del potere collettivo degli individui…". Una sola immagine per mille pensieri.

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24 novembre 2013

La pagella della settimana

 
Diego Mingarelli voto 8
Di fronte alla platea grisagliata e istituzionale del cinquantenario della Fondazione Merloni il Presidente provinciale delle piccole imprese di Confindustria è l’unico a uscire dal politicamente corretto, criticando Stato e istituzioni per i quotidiani ostacoli che frappongono alla libertà d’impresa. Giudizio critico: liberatorio!

Fabrizio Bassotti voto 7
Tenendo la Fiom a distanza di sicurezza dall'inciucio lascia il cerino in mano a Fim e Uilm, costringendole a una fantastica giravolta in pochissime ore. Ma tenersi fuori senza proposte alternative è comunque sindacalismo dimezzato. Anche perchè nessuno si salva da solo. Giudizio critico: Rimandato! 

Patrizia Rossi voto 6
Continua nella pratica orientale del silenzio spinto con una brillante prestazione personale che ormai si protrae, ininterrotta, da circa un anno e mezzo. Nel frattempo cultura, scuola e istruzione muoiono tra dimenticanza e inerzia. Straordinaria performance per la città dell’Unesco. Giudizio critico: Ohm! 

Francesco Merloni voto 5
Presiede alle celebrazioni dei 50 anni della Fondazione Merloni in una città blindata dalle forze nell’ordine e senza l’antico consenso degli anni d’oro quando le promenade familiari era accolte da grida di stupere e lancio di petali di rosa. Panta rei, tutto scorre. Anche a Fabriano. Giudizio critico: anacronistico! 

Giancarlo Sagramola voto 4
Dopo aver beatificato in più di una circostanza l’accordo di programma, il primo cittadino si ricrede e ne riconosce limiti, falle e inefficienze burocratiche senza, ovviamente, fare ammenda delle proprie posizioni del passato. Ben venga l’autocritica anche se ogni tanto sarebbe bene che provasse il brivido di avere ragione in anticipo. Giudizio critico: ritardatario! 

Giovanni Balducci voto 3
Sbarca a Washington come ambasciatore oltreoceano del nostro territorio e già per la cosa in sè ci sarebbe da tremare. Attendiamo con ansia l'annuncio urbi et orbi alla cittadinanza fabrianese dell’improvviso sopraggiungere in città di 25.000 turisti a stelle strisce. Cifra forfettaria valida sempre e per tutte le stagioni Giudizio critico: yankee!
    

23 novembre 2013

Il rifiuto di un'Indesit tra i rifiuti


 

La notizia è rimbalzata nei social network con tutta la sua prevedibile potenza virale, in un passaparola rapidissimo e irrefrenabile che ha assunto, nel giro di pochi minuti, la forma di una pandemia mediatica: un dossier dell'Espresso tira pesantemente in ballo la Indesit sulla questione dello smaltimento dei rifiuti tossici in Campania e sui rapporti tra vecchi manager del gruppo ed esponenti della criminalità organizzata. Il settimanale di Via Po, a sostegno della sua inchiesta esclusiva, allega anche "una corposa informativa della Criminalpol del 1996" (Dossier Espresso) che è possibile consultare direttamente e integralmente. Si tratta di uno scoop giornalistico clamoroso ma troppo datato e che anche per questo sospetto anacronismo va trattato con tatto e prudenza. Innanzitutto perchè quando si maneggiano argomenti tanto spinosi e controversi è bene non prendere nulla per oro colato perchè il ginepraio, le trappole e le menzogne sono parte integrante della costruzione mediatica; e poi perchè è in gioco la reputazione di un'importante azienda italiana, della famiglia che ne detiene da sempre le quote di maggioranza e il destino di migliaia di posti di lavoro, già minacciati dalle crisi di mercato e dalle ristrutturazioni in atto all'interno del gruppo fabrianese. Secondo L'Espresso saremmo di fronte a documentazione esplosiva, rimasta a cumulare polvere in qualche remoto cassetto per quasi venti anni. Già per questa ritardatissima emersione è naturale e istintivo chiedersi a chi giova e confrontarsi subito con alcuni interrogativi: come mai carte tanto scottanti e compromettenti sono riemerse dagli armadi dell'oblio, con una puntualità quasi svizzera, proprio mentre Indesit è alle prese con una complessa trattativa sindacale e con ipotesi di vendita ad altri possibili player internazionali del bianco? Si tratta di pura casualità o, come al solito, siamo in prossimità dell'ennesima circostanza in cui il caso è espressione di un disegno e di una trama orditi chissà dove e chissà per quali scopi? Come reagirà lunedì il titolo Indesit, quotato in Piazza Affari, dopo che la notizia sarà montata e lievitata ad arte nel corso di un fine di settimana che già si presume caldo e scoppiettante? Quali effetti di ritorno potrà determinare una notizia tanto devastante sull'immagine aziendale e sul valore del brand Indesit, oltre che su eventuali trattative in corso per la definizione di una partnership strategica? La questione tirata in ballo dall'Espresso influenzerà anche gli ultimi scampoli di negoziato sul Piano di Ristrutturazione o verrà derubricata a problema storicamente determinato e quindi totalmente svincolato dalle problematiche del presente? Sono domande pertinenti, che contengono decisivi squarci di futuro per la nostra gente e la nostra terra. Ma mentre cerchiamo risposte occorre aggirare ed evitare un rischio incombente e distruttivo: quello di farsi risucchiare da letture criminogene dell'economia e dell'impresa e di ardere nello stesso fuoco dei populisti lancia in resta che cercheranno di imporre la narrazione volutamente distorta di un gruppo industriale cresciuto in una zona grigia e di una famiglia che - secondo la formula condivisa della nuova inquisizione di massa -  "non poteva non sapere". La storia della Indesit è, sia chiaro, la storia di un successo aziendale e produttivo di assoluto valore e il percorso della famiglia Merloni, che mai ci siamo stancati di criticare e rintuzzare anche su questo blog per le sue scelte e politiche e imprenditoriali, è lontano anni luce dai miasmi della terra dei fuochi e dai veleni interrati. Il momento difficile, che vivono la nostra città e l'azienda, non deve essere causa di giudizi dettati dalla superficialità e da viscere fuori controllo: severi fin che si vuole rispetto alle scelte economiche e imprenditoriali di una famiglia e di una impresa, ma nulla a che vedere e spartire col giustizialismo dei giudizi sommari, delle condanne preventive e dell'oltraggio moralistico.
    

22 novembre 2013

Dal gatto selvaggio al culo puzzò


Il complesso e delicato ponteggio che era servito ai sindacati per edificare e sostenere un profilo puro e duro nella vertenza Indesit, si è sbriciolato non appena uno spazientito Milani ha ritenuto fosse giunta l’ora di shakerare, in prossimità delle sensibili orecchie delle maestranze, la frase killer che nessuno, in cinque mesi di negoziato, aveva ancora osato pronunciare e forse neanche cogitare: procedura di mobilità. Nell’istante stesso in cui questo ricorso al deterrente atomico dei licenziamenti è stato proclamato, con lacrime e costernazione d'acciaio, si è chiusa definitivamente la possibilità di una qualsiasi negoziazione aggiuntiva e complementare così come ogni altra occasione di posticipo e di rimando tattico. Il campo sindacale – come nella tela appena sfregiata del Ritratto di Dorian Gray – ha fatto emergere, in un unico e malmostoso grumo, le mille crepe registrate e misurate da implacabili fessurimetri, le infinite divisioni cumulate e rimosse in cinque lunghissimi mesi di faccia a faccia col destino e il "progressismo adolescenziale" di chi sapeva di poter abbiaiare alla luna senza essere richiamato dal fischio notturno del padrone. Ed ecco, quindi, ridotto a simulacro, il sindacalismo “sborone” dei mesi passati, sublime e solenne nel suo reiterato e imperativo ordine di ritiro del Piano, comandato all’azienda un giorno sì e l’altro pure. Ma anche la Indesit  in quanto a “sboroneria” ci ha messo del suo, occupando molto, troppo tempo a proclamare che manco morto il duro Milani avrebbe alterato una sola virgola di quel Piano che andava inteso, digerito e accettato nella sua interezza e senza cadere nella tentazione dello spacchettamento rigirato ad arte per favorire Fabriano contro Caserta o Caserta a discapito di Fabriano. Questa lunga e sterile gara a chi piscia più lontano, scambiata per lotta di classe, ha lentamente delegittimato i protagonisti con nuove, chimeriche versioni di Piano sfornate dal top management aziendale; versioni in cui il numero di esuberi – resta di stucco è un Barbatrucco - scendeva magicamente dalla iniziale cifra monstre di 1425 unità a qualche sparuta decina di lavoratori, canuti e bianchi, da accompagnare in serena quiescenza. Ovviamente con il sostegno di un sindacato che invece di imbestialirsi per il rimpasto irridente e buggerante di cifre del barbuto Presidente, fingeva a sua volta di prenderle terribilmente sul serio, ricorrendo al più vetusto degli slogan nonbastisti: Indesit azzeri gli esuberi e ritiri subito il Piano. Un po’ come quando Bersani, a qualsiasi domanda dei giornalisti, era solito rispondere “Berlusconi si dimetta”. Anche perché, alla buona gente avvezza a saggezze collinari, è sempre parso stravagante e pirandelliano il solo ritenere verosimile un Milani - commissariale e in cerca di partner a cui mollare la baracca - profumatamente remunerato dalla company fabrianese per irretirsi innanzi al periodico lancio di Noci di Cocco. Fatto sta che la sortita del Presidente e Amministratore Delegato sulla procedura di mobilità, accompagnata da suadenti cori di ripensamento, ha ripulito la scena come una notte di tramontana e di cime innevate, chiudendo traumaticamente la lunga fase del negoziato “sborone”, con tanto di titoli di coda messi nero su bianco nelle assemblee di ieri dove i lavoratori hanno dato al sindacato la comanda del ritorno al tavolo, dato che, se morte deve essere, è meglio stirare gli zoccoli tra cinque anni che tra qualche mese. Quindi si firma quel che Indesit propina, ovvero la versione iniziale del Piano ma con l'accorgimento di mentite e digeribili spoglie. Cosa che si poteva fare già verso la fine di giugno, senza diluvio di blocchi stradali, carovane e scioperi pagati dai lavoratori. Anticipando l'esito ci saremmo anche risparmiato i valzer e il bel Danubio blu di un sindacato che per cinque mesi dice ai lavoratori che a quelle condizioni non si firma, poi va a Roma per firmare ma per resisistere alla tentazione si fa pressione da solo conducendo i lavoratori al seguito a far da lobby contro la firma. Poi alle prime luci dell’alba abbandona il tavolo e non firma e dopo che non ha firmato, convoca i lavoratori, a cui ha detto che a quelle condizioni non si firma, per fargli capire perché è necessario mettere una sigla in calce. Cosa che i lavoratori avevano capito nell’istante stesso in cui è giunta a destinazione la frase killer del Barbaindesit: procedura di mobilità. Di fatto gli “sboroni” faranno un salto a Canossa per siglare una resa e un passaggio epocale e definitivo dai caldi giorni dal gatto selvaggio a quelli gelidi e amari del culo puzzò. Dicono i grandi storici che il valore degli accadimenti si misura dal modo in cui essi concludono il loro ciclo di vita. Se fosse davvero questa l’unica chiave di lettura possibile per giudicare la vicenda Indesit, potremmo sostenere che tale vertenza fu poca cosa davvero e che essa rappresenta la prova provata e plastica di come non vada gestito un negoziato socialmente complesso e foriero così gravi e profonde ricadute sulla vita di una comunità e di un territorio.
    

20 novembre 2013

E Canossa subentrò alla Bastiglia

 
Marco Milani, comandante in capo in fase d'ascesa più che Schettino da far risalire a bordo come ironizzavano certi striscioni casertani, aveva due possibilità per investire la vittoria incautamente donatagli dal sindacato come la testa del Battista sul piatto di Salomè: gridare al vae victis, mettendo rodomontescamente fuori la triplice o, più sommessamente, rigirare a piacimento la magnanimità del vincitore, applicando - come da teoria negoziale di Harward - il fondamentale accorgimento di lasciare ai perdenti una via d'uscita bella e pronta, così da meglio invischiarne l'azione evitando pure quella brama di stravincere che fa di una controparte umiliata un nemico votato a rivalsa e a ritorsione certa, seppur sterile e postdatata. Rinunciando all'approccio "Marchionne Style" Milani ha, quindi, offerto a CISL e UIL una sponda scivolosa a cui ancorarsi, una polpetta avvelenata e perfetta per alimentare il fondato sospetto di un sindacalismo che abbaia alla luna ma di fondo deve portare comunque a casa uno straccio d'accordo, perchè diversamente si ridurrebbe a microcosmo di puri e duri o a patronato e centro servizi. Il sindacato ha commesso un fatale errore sin dalle prime battute della vertenza; un errore che questo blog ha costantemente segnalato, ossia l'aver ristretto e confinato il proprio spazio contrattuale a un' unica richiesta: il ritiro incondizionato del Piano da parte dell'azienda, come presupposto per qualsiasi reale trattativa. Su questa linea di massimalismo apparente, dominato da un contrasto stridente tra il rombo delle dichiarazioni ufficiali e le felpate e concilianti linee del ripiegamento, è stato aggregato il consenso dei lavoratori, creando aspettative da presa della Bastiglia: la vittoria corrispondeva al puro e semplice ritiro del Piano e la sconfitta a tutto ciò che non fosse resa incondizionata dell'azienda. Questa posizione, a dire il vero più infantile che estremista, ha fatto sì che l'azione del sindacato fosse giudicata dai lavoratori non sulla base della qualità del negoziato e dei risultati di tutela conseguiti ma in ragione del grado di fedeltà alla linea del "tutto o niente". E' quindi evidente quanto sia complicato, giunti a questo punto, praticare un rewind e riprendere il confronto senza ricevere una comprensibile accusa di tradimento e di collaborazionismo. E questo rischio si fa particolarmente insidioso e corposo anche in ragione della modalità astuta con la quale Milani ha deciso di giocare la carta del paternalismo magnanimo, invitando il sindacato a rompere con la rottura appena consumata. Il Presidente di Indesit prima ha minacciato l'apertura della procedura di mobilità, giusto per evidenziare che l'abisso era inscritto nell'ordine delle cose possibili; poi ha scartato di lato come il bufalo della canzone di De Gregori, focalizzandosi sulle componenti emotive del negoziato: rammarico per l'occasione perduta, invito a una riflessione più meditata, delusione conclamata e incomprensione quasi accorata per una rottura che si poteva evitare e avvenuta, a suo dire, dopo che l'azienda aveva messo sul tavolo capra e cavoli pur di rendere commestibile il suo piano di ristrutturazione. Il cambio di registro adottato da Milani significa che non tutto è perduto e che l'azienda  è disponibile a riannodare i fili di un confronto e, magari, anche a concedere qualche ritocco salvafaccia e salvaculo, ma a condizione che la presa della Bastiglia sia definitivamente rimossa  dalla scena negoziale e da quella più direttamente propagandistica e mediatica del sindacato e magari sostituita da un salto a Canossa. Il punto di mediazione possibile nasce dall'interdipendenza degli interessi in campo e dal fatto che entrambe le parti hanno bisogno come l'aria di sottoscrivere un accordo: i lavoratori per evitare il precipizio ingovernabile della mobilità e la Indesit per consolidare relazioni industriali costruttive che rientrano a pieno titolo in quel pacchetto di valori con cui l'azienda andrà a contrattare, da posizioni possibilmente vantaggiose, la vendita di se stessa a qualche grande gruppo internazionale del bianco. Resta intatto il rammarico e il disappunto per una vertenza che, se si fosse rapidamente smarcata di molti degli elementi istintivi e sentimentali che hanno dominato il corso delle cose, avrebbe potuto imboccare una strada diversa e sicuramente più costruttiva e bilaterale. Ma purtroppo non sempre le ciambelle escono col buco. Ma questo è solo il senno di poi. Purtroppo l'unico senno possibile.
    

19 novembre 2013

Rottura Indesit: il cerino in mano e il tempo poco galantuomo


 

“E' saltata la trattativa per la Indesit al ministero dello Sviluppo economico, dove sindacati, azienda e istituzioni erano riuniti dalle 17.30 circa di ieri. Secondo quanto si apprende da fonti sindacali, la situazione è degenerata ed è stata aperta la procedura di mobilità per 1.425 lavoratori”. Con queste parole un’Ansa ha chiarito l'esito di una trattativa che si è protratta al Ministero dello Sviluppo Economico per quasi dodici ore. Nella negoziazione sindacale la notte svolge una precisa funzione di sfinimento delle controparti e viene strumentalmente utilizzata per superare lo stallo. Di solito la maratona notturna o prelude a un accordo o sancisce una rottura, e la linea che separa l’una dall’altra possibilità è molto più sottile di quel che può apparire a primo e superficiale esterno. In assenza di informazioni più precise – che probabilmente emergeranno nel corso della giornata – si possono soltanto azzardare alcune ipotesi deduttive. Innanzitutto che questa tornata di confronto al Ministero non contemplava approcci di routine o prosieguo di annusamenti, ma era stata pensata col preciso intendimento di concludere un accordo tra le parti, lavorando non sulla revisione strutturale del Piano ma su una limatura dei saldi relativi agli esuberi. Su questa base era stato già messo in conto il no della Fiom, contraria a qualsiasi accordo non collegato a una nuova politica industriale degli elettrodomestici di ispirazione governativa. Ma questa posizione dei metalmeccanici della CGIL ha lasciato scoperto il fianco alle due federazioni di Cisl e Uil, ideologicamente più propense a sottoscrivere un’intesa con Indesit. Il problema, come spesso accade in queste circostanze, è “chi rimane col cerino in mano”, ovvero chi si piglia la responsabilità di dire per primo “io ci sto”. Anche perché la presenza massiccia dei lavoratori avanti alla sede del Mise ha di certo rappresentato un elemento influente di pressione e alterazione del clima negoziale. E la sensazione è che a forza di passarsi il cerino si sia giunti a fine corsa subendo un nulla di fatto, ma senza una qualche specifica ragione fondativa e di contenuto per un niet così denso di effetti e conseguenze. Un po’ come la prima guerra mondiale, che scoppiò senza una specifica ragione e senza che nessuno ebbe la forza di fermare il processo innescatosi con l’attentato di Sarajevo all’arciduca Francesco Ferdinando. Non a caso la Indesit ha parlato di un no incomprensibile all’accordo, rimarcando, passo passo, tutte le migliorie apportate a un piano in cui, va detto, la zuppa era rapidamente diventata pan bagnato e poi golosamente narrata come un piatto di fumanti passatelli romagnoli. L’azienda, convinta che ieri fosse il giorno buono per chiudere la vicenda e portare l’accordo al tavolo della fusione con un possibile, grande player internazionale, ha annunciato che aprirà una procedura di mobilità per i lavoratori coinvolti nel Piano. Questo significa che le linee guida della ristrutturazione aziendale verranno applicate in forma unilaterale e senza ulteriori impacci contrattuali e negoziali. Per ora potrebbe trattarsi di un’azione di rilancio mediatico, di una prova di forza finalizzata a ricondurre il sindacato a più miti consigli, ma certo è che il tempo stringe anche per Milani e per il suo disegno di partnership strategica. Il problema per i lavoratori e per il sindacato è di altra natura ma altrettanto pressante, ossia comprendere se gli effetti della rotturasiano da ritenersi migliori di quelli generati dal peggiore accordo possibile e immaginabile. Ed è in questo frangente che spicca, in tutta la sua nitida criticità, l’assenza di un contro piano sindacale, capace di dare sostanza e valore sia all'assenso che al diniego. Ma recriminare, giunti a questo punto, serve a poco. Resta il fatto che è stata sancita una rottura violenta, che la rottura genera escalation e l’escalation restringe il campo negoziale e la possibilità di riprendere efficacemente in mano il bandolo della matassa. Siamo in un vicolo cieco e se ne potrebbe uscire solo tirando una riga e ricominciando daccapo. Ma il tempo, stavolta, non sembra davvero galantuomo.
    

18 novembre 2013

Tre diavoli e un brand: riflessioni liberali su una città in declino


 


Lorenzo Castellani è un giovane talento fabrianese che invece di giocare a fascismo e comunismo, come capita spesso a generazioni di ragazzi, si è scoperto liberale a 24 carati in un entroterra marchigiano permeato di cattolicesimo sociale, di buonismo e di politicamente corretto. Un liberalismo vero e profondo, coltivato meditando su Friedrich Von Hayek e Milton Friedman e condiviso con altri giovanissimi concittadini di cui ho potuto conoscere in prima persona l'irregolarità intellettuale e l'anticonformismo curioso. Lorenzo Castellani - amico a cui mi accomuna la passione per Nicolò Machiavelli e per una politica sfrondata di ogni ideologia - è oggi apprezzato blogger presso Linkiesta.it oltre che giornalista per il quotidiano economico ItaliaOggi, per Formiche, magazine di politica economia e cultura e ricercatore di storia dei sistemi politici e diritto pubblico all'IMT Institute of Advanced Studies di Lucca. Gli ho chiesto di mettere nero su bianco una sua liberalissima duiagnosi sullo stato di Fabriano. Ne sono usciti fuori tre diavoli e un brand. A riprova che questa terra possiede intelligenze e pensiero utili per cambiare pelle senza dover ricorrere ai soliti noti e agli antichi tromboni. Di seguito il suo punto di vista su residui statalisti e bisogni liberali nella città del fare. E nelle prossime settimane altri giovani cervelli della nostra città.



Fabriano era. In città l’uso del tempo passato è un’espiazione coercitiva, una pena per sentir bruciare sulla pelle le ferite delle occasioni perse e le punture di una crisi sempre troppo imputata a fenomeni globali piuttosto che a una seria disamina delle responsabilità locali. La verità è che la Fabriano degli anni ’90 - in cui è cresciuto chi scrive - non solo non esiste più economicamente, ma subisce un degrado corredato da drammi sociali, culturali e antropologici ancor più devastante della perdita di occupazione, centralità e produttività. Per rendersene conto i dati non bastano, ma aiutano. I disoccupati sono circa 3.800, i cassa integrati attorno ai 1.300, in totale fanno quasi 5.000 persone in un Comune di 32 mila abitanti, a cui si aggiungono diverse centinaia di giovani che ogni anno, finito di studiare, non tornano nel borgo natio a cercare un lavoro. A questo si aggiunge la drammatica realtà della “meridionalizzazione” della città, espressione che sintetizza splendidamente la transizione da polo industriale e produttivo a città sussidiata dallo Stato. Il Comune - tra contratti a termine, collaborazioni e tempo indeterminato  - impiega circa 400 persone, mentre l’Asur, nel solo comune di Fabriano, dispensa stipendi pubblici a diverse centinaia di persone. Un’alluvione di denaro pubblico, una lievitazione incontrollata di burocrazia. Ora, qui non si vuole fare un’imputazione di colpe che richiederebbe una valutazione più approfondita tanto sugli enti che erogano quel denaro pubblico quanto sulla necessità che certi servizi necessitino di così tanto personale, ma una riflessione di più ampio respiro sulla trasformazione che Fabriano ha attraversato dal punto di vista sociale. La città è passata da una sovraoccupazione, con ingente importazione di manodopera, ad una realtà con i picchi di disoccupazione più alti in Italia, mentre allo stesso tempo si è mantenuto un elevato numero di persone a carico dello Stato. Il risultato è che si è andati verso una drastica riduzione dell’impiego privato, del professionismo, del commercio, dell’imprenditoria con il conseguente aumento di persone sussidiate con la cassa integrazione, impiegate dagli enti locali e mantenute da enti inutili. La città ne ha perso in spirito d’iniziativa, libertà economica, indipendenza e ne ha guadagnato in burocrazia, appesantimento della spesa pubblica, sussidio strumentale al mantenimento dello status del disoccupato. Siamo passati dagli operai che negli anni’80 e ’90, dopo aver imparato il proprio mestiere, aprivano la propria azienda creando posti di lavoro e ricchezza, a una moltiplicazione di soggetti mantenuti dallo Stato, costretti a restare a casa avvalendosi del sussidio della cassa integrazione e sempre più dipendenti dall’apparato burocratico e politico gestito dalle istituzioni locali, da enti pubblici e sindacati. Invertire la tendenza con policies applicate da tali istituzioni è senza dubbio chimerico, in quanto le stesse non rispondono delle risorse e degli strumenti giuridici necessari per farlo, tuttavia queste possono intervenire in due modi. Da un lato cercando di mantenere un equilibrio di bilancio che permetta agli enti locali di portare al minimo la tassazione addizionale, ponendo come priorità la riduzione delle addizionali che incidono sull’impresa e sul lavoro. A questo si deve necessariamente aggiungere una riduzione della spesa che passi dalla dismissione del patrimonio pubblico inutilizzato, la vendita a privati mediante meccanismi concorrenziali (e quindi la fine del potere della politica nello spartire poltrone e gettoni) delle quote possedute dagli enti locali nell’erogazione dei servizi pubblici locali. Considerata la sterzata renziana del PD fabrianese, gli esponenti locali di quel partito potrebbero prendere ad esempio quanto fatto da Renzi a Firenze tanto nell’ambito delle società municipalizzate (trasporti, case di riposo ecc) quanto nella dismissione del patrimonio pubblico e riproporre lo schema anche a livello provinciale e regionale. Per un centrodestra che voglia dirsi liberale non serve nemmeno aggiungere parole su quanto buone e sacrosante possano essere queste piattaforme di proposta politica. Il secondo modo è quello di fare di Fabriano un vero e proprio brand, un’icona di come la crisi economica, le riforme mancate, l’eccessivo peso di Stato e burocrazia, il mercato del lavoro duopolistico, il fisco aggressivo sulla produttività abbiano potuto rovinare un distretto industriale che era fiorente e consolidato. Spiegare come la cassa integrazione non abbia risolto i problemi del lavoro, ma ne abbia prolungato l’agonia, come un sistema di welfare serio dovrebbe riqualificare i lavoratori per permettergli di trovare un’ altra occupazione se la perdono, come la flessibilità e non il precariato possa permettere ai giovani di inserirsi sul mercato, come la tassazione elevata, i grovigli di regole, il conservatorismo dei sindacati abbiano contribuito a far fuggire le aziende o a farle chiudere. Se con umiltà posso permettermi di dare un consiglio alla politica locale è questo: portate i vostri leader a Fabriano per far vedere i danni provocati da anni d’immobilismo e  da riforme sgangherate o rimandate. La situazione di Fabriano rappresenta, infatti, una delle peggiori reazioni alla mancanza di visione della politica. E non è intenzione di chi scrive trascendere nel qualunquismo, ma suggerire l’analisi di un campione, come quello fabrianese, per comprendere le cause della crisi e soprattutto le possibili scelte politiche per risolverla. La città è stata uccisa nell’anima, si è robotizzata, i fabrianesi sono diventati automi imprigionati nei meccanismi di sclerotica sussidiazione statale, nelle procedure burocratiche, nel monopolio del pubblico come fonte di occupazione e welfare, nella dipendenza dagli aiuti che hanno favorito il mantenimento del monopolio di un unico settore scoraggiando iniziative imprenditoriali diverse da quelle tradizionali dell’elettrodomestico. Se volessimo semplificare ricorrendo ad un discorso sui principi, potremmo affermare che Fabriano è stata sedotta, incensata e poi pugnalata da tre grandi diavoli: lo Stato, il monopolio pubblico e privato, la commistione tra affari e politica. Lo scrivo con convinzione né per il gusto della provocazione né per esaltare vene libertarie, ma semplicemente perché da studioso della storia mi pare evidente una lezione: ciò che ci ha reso grandi in Italia e nel mondo - siano la carta, le lavatrici, le cappe aspiranti o i salumi - non sono state create per decreto legge né da un’ordinanza del comune né dagli apparati degli enti locali. E’ stata la capacità di rispondere ai bisogni delle persone a determinare sviluppo tecnologico, miglioramento della qualità della vita, occupazione e benessere diffuso. E’ il libero mercato, lo scambio di prodotti, la libertà d’intraprendere, la concorrenza, e quindi la capacità di produrre o innovare prima o meglio degli altri, che determina il successo non solo di un’economia, ma anche di un’intera comunità locale. (Lorenzo Castellani)