28 aprile 2013

L'ingegno degli antichi e le miserie dei moderni


Foto di Gisleno Compagnucci

L'urbanistica è un sapere tecnico ma è anche un progetto di città, un modo di leggerne lo sviluppo. In questo senso ha ragione l'urbanista Vezio de Lucia quando afferma che l'urbanistica è politica e che per questo ogni partito e ogni amministrazione dovrebbe avere una sua politica urbanistica. Per dare alla città un orizzonte, una speranza, un obiettivo. La politica nelle città dovrebbe quindi essere, per prima cosa, impegno rivolto all'urbanistica. E da questo punto di vista è indicativo che non esista da anni una delega assessorile specifica, solitamente attribuita ad interim alla figura del Sindaco che si guarda bene dal dargli corpo e sostanza perchè ciò significherebbe cambiare segno alla politica costringendo il sistema a un minimo di fantasia e di programmazione. Si preferisce puntare, invece, su quel sottoprodotto dell'urbanistica che sono i lavori pubblici, commettendo il grave errore logico e politico di trasformare la subordinata in principale, riducendo l'azione politica ad asfalto forever, sampietrini divelti e rotatorie del piffero. Ovviamente non si tratta di diventare tutti come il Barone Hausmann, che rigirò Parigi come un calzino a colpi di sventramenti creativi, di linee rette e boulevard. Nel nostro piccolo è sufficiente cominciare a dare forma e concretezza a qualche piccolo sogno che si para innanzi agli occhi e che ci mostra ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, come un recupero di fierezza urbana e di ars vivendi passi inevitabilmente da un sacrificio di funzionalità in nome della bellezza. La foto della Chiesa di San Nicolò è emblematica di come la funzionalità abbia degradato l'urbanistica e di quanto difetto visivo ci sia nell'attuale azione amministrativa. Già di per sè una piazza in ripida salita è qualcosa che merita stupore e valorizzazione, specie se è dominata dalla facciata imponente di una chiesa che è una sorta di fulcro visivo della città quale che sia il punto di osservazione che si sceglie. Oggi la piazza di San Nicolò è stata oggettivamente cancellata dall'effetto di riempimento e di saturazione ottica prodotta da un parcheggio eternamente affollato di automobili e da bidoni multicolori della raccolta differenziata che ne completano il degrado. La foto che accompagna queste righe racconta invece il come era e come potrebbe essere una piazza restituita al suo valore architettonico e urbanistico: uno spazio denudato e arricchito da aiuole disposte in forma geometrica per moltiplicare, attraverso un dettaglio dì impronta rinascimentale, l'effetto e il colpo d'occhio complessivo. Quanto costa riportare la Piazza di San Nicolò a queste nobili e antiche condizioni? E' così oneroso trovare un'altra allocazione ai bidoni dei rifiuti? E moriranno di fatica i cittadini a cui si dovrà chiedere di rinunciare a quel parcheggio per ridisegnare le quattro aiuole? Si tratta di una riforma a costo zero che meriterebbe una riflessione anche in Consiglio Comunale. Ma c'è qualche visionario disposto al folle volo di immaginare la città senza ricadere nella suburra dei lavori pubblici e delle misere proteste degli operatori?
    

27 aprile 2013

Fabriano e la sindrome belga

In questi giorni mi è venuto un dubbio atroce: di aver nobilitato la scaletta del pollaio politico facendone una scala santa, un condominio decente, un'agorà d'intelletti poveri ma umanamente tollerabili. Ho sbagliato e per questo mi sento in dovere di abiurare e di chiedere scusa. La politica a Fabriano non esiste perchè era soltanto esecuzione di ordini familiari e dinastici, secondo il modello feudale dei vassalli, dei valvassori e dei capetti Ardo. Ora che si è estinta la dinastia sono finiti gli ordini si è conclusa la parabola dell'esecuzione politica. C'è solo un gruppo ristretto che amministra il fallimento con le movenze disorientate del cane senza padrone, come se questa fosse una transizione tra le tante e non il terribile cambio di paradigma con cui evitiamo di fare i conti. C'è una sensazione diffusa di consunzione, di fine corsa, di ultima marea che lascia a riva un'unica e povera brama: durare, ricercando un titolo sui giornali come fosse una marchetta ricoperta d'oro, immaginandosi tra i nastri da tagliare e tra gli sguardi ancora fiduciosi e subalterni del concittadino che - siccome n'se sa mai -  riverisce un potere diroccato e gotico sperando di essersi ben posizionato per quando arriverà un'altra età dell'oro, delle mance e delle lavatrici. Rivendico con orgoglio di non aver mai ceduto alle semplificazioni del populismo e alla finzione, protratta nel tempo e senza un grano di vergogna, del cittadino in sella grazie all'imposizione di mani grilline. Ma è terrificante prendere atto che in questa città i partiti che dovrebbero garantire la tenuta del sistema e un recupero di dignità del territorio - ossia il PD e il PDL - sono corpi senza testa, sigle senza vita e finzioni disorganizzate. Il PD di Fabriano è da quasi dieci mesi senza un segretario, sostituito da una direzione collegiale che equivale all'annientamento di ogni potere e di ogni decisione che non sia quella imposta da un'amministrazione che risponde solo a se stessa e non certo alle forze politiche, che la sostengono senza il diritto di una parola, di un dissenso o di un ragionamento. Speculare e uguale è la situazione in casa PDL. Ballelli ha rassegnato le dimissioni dopo le elezioni politiche ma non si è registrata neanche una presa d'atto, un interrogativo, una discussione o la volontà di riprendere le fila di un'azione politica in un centrodestra tuttora diviso in due gruppi consiliari che non hanno ragione di esistere e che stanno facendo delle istituzioni un eterno campo di battaglia di personalismi e ripicche. Un conflitto incomprensibile che ha infestato la vita politica, allontanando tanti fabrianesi dall'idea stessa di un sostegno e di un impegno diretto nel centrodestra. E' un rassegnarsi bipartisan alla sindrome belga, l'idea di una città divisa tra fiamminghi e valloni in cui la cosa migliore da fare è il non fare, il delegare la sopravvivenza collettiva alle poche energie vitali che restano a disposizione, l'illusione che ci si rialza senza decidere e senza pagare il dazio delle responsabilità. Nessuno è così sciocco da pensare o da supporre che la nomina del segretario politico del PD o del PDL possa cambiare il segno di una città che inizia a fare i conti con la povertà e con la fame. Ma sarebbe già tanto per smettere di sentirci belgi riconoscendo che siamo italiani e fabrianesi: due bestie in un corpo solo.
    

25 aprile 2013

Letta e la botta di culo di Giancarlone


In politica ci vuole una dose massiccia di fortuna. Individuare i tempi più adatti, le modalità dell'impegno più consone al successo, la parola in più o in meno da pronunciare non richiede soltanto perizia, esperienza e intuito ma anche una dose equina di culo e di dee bendate. E da quel che risulta agli atti Sagramola sembra avere più culo che anima. A partire dalla sua incoronazione, un anno fa, che è maturata in un frangente in cui il successo del 5 Stelle era potente ma non ancora deflagrante e in cui si era toccato l'apice della crisi morale e politica del centrodestra. Di conseguenza Giancarlone altro non era se non una sorta di candidato unico e solitario, eletto passeggiando, senza il brivido di una corsa minimamente impegnativa, di un fotofinish stressante e in barba al diluvio di astensioni sanate politicamente dal lievito madre dell'elezione diretta e dall'assenza di qualsiasi battiquorum. Nei mesi successivi all'elezione Sagramola ha dato l'impressione di non avere spalle abbastanza solide per sostenere il ruolo di primo cittadino in una città in crisi di identità e di benessere. Al punto da restituire, per una lunga fase, l'immagine di un Sindaco emerito di Fabriano, inseguito dalla pesante eredità decennale del sorcismo e dall'urgenza di dare al proprio mandato un profilo nuovo, autonomo e possibilmente di successo. Ma siccome Sagramola è un uomo fortunato si è ritrovato, di colpo, tra le mani un tesoretto politico direttamente legato all'incarico ricevuto da Enrico Letta. Il Presidente del Consiglio incaricato, infatti, non è soltanto un sodale politico e correntizio di Sagramola ma anche un amico personale del primo cittadino. Ciò significa che se l'operazione larghe intese capitanata da Letta funziona e va in porto, avremo un Sindaco che potrà interloquire direttamente e senza mediazioni aggiuntive o laterali con il Capo del Governo. Di conseguenza Sagramola ha un asso nella manica, un'opportunità da casinò di Las Vegas per la nostra collettività e cioè farsi ambasciatore dei problemi di Fabriano al massimo livello di decisione possibile. Il che significa che sarà probabile un impegno più fattivo dell'Anas per il completamento della Quadrilatero e per evitare il rischio incompiuta; che ci saranno concrete possibilità di investimenti industriali sul territorio fabrianese e che sarà possibile dare all'idea di un nuovo sviluppo locale una sponda decisiva e pesantissima quale è quella garantita dal Capo del Governo. Stamattina al monumento del Partigiano Sagramola ha consegnato a Roberto Sorci la fascia tricolore di Sindaco emerito. Fosse accaduto una settimana fa avremmo ricamato a bestia su chi fosse l'emerito e chi no. Oggi abbiamo una sensazione inedita e primaverile e cioè che Sagramola ha davvero messo il culo in cassaforte. Con buona pace dei nemici, dei critici e dei parlamentari fabrianesi, allegramente bypassati dalle relazioni amicali del sempiterno Giancarlone, primo cittadino assai incerto ma pure alquanto fortunato.
    

24 aprile 2013

Il valore dell'Hospice


Più di una volta qualche commentatore di questa pagina mi ha rimproverato una tendenza demolitoria, una vocazione critica più disposta allo smontaggio che alla costruzione. E’ un rilievo infondato di cui voglio fare comunque tesoro. E per una volta voglio dedicare queste righe a un elogio. Non a una persona ma a una struttura, a una vera eccellenza della sanità fabrianese che, purtroppo per me, ho avuto modo di conoscere in quest’ultima settimana: l’hospice, ossia lo spazio dedicato ai malati terminali e a quell'universo complesso e particolare che è il fine vita. Rispetto a questa struttura ci sono riserve psicologiche e una radicata ritrosia di approccio, perché è un reparto in cui la cura non sana e non riabilita, ma accompagna, un’isola in cui si transita per un approdo che è tutto rivolto altrove. Eppure in quel reparto, dalle rassicuranti pareti gialle e dai molti e colorati quadri appesi, si gestisce la transizione più importante, quella che perché chiama in causa il valore del fine vita, la forza di cure palliative che impediscono di trasformare gli ultimi scampoli dell'esistenza in un’agonia lesiva della dignità che ciascuno di noi ha diritto di pretendere fino all'ultimo istante. Si tratta, ovviamente, di temi etici complessi, di cui si discute da tempo e con una grandissima articolazione di posizioni culturali, religiose e filosofiche che non è il caso di riprendere. L’elemento interessante, nello specifico, riguarda invece il livello e la qualità dell’hospice di Fabriano. E quando si parla del livello di una struttura come questa si fa, innanzitutto, riferimento alla qualità del personale. A partire da quello infermieristico che ho percepito come un vero e proprio corpo di élite.  Non solo per la professionalità dimostrata, ma anche per la consapevolezza del ruolo e per una profonda cognizione delle implicazioni etiche e morali connesse a quel lavoro. Agire fino all'ultimo istante di vita come se la persona malata avesse ancora davanti una intera esistenza – ed è quel che ho visto fare da Cinzia, Pierina e Stefania, giusto per ricordare qualche nome – ha dato una concretezza all'idea di dignità che credo vada riconosciuta e valorizzata come patrimonio che riguarda e coinvolge tutti i fabrianesi. Parlando con un importante dirigente della nostra sanità ho capito che l’hospice è ritenuto da molti una realtà che non merita troppa considerazione. Un po’ per questa sua funzione di limbo che prelude ad altro, un po’ per un pregiudizio diffuso secondo il quale sarebbe una sorta di luogo dell’abbandono, quando invece è uno straordinario spazio di umanità e di sollievo. Un po' perché forse la redditività delle prestazioni non è tale da smuovere interessi e passioni. Fabriano è una città colpita da un’abnorme quantità di tumori, che spesso si concludono con la morte di chi ne è colpito. Pensare al rafforzamento di una struttura come l’hospice, così importante ed essenziale, è quindi un investimento e un dovere per tutta la comunità. Sempre che la comunità sia abbastanza matura da superare pregiudizi e distorsioni che rasentano la rimozione freudiana.
    

18 aprile 2013

La disfida di Pariano



Pino Pariano agisce con metodo, utilizzando una cognizione efficace del tempo: quotidianamente bombarda di informazioni di servizio l'universo mondo attraverso il blog, Facebook e Twitter e in parallelo - con cadenza mensile - sfodera una proposta rigorosamente non contrattata col partito di appartenenza e la rilancia nel dibattito politico e in Consiglio Comunale facendola rimbalzare come un oggetto contendente. Con questo modo di fare Pariano esprime anche un sottile equilibrismo rispetto al ruolo di Presidente del civico consesso; funzione che prevede un approccio super partes rispetto a maggioranza e opposizione e che Pariano risolve abilmente, mantenendo l'equidistanza rispetto agli schieramenti politici e forzando invece su contenuti concreti che ne sdoppiano la funzione - presidente e consigliere - ma senza fornire al PD il casus belli per censurarlo e dimetterlo. Ultima in ordine di tempo è la proposta di garantire l'utilizzo gratuito ai mezzi pubblici per gli over 65 e per quanti hanno un reddito inferiore alla soglia dei 13 mila euro. Il merito della proposta è discutibile come qualsiasi altra posizione ma l'anomalia gustosa è che, di fatto, Pariano fa saltare un principio fondamentale di tenuta del centrosinistra che governa Fabriano e cioè che le decisioni spettano, per default, alla Giunta, mentre ai consiglieri comunali compete la sola ratifica di quanto già deciso dal Sindaco Sagramola & C. Il gioco di Pariano è un gioco a somma zero in cui il Presidente si irrobustisce a spese del Pd a cui succhia sangue riempendone una sacca con una goccia per volta. La politica, da questo punto di vista, è un'attività puzzona, perché mescola tanti aspetti ed elementi, al punto che pure le rivalse e le vendette postume hanno una loro assoluta e comprensibile legittimità. Ma l'azione politica contiene sempre una qualche razionalità prospettica e quindi non è ozioso chiedersi che cosa abbia in mente Pariano e quale disegno politico stia cercando di attuare. Perché giocare sistematicamente di pungiglione sul Pd, senza darlo a vedere, un qualche senso deve pur averlo. Pariano dispone di un ricco tesoretto elettorale, un pacchetto di consensi che è fidelizzato direttamente alla sua persona e ne ha sancito il successo nelle ultime elezioni comunali. La sensazione è che al momento stia furtivamente a riva, a pelo d'acqua, coccodrillesco, in attesa di un qualche evento che chiarisca la situazione politica generale e lo ricollochi in un quadro politico più adatto alle sue mire. C'è insomma uno "spirito di scissione" nella relazione tra Pariano e il Pd che, prima o poi , dovrà risolversi e si risolverà in una frattura, perché non è facile immaginare e individuare un possibile punto di congiunzione politica o una qualche figura capace di proporre una mediazione tra le parti. Anche perché un partito che da mesi agisce senza segretario politico, ossia che ha deciso di optare per una gestione collegiale che è la madre di ogni immobilismo, è difficile possa lavorare per appianare le problematiche interne e presentare all'esterno un'immagine solida e unitaria. Per farlo servirebbe un amor di partito che è sostanza ormai estinta e di cui il Pd non sembra aver ereditato l'ombra di una traccia. E nel frattempo, autobus gratis per tutti!!
    

16 aprile 2013

L'ultimo viaggio di Angelo, il francescano rosso


Ho saputo subito, stamattina, della morte di Angelo Falzetti. Ha funzionato il vecchio passaparola dei comunisti, come se nei lutti scattasse il tam tam di una memoria politica ed esistenziale dispersa e irrisolta. Angelo Falzetti ci ha fatto credere a un comunismo gentile e solidale e ci reso digeribile anche il peggio di quel mondo ormai dimenticato: l’humus staliniano, la diffidenza nei confronti del libero pensiero, una durezza monastica che a fronte del lassismo odierno sembra meritevole di nostalgia, la presunzione di avere la storia e la ragione dalla propria parte. Ricordo senza veli quando il PCI decise di cambiare nome e natura: Angelo ne soffrì intensamente  e non si diede pace finchè non mise al sicuro la bandiera rossa, quella storica con la falce e il martello dorati, perché quando hai perduto la bandiera sei solo un soldato del nulla. Come forse gli apparimmo noi giovani con la nostra voglia di modernizzazione politica che per lui, credo fosse qualcosa di incomprensibile e tutta inscritta in una infinita superficialità da iconoclasti impazienti e incapaci di aderire al dettato togliattiano del rinnovamento nella continuità. E nonostante questo ci volle sempre bene anche se gli avevamo dato il dolore più profondo della sua vita. Ma di Angelo ho anche ricordi antecedenti alla militanza politica. Ricordi di bambino, di quando mia madre lavorava all'albergo Italia, avanti alla stazione ferroviaria, gestito da Angelo e dalla moglie Assunta, donna straordinariamente simpatica, cuoca eccelsa – con i suoi indimenticabili e irripetibili cannelloni di carne - e custode severa di fatiche e memorie familiari. Di Angelo non posso non ricordare i racconti partigiani, la memoria commossa dello zio prete, la mitologia narrativa di una Resistenza vissuta con una impressionante e sincera continuità emotiva e il mio io bambino forse condizionato da quei racconti che immaginavo espressione di un eroismo che meritava d'essere scoperto. E poi un aneddoto di mio padre, collega ferroviere, di un giorno d’estate di metà anni settanta, a Roma, quando Angelo lo chiamò quasi urlando per presentargli un amico, un signore minuto e dimesso che rischiò di ritrovarsi in faccia il gesto di stizza di mio padre: Enrico Berlinguer. E poi un altro ricordo del tutto personale. Eravamo andati insieme al Palaeur nel 1988 per il Congresso Nazionale del Pci e mi presentò un'anziana e stupenda signora con cui aveva confidenza e cameratismo: Carla Capponi, medaglia d'oro della Resistenza e protagonista dell'attentato contro le SS a via Rasella.  Ma Angelo, in quanto francescano senza saio e senza tonsura, era anche il comunista amico dei preti, il compagno che aveva il senso prfondo dell'unità popolare, uno che non credo sia mai riuscito a distinguere tra Cristo e Marx, l’incarnazione di un comunismo ecumenico, senza lotta di classe, in cui la solidarietà diventava fratellanza e il socialismo etica, morale e stile di vita più che gelida e spietata filosofia della storia. Mi è capitato tante volte di sentir dire da gente di provata fede anticomunista: “se i compagni fossero tutti come Falzetti sarei comunista anche io”. Come a dire che anche le distanze ideologiche più radicali e profonde si estinguono davanti al valore delle persone e allo stupore che nasce dall'incontro con una generosità sincera e contagiosa. Buon viaggio vecchio partigiano. Ti salutiamo a pugno chiuso e col segno della croce, perché sappiamo bene che per te erano la stessa cosa.
    

Tra palco e realtà: note senza giubilo sull'avanzo 2012


Il Bilancio di un Comune possiamo figurarcelo come una creatura anfibia: "terrestre" nella dura legge delle cifre, dei principi contabili, della matematica che non è un'opinione, della microlingua specialistica che ne accompagna risultanze e valori; "marina" nella propensione ai delta, alle variazioni, agli assestamenti, agli alambicchi della manovra politica e del lenzuolo sempre troppo corto. E' questa doppia natura che rende il Bilancio necessario e inaccessibile, un Giano Bifronte che grida e tace allo stesso tempo, che informa e disorienta in un colpo solo, la bussola e il depistaggio di una pubblica opinione sempre distante e attonita. Un bilancio, se vogliamo ridurre il ragionamento ai minimi termini, non è altro che la narrazione di un anno di accadimenti: di quel che si desidera fare e di quanto si è davvero realizzato, l'eterna dialettica tra "palco e realtà", per dirla con le parole rockettare di Luciano Ligabue. Il Bilancio di Previsione esprime il disegno, la prospettiva a breve, lo sforzo di mettere le gambe all'immaginazione politica e ai programmi di governo. Il Bilancio Consuntivo è, più prosaicamente, il resoconto dell'accaduto, il prospetto in cui si riassume - in forma fotografica - il flusso implacabile dei fatti e delle circostanze reali. E questo gioco infinito e circolare di preventivi e consuntivi serve a tirare righe convenzionali in un flusso che non si interrompe mai e che fonda la continuità di funzionamento di un'azienda pubblica. Il Bilancio di Previsione declina, quindi, la volontà politica mentre il Bilancio Consuntivo ne misura la fondatezza empirica e l'efficacia delle decisioni. Ciò vuol dire che uno scostamento di valori - denominato avanzo se il delta è positivo e disavanzo in caso di forbice negativa tra previsione e chiusura - appartiene all'ordine delle cose naturali, ma è comunque faccenda di cui non menar vanto perché significa che non si è riusciti a spendere quanto era stato destinato in sede di previsione. E le possibilità, quando ci si confronta con l'avanzo, si restringono logicamente a due: o si è rinunciato - per viltade o per opportunità politica o per chissà quale altra diavoleria - a fare qualcosa che era stato messo in conto, oppure ciò che si immaginava costasse X alla fine è stato ottenuto in economia, determinando un valore ridotto di X-y. Comunque vada sia la rinuncia che il minor costo paventano difetti progettuali e di previsione: risorse destinate a un capitolo che potevano essere meglio utilizzate altrove, magari evitando di distrarre risorse da ambiti più direttamente connessi al rapporto di scambio tra cittadini e pubblica amministrazione. Ma poi, concretamente, di cosa si compone un avanzo di amministrazione? Sostanzialmente esso sintetizza ed esprime il saldo tra la cassa, i residui attivi e quelli passivi. Il che, profanamente, obbliga a chiarire cosa siano questi rinomatissimi e blasonati residui. Quelli attivi sono somme accertate ma non riscosse entro il termine dell’esercizio, mentre si definiscono residui passivi le somme impegnate e non pagate sempre alla chiusura dell’esercizio. Ciò significa che un avanzo di amministrazione è concretamente spendibile, al netto della cassa, solo se e quando si chiuderanno, con la riscossione e il versamento, tutte le fasi dell'entrata. Dal che si evince che è l'entità e l'esigibilità dei residui a determinare il livello di virtualità o di concretezza di un avanzo di amministrazione. Alla luce di queste considerazioni si fa fatica a capire perchè mai Sagramola e Tini abbiano convocato una conferenza stampa per annunciare, urbi et orbi, l'avanzo 2012 quando esso esprime una virtualità congenita legata ai residui e segnala comunque un sensibile difetto di previsione. Sicuramente lo hanno fatto per ragioni mediatiche e per rimarcare una virtù gestionale rispetto alla passata amministrazione visto che il 2012 si chiude con un avanzo in diminuzione di circa 3 milioni di euro rispetto al 2011. Un calo spiegabile con la "ripulitura" sia dei residui attivi che passivi, avvenuta eliminando crediti non più esigibili e debiti non più dovuti. Il prezzo di questa operazione Mastro Lindo, in apparenza ordinaria, necessaria e tecnica, è stato un'azione di recupero che ha fatto leva non sulla persuasione ma sul metodo assolutamente convincente e tassativo, tanto per utilizzare un eufemismo, praticato da Equitalia. Il tutto per produrre un avanzo di amministrazione di 1.784.220 euro dei quali 894.374 euro vincolati; 51.914 euro per spese in conto capitale e un avanzo libero di 837.931 euro che potrà essere impegnato solo a seguito degli incassi. Con almeno il 50% di tale importo destinato a coprire eventuali debiti fuori bilancio derivanti contenziosi, parcelle e affini. Concretamente vuol dire che 400 mila euro teorici, perché condizionati dall'esigibilità, saranno destinati a finanziare cappelle legali e contenziosi e altrettanti - anche loro teorici per le medesime ragioni - serviranno per eventuali operazioni di rafforzamento delle spese che interessano la vita dei cittadini e non il finanziamento della struttura. Il che significa, volendo essere ottimisti a tutti i costi, che l'avanzo reale del 2012 destinato al finanziamento del core business corrisponderà a circa la metà della metà. In pratica poco più di una becca raccontata al popolo come virtuoso e straordinario tesoretto.
    

15 aprile 2013

Tra scelte epocali e opzioni fecali

Iniziamo questa prima settimana di vera primavera con un argomento leggero, che però ben testimonia - e ovviamente si ironizza - la volontà della politica fabrianese di fare chiarissimi e certificati passi in avanti sulla via della rinascita cittadina. Pare infatti definitivamente sbloccato il provvedimento che consentirà di passeggiare, con i cani al guinzaglio, per viali e vialetti dei giardini Margherita. Un provvedimento di sicuro impatto che garantirà benefici al PIL cittadino e anche molta fortuna, perché pestare una merda di cane non solo porta buone nuove, ma assicura pure soldi e felicità. La cosa che mobilita la fantasia non è tanto che la politica occupi il suo tempo preziosissimo e inutile a discutere di di questo "popò" di riforme quanto che attorno ad esse si costruiscano mobilitazione e dibattito, con tanto di chiamata in causa del pensiero liberale e della sensibilità animalista, come se non fossimo tutti perfettamente coscienti che si tratta di delibere che vanno incontro alla pigrizia e alla passeggiata comoda dei padroni più che agli insindacabili diritti degli amici a quattro zampe. Gli effetti concreti di questa liberalizzazione fecale sono garantiti dall'esperienza pregressa: nonostante il rischio multe saranno ben pochi i cittadini muniti di paletta e bustina e i giardini Margherita diventeranno, rapidamente, un ricettacolo di merde  variamente dimensionate e attorcigliate. Per la gioia di mamme e papà che invece di rilassarsi in una panchina smanettando l'I Phone, si ritroveranno a interpretare il ruolo di navigatori urlanti per evitare ai pargoli l'incontro ravvicinato coi lasciti del quadrupede amico. E sorprende assai che la liberalizzazione e l'apertura di questo nuovo orizzonte fecale corrisponda, anche temporalmente, con la chiusura annunciata dei due spazi dedicati ai cani, ubicati a ridosso del Giano, appena sotto via Aldo Moro. Forse per approfittare di anni ed anni di concimazione naturale ivi cumulata, la Giunta ha infatti deciso di trasformare quell'area in orti sociali da dare in gestione a chi ne faccia richiesta, attraverso la nobile procedura del bando pubblico. In questo impegno di nuova ruralizzazione pare siano stati mobilitati pure gli studenti dell'ITAS, chiamati a comprendere quali possano essere le colture più adatte, manco fossimo comandati a piantare frumento in uno sconfinato belt del Montana. A dimostrazione, tra le altre cose, che nessuno ricorda le funzioni d'uso storiche di quel piccolo appezzamento di terreno  un tempo orto de "cicolegna", tutto piantato a grano, i cui proprietari sono ricordati per aver difeso, quasi manu militari, la propria casa colonica - con tanto di animali da cortile e da stalla - dalle ruspe di Claudio Biondi, che dovevano abbatterla per consentire il congiungimento di Via Aldo Moro e Via Benedetto Croce. Ora, l'idea di attivare gli orti urbani è sostanzialmente condivisibile per molte e diverse ragioni che in questo blog sono state ampiamente dibattute e proposte. Quel che incuriosisce è altro, ossia la scelta, ricca di saggezza e di humus organico, di spostare i cani e le loro merde dalla periferia cittadina ai parchi del centro storico. Un segno tangibile di quanto questa amministrazione comunale sia propensa a guardare lontano. Anche se sarebbe meglio che si limitasse a guardare con attenzione dove mette i piedi. Perché non di sole bucce è lastricata la strada che porta all'inferno.
    

13 aprile 2013

Gianmario il Globetrotter triste



Il Pd marchigiano ha fatto con Spacca quel che fecero i conservatori sovietici con Gorbaciov nel 1991: aspettare che fosse abbastanza lontano dai centri decisionali per attivare il piano d'azione golpista. A Spacca, bontà sua, non è toccata la reclusione in una dacia sul Mar Nero ma di certo gli è stato piantato in faccia uno schiaffo politico devastante: essere estromesso dal ruolo di grande elettore nelle votazioni per il nuovo Presidente della Repubblica, grazie a quel terreno propizio di congiure e rese dei conti che è il voto segreto. Spacca non ha potuto far nulla per sventare il complotto, perchè è difficile manovrare via telefono dal Vietnam, condizionato dai fusi orari, dalle celebrazioni, dalle commemorazioni e dagli incontri commerciali. C'è voluta una toppa peggiore del buco per porre rimedio a un voto che certifica non tanto e non solo una crisi politica quanto la fine di un'epoca: quella dell'egemonia spacchiana, del governatore su cui non tramonta mai il sole, del Preferito della grande industria fabrianese che era diventato più potente della sua stessa sorgente di origine e di legittimazione. Il Pd marchigiano, dilaniato da una spaventosa debacle alle recenti politiche, ha iniziato la resa dei conti con un Governatore reo di aver sposato la causa montiana proprio a ridosso delle elezioni e con un'azione felpata e gattesca che ne ha reso ancor più indisponente il tradimento. Sono stati molti i fabrianesi che hanno gioito di questa "sdenticata" spacchiana, perchè il popolo annusa rapidamente e istintivamente l'odore della disfatta ed è subito pronto e manzoniano nel dimenticare il servo encomio e nell'aderire al codardo oltraggio. E la cosa non sorprende perchè siamo tutti pronti al tafazzismo, acutamente redarguito da un commento che ho ricevuto di persona: "Adesso che avemo perso Spacca a Fabriano non c'è rimasto niente". Come a dire che il Governatore era l'ultimo strascico di un tempo in cui Fabriano era il vero capoluogo economico e di potere delle Marche. E per questo, se sappiamo guardare appena oltre il naso, possiamo sostenere che della sua disfatta politica pagheremo una quota parte anche noi fabrianesi, eternamente incapaci di fare squadra e sistema. E fin qui siamo alla politica e a opinioni variegate e opinabili. Ma quel che mi ha colpito di questa vicenda è la reazione al voto di estromissione che Spacca, dal Vietnam, ha pubblicato sul suo profilo di Facebook: "Viste le varie situazioni viene proprio da chiedersi se non sia il caso di restare qui, come stanno facendo tanti giovani pieni di coraggio". Una reazione malinconica, crepuscolare, lontana dal lucido realismo del manovratore moroteo e democristiano. Una reazione di distanza dagli affollamenti della lotta politica che Spacca, negli ultimi mesi, ha trasmesso con una certa costante insistenza, un'impressione di sollievo che sembra coglierlo tutte le volte che si trova altrove, in viaggio, quasi che il viaggiare sia la ragione fondante dei suoi spostamenti e la vera spinta con cui elaborare il lutto del proprio crepuscolo politico. E forse anche questo spiega lo sguardo continuamente rivolto verso le lontane contrade dell'Est, la passione per Matteo Ricci, il gesuita marchigiano che ha evangelizzato la Cina, e per Carlo Urbani, il medico di Castelplanio che per primo diagnosticò la Sars nell'Estremo Oriente. Insomma un Gianmarco Polo, un globetrotter triste e stanco di quel teatrino della politica e del potere di cui è stato a lungo protagonista. Ma come diceva il grande Marcel Proust "l'unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi ma nell'avere nuovi occhi".
    

12 aprile 2013

Un anno di Bicarbonati


Esattamente un anno fa ho pubblicato il primo post dei Bicarbonati. Oggi sono 352, quasi uno al giorno, accompagnati da circa 6.000 commenti e più di 155.000 visualizzazioni di pagine, di cui 100.000 negli ultimi sei mesi. Ho scritto di tutto e di più: di cose frivole e di faccende drammatiche, di cene segrete e di magheggi alla luce del sole, di povertà, tumori, suicidi, rotatorie e centro storico. Con la politica al centro della scena: irritante nella sua incapacità di fomentare passioni e immobile nella sua vocazione sediziosamente marchettara. E intorno una comunità smarrita, cadente e decadente, consumata da una forza di gravità che la costringe con la pancia a terra e col cervello in tasca. Ho scritto scrutando, rivendicando sulle cose lo sguardo distante del fotografo che ritrae senza avere colpa del ritratto. Ho provato a dipingere questa città con le parole, a farne l’ekphrasis, a descriverla con eleganza ma sempre col sospetto del gatto e con affetto a volte ruvido e sferzante. Voglio essere sincero fino in fondo: ho scritto non solo per raccontare Fabriano ai fabrianesi ma anche per dare la biada ai miei cavalli: perché mi piace scrivere, lo considero la mia cura omeopatica, l’occhio di bue in cui curo e vezzeggio il mio naturale egocentrismo. Anche per questo retrogusto personale ho ricevuto molte critiche di cittadini poco avvezzi al pensiero scorretto e cazzuto, ho accettato il sospetto che questo blog fosse la ricostruzione di un profilo pubblico lesionato dagli insuccessi politici quando invece era il più selvaggio dei riflussi, ho fatto delle cattiverie anonime una tempra aggiuntiva per l’anima e dei complimenti un piacere discreto su cui sorvolare compiaciuto. Ma la cosa più bella sono state le tante conversazioni furenti, i commenti accesi e squinternati, le saggezze montanare velate di postmoderno, il motteggio cinico di chi ne ha viste troppe e la voglia di smadonnare di chi non ne ha viste abbastanza. Anche senza metterci la faccia, il nome e il cognome, perché tra "bicarbonati, citrati e insorgenti acidità" viene bene pure sputacchiare, ruttare e prendersi la libertà, balorda e irrazionale, dell’invettiva e del giudizio che trancia invece di distinguere e ponderare. Per queste ragioni Bicarbonati non lascia ma raddoppia. Dalla prossima settimana buttiamo ancora più benzina sul fuoco: il sabato con lo Sciocchezzaio della Settimana, post dedicato al consuntivo delle notizie più insulse, agli spunti eroici di chi si dedica al colore delle mattonelle del bagno mentre c'è il tetto che crolla; la domenica con Chi sale e chi scende, post in forma di scala mobile in cui inchioderemo e glorificheremo persone e personaggi della nostra città che continuano a recitare, mentre il pubblico ha già lasciato da un pezzo platea e palchi. Politici e non. Perché alla fine “la gente è il più grande spettacolo del mondo. E non si paga nemmeno il biglietto” (C.Bukowski).
    

11 aprile 2013

Metà dei fabrianesi alla Caritas. La denuncia di Edmondo



Ieri assieme a Fabrizio Moscè abbiamo lanciato un logo di resistenza civica locale. Ha avuto molto successo, è rimbalzato in rete e nei social network, è stato condiviso nei profili di Facebook e, come era facile immaginare, ha pure suscitato sospetti e domande sulle intenzioni e sui retropensieri che ci hanno mosso. La saggezza popolare ci ha insegnato che chi mal fa mal pensa ma forse è giusto rassicurare i maliziosi e rasserenare quelli che la sanno lunga ma non la sanno raccontare: non abbiamo intenzione di commerciare col gallo che canta appeso alla Fontana e non vogliamo fondare un movimento politico perché ce ne sono già troppi, e anche piuttosto inutili, in circolazione. Al massimo ci interessano aggregati e aggregazioni liquide, che nascono e muoiono in poche ore attorno a un'idea, a un progetto o a una semplice passeggiata in città con  merenda e bibita finale. Ma resta il fatto che lo spirito del logo - non abbassare la cresta proprio quando verrebbe spontaneo farlo per via di certezze che svaporano e di un futuro che somiglia a una selva oscura - anche stamattina ha trovato un elemento di necessità e di urgenza nelle parole di Edmondo Ercolani, il Direttore della Caritas Diocesana. In una intervista al Carlino - pezzo forse compensativo rispetto allo scivolone della multa al padre del Sindaco - Ercolani ha messo nero su bianco le cifre di un vero e proprio dramma territoriale. La Caritas offre sostegno, assistenza e ascolto a qualcosa come 5.000 cittadini che valutate in una logica di nucleo familiare arrivano a 15.000 persone, ossia la metà della popolazione residente nel territorio di Fabriano. Si tratta di numeri che, al netto della quota riconducibile a chi ci marcia, demoliscono uno dei postulati del senso comune dei fabrianesi e cioè che la cassa integrazione, la mobilità e il sistema degli ammortizzatori sociali, abbinati al welfare familiare e a qualche piccola attività artigianale non dichiarata, fossero in grado di garantire un solido argine rispetto alla deflagrazione sociale. Le parole del Direttore Ercolani smentiscono, di fatto, qualsiasi illusione di tenuta e restituiscono la sensazione di un cataclisma sociale che avanza come il fronte fangoso di una frana più che il boato brutale della valanga. Ma ci sono altri punti cruciali nella riflessione di Ercolani: innanzitutto che siamo di fronte a un vero e proprio sistema di suicidi annunciati, di persone che dichiarano apertamente la propria volontà di farla finita a fronte di problemi economici e materiali ritenuti sempre più insostenibili e che la Caritas ha provveduto a segnalare alle istituzioni. Ciò significa che la pubblica amministrazione è al corrente di casi e situazioni e che ne è informata anche la politica locale, poco propensa ad andare oltre le elargizioni ad personam e mettere da parte lo stupore pilatesco con cui accoglie la notizia di persone che si suicidano per problemi economici. Ed è altrettanto significativo e inquietante che tante delle persone che si rivolgono alla Caritas dichiarino apertamente di aver pensato di delinquere, per procurarsi il denaro necessario al pagamento delle utenze o a evitare lo sfratto. Siamo di fronte a un grido di allarme che deve generare una reazione, un pugno nello stomaco che arriva da un uomo pacifico e mite come Ercolani, un cattolico non certo avvezzo a manovrare la povertà e la questione sociale per incendiare gli animi e le polveri. Ed anche questo è un sintomo che certifica la drammaticità del racconto e delle cifre. Bisogna fare qualcosa. Qualunque cosa. Fabriano è sull'orlo di una catastrofe sociale. E' il caso di dirselo. Una volta per tutte. 
    

10 aprile 2013

Il logo dei fabrianesi resistenti

Logo resistente
di Fabrizio Moscè e Gian Pietro Simonetti
Quello che vedete è un piccolo capolavoro nato dalla passione geniale di Fabrizio Moscè, frutto grafico di una conversazione di qualche tempo fa in cui abbiamo condiviso il bisogno di immaginare un logo orgoglioso e montanaro, che fosse capace di dare forma simbolica al desiderio di non mollare, di ritrovare l'energia dell'essere cittadini e soggetti attivi di una comunità locale a cui ci legano mille fili di appartenenza e di affetto. E allora abbiamo pensato di declinare la nostra indignazione in qualcosa che potesse esprimersi attraverso la forza sintetica ed evocativa di un'immagine. Un'indignazione rivolta innanzitutto contro noi stessi, per il torpore d'animo che ci rende fin troppo inerti di fronte alla nostra città malata. Il primo sabotatore che si annida dentro e corrode è il fatalismo, l'idea di essere infilzati in una decadenza inarrestabile, in un naufragio dolce di cui siamo protagonisti e vittime ma che, per sopravvivere, ci ostiniamo a immaginare come una proiezione lontana di cui siamo semplici spettatori. E il fatalismo spinge, inevitabilmente, ad abbassare la cresta, a rinunciare al canto del gallo che annuncia, impettito e potente, l'inizio di un altro giorno. Il secondo vietcong, nascosto come un serpente tra le foglie, è l'illusione protettiva delle mura domestiche, il rischio di ritrovarsi esodati volontari tra quattro stanze che evitano la sfida dell'incontro ed edificano una prigione solitaria e calda. E, da ultimo, il più feroce degli impedimenti e cioè l'individualismo, la pretesa di salvarsi da soli e di uscire dal gorgo solo in virtù di qualche dote personale più forte delle correnti e dei marosi. Il nostro logo vuole essere una risposta modesta ma simbolica ai sabotatori che albergano nell'anima di ogni fabrianese, un canto albeggiante di resistenza, una sfrontatezza civica profondamente autonoma e lontana da ogni gerarchia di pensiero e di appartenenza politica. La V con il carattere maiuscolo contiene, nello stesso tempo, il gesto di Winston Churchill dopo la vittoria sul nazismo e la sottolineatura di una nostra cadenza dialettale che sostituisce una consonante con un'altra e rappresenta un inconfondibile marchio di fabbrica comunitario. E poi l'arco stilizzato e lo scorcio di fontana che si coglie visivamente risalendo il Corso, che sintetizzano la dimensione più allegra e zampillante della faVrianesità. Quando Fabrizio ed io ipotizzato questa immagine l'abbiamo pensata come logo civico spontaneo, marchio di iniziative senza mediazioni politiche, impronta simbolica di un orgoglio applicato alle cose di tutti i giorni e agli interessi più limpidi della collettività cittadina. Oggi ve la proponiamo e vi invitiamo a diffonderla, a utilizzarla come foto nei profili di Facebook, a farla conoscere in un passaparola che possa esprimere un contagio buono e duraturo. Può essere un primo passo di nuova coralità. E per una volta proviamoci, perché non tutto è perduto e non tutto il resto è noia.
    

9 aprile 2013

L'eutanasia dolce di Poiesis


Poiesis rientra ufficialmente nel novero delle occasioni perdute. Un destino che l’accomuna alla Mostra dedicata a Gentile da Fabriano e all'altro Rinascimento. Entrambe le manifestazioni si sono proposte e imposte come evento, come donazione culturale una tantum, come atto di generosità unilaterale di una famiglia ricca e prestigiosa nei confronti della città che ha consentito a quella stessa famiglia di cumulare ingenti ricchezze e di brillare nel firmamento imprenditoriale. Fabriano, da questo punto di vista, ha reagito a Poiesis confermando la sua epidermica estraneità ai processi culturali: con una passività quasi ovina, con lo stupore di ritrovarsi - senza volerlo, senza saperlo e senza immaginarlo - al centro di un’inedita scena culturale, costruita nello spazio ristretto di luoghi familiari attraversati e vissuti senza passione, e col desiderio che l’evento fosse magicamente in grado di lasciare tracce e impronte indelebili su cui edificare una fortuna collettiva fondata sulla routine di una replica annuale. Invece era nella natura intrinseca di Poiesis lasciare in eredità soltanto polvere e vento perché il format nasce per sovrapporsi allo spirito cittadino senza compenetrarsi con esso proprio per renderlo replicabile a prescindere dalle città e dai luoghi. Ma si è preferito alimentare un’illusione piuttosto che fare i conti con la realtà. A consuntivo possiamo confessarlo serenamente: è stato inutile passare ore ad ascoltare, con sguardo rapito e colto, concerti di pianisti noiosi e solitari ai Giardini del Poio sperando che fossero il seme di una rinascita; è stato ridicolo sentirsi il centro del mondo per via di una notte di musica balcanica trascorsa col musicista pronto a farsi icona e mito; è stato inutile girare a vuoto sbalzati da Poio a Castelvecchio e da Castelvecchio a Poio per commentare mostre di artisti contemporanei capricciosi e incomprensibili. Tutto inutile e vano, come nel Qoelet biblico, anche perché Poiesis, così come l'abbiamo conosciuta, non si terrà più. Lo ha comunicato Francesca Merloni annunciando alla città il trapasso dolce, una morbida eutanasia giocata sulla finzione dell’effetto speciale: Poiesis cambia nome e format per vivere e sopravvivere in un momento di stasi e di crisi. Un annuncio pensato per dare miele alla delusione, per evitare un altro sfregio al già malconcio spirito cittadino, per animare la finzione amara di una proposta che muore ma risorge dalle sue ceneri più bella che pria. Francesca Merloni ha provato a raccontare il cambio di nome e di format come una necessità evolutiva, come una prassi di miglioramento necessaria per emozionare e sorprendere. Ma questo è l’ordine del discorso ufficiale perché il successo di Poiesis e la sua capacità attrattiva sono dipesi oltre che dalla qualità della proposta culturale – comunque discutibile e radical chic – anche dal fatto di connotarsi temporalmente come Festival, come rassegna iperconcentrata di eventi e di appuntamenti dislocati in uno spazio in cui era possibile passare da una manifestazione all'altra vivendo giornate di emozione individuale e collettiva. Spalmare gli eventi di Poiesis lungo una linea annuale significa trasformarlo in una sommatoria di appuntamenti che eserciteranno attrazione soltanto su un centinaio di concittadini e al netto di ogni richiamo turistico e sovracomunale. E il cambio di nome e di format fa pensare che Po-Etico (come si chiamerà il nuovo format tutto fabrianese) non sia altro che un modo per regalare alla città un sottoprodotto più modesto e limitato, conservando intatto il format e il nome originario, magari per operazioni di trasposizione altrove, dove gli sponsor sono più disponibili a foraggiare e dove è possibile costruire continuità, partecipazione e protagonismo in collaborazione con la comunità ospitante. Nel caso sarebbe stato sufficiente sostenerlo con chiarezza perché una città che sopporta stoicamente 3.800 disoccupati e cassintegrati è assolutamente capace di assorbire la diserzione di qualche artista coi lunghi capelli bianchi e il solito musicista con Marlboro e codino. Ma ripeto: bastava dirlo chiaramente invece di fare la solita pedagogia prudente che gli aristocratici amano così tanto e così intensamente riservare al popolo che li onora. 
    

7 aprile 2013

Lo spot gratuito e la multa al padre del Sindaco



Riprendo una notizia di ieri, che a un primo sguardo mi ha fatto sorridere per la banalità del tema ma che poi, invece, mi ha spinto a riflettere per il contenuto politicamente subliminale ma non troppo. Pare infatti che le ausiliarie del traffico - impalcate ormai a rigidissime signorine Rottenmeier munite di carta, penna e giubbottino di riconoscimento - dopo aver verbalizzato soste d'ogni genere e relative multe con opzione low cost, siano giunte a sanzionare, ovviamente senza conoscerne l'identità, anche il padre del Sindaco Sagramola, reo di aver parcheggiato la macchina, giusto per qualche istante, davanti a una farmacia. Insomma, una piccola nota di colore, una microcronaca da trafiletto a cui il Carlino ha invece dedicato tre colonne, corredate da foto di ausiliaria a lavoro e tondo con volto sagramoliano. Ed è stata proprio la stonatura tra dimensione dell'articolo e portata del fatto a sollecitarmi un lettura più attenta, approfondita e maliziosa. Già perchè a guardarlo bene non si tratta di un articolo ma di uno spot a favore del primo cittadino che, grazie al provvidenziale aneddoto, ha avuto modo di proclamare, urbi et orbi, il suo conclamato rigore, l'inflessibilità e il personale disdegno per qualsiasi familismo. In questo senso il titolo dell'articolo è già un programma: "Multato il padre del Sindaco. Il figlio :"E' corretto così". Dal che si evince che il focus dell'articolo non è nella multa comminata al padre ma nel commento del figlio che trasmette al lettore la sensazione di un amministratore più luterano che cattolico, e quindi privo di ogni debolezza, a partire da quelle affettive che di solito sono il tallone di Achille di tutti noi. Ed è straordinario e funzionale il dopomulta raccontato dal Sindaco: "Tornato a casa mio padre ha chiesto subito spiegazioni al sottoscritto. Mi sono fatto raccontare l'episodio e una volta capito come era andata ho riferito a chiare note che si trattava di una multa legittima". Il che fa pensare che in Casa Sagramola si sia discusso a decibel elevati, perchè il riferimento alle "chiare note" delinea quasi una scena in cui lo junior, in nome della correttezza, alza la voce col senior che smadonna sul fare delle ausiliarie. Ma il bello è che il Sindaco, in un impulso quasi feudiano, si limita a definire la multa soltanto legittima, rimarcando implicitamente che la verbalizzazione delle ausiliarie è formalmente corretta ma non risponde a un criterio di equità, perchè altrimenti oltre che legittima l'avrebbe definita pure giusta o giù di lì. In realtà l'aneddoto paterno è un pretesto retorico che serve a Sagramola, oltre che per segnalare il suo rigore personale, per rivendicare l'assunzione delle ausiliarie e il loro operato, contestando chi sostiene che il Comune voglia far cassa con le multe agli automobilisti. Il ragionamento del Sindaco, non a caso, naufraga quando afferma che il numero dei verbali  - da quando sono attive le ausiliarie - è allineato quantitativamente al dato dell'anno scorso. Il che non sembra coincidere con le accese e frequenti proteste dei cittadini che Sagramola stesso riconosce e di cui l'anno scorso non non vu fu nè traccia nè notizia. Ma anche se fosse vero che i verbali non sono lievitati rispetto al 2012, sorgerebbe comunque un'altra constatazione e cioè che l'assunzione di queste due figure - pagate a contratto e non a percentuale come rimarca Sagramola - sono l'ennesimo costo inutile che devono sostenere i cittadini. E per concludere torniamo all'origine con un altro interrogativo interessante: come ha fatto il giornalista a sapere della multa al padre del Sindaco? Lo ha colto in flagrante con la macchina in sosta davanti alla farmacia? Ha riconosciuto il numero della targa? Difficile da credere e da immaginare. E allora chi poteva informare il giornalista della multa? Qualcuno che conosceva la corrispondenza tra quella targa e il nome del proprietario? Con quali finalità? Informative o di propaganda? Insomma, siamo davanti a una notizia di colore o a uno spot politico, confezionato alla meno peggio? Personalmente propendo per la seconda ipotesi.
    

6 aprile 2013

Gisleno, Paolo e Mauro: I Triumviri della Divulgazione

Ieri abbiamo parlato di solitudine e suicidio come segni di una crisi che è innanzitutto identitaria e comunitaria. E abbiamo ragionato di quanto sia costoso e doloroso rompere i sistemi e i vincoli che garantiscono un minimo di integrazione e di coesione sociale. La sfida di una grande politica che non c'è è quella di riannodare fili, di fare in modo che le relazioni tra le persone non si interrompano, di immaginare spazi in cui i rapporti si costruiscono. E' un'altra politica che non ha punti di contatto con le rotatorie, i lavori in corso, i marciapiedi divelti e i sanpietrini che non reggono. Lo spazio delle relazioni è la piazza, è il quartiere, sono i vicoli e gli slarghi, è la riappropriazione dei muri, è il diventare gatti affezionati all'ambiente per essere poi cani legati alle persone. Ma per amare i muri, gli edifici e le scialbature bisogna conoscerle, comprenderne il valore e carpirne l'anima attraverso la piena cognizione di come in quel punto si sia sedimentato un pezzo d'identità e di storia. E se la politica è questo appartenere spogliato di scettro, di allori e di congiure anche il singolo atto politico cambia forma, senso e direzione: non è più soltanto la delibera, la determina o l'appalto ma pure altro. Per esempio un ciclo di vecchie fotografie che cominciano ad apparire su Facebook e che, giorno dopo giorno, vengono apprezzate e condivise con uno spirito virale che si moltiplica attraverso il rimbalzo, il commento e il sentirle parte di un patrimonio comune da salvaguardare. Oggi se penso alla buona politica non mi vengono in mente il Sindaco, la Giunta o le forze che animano il civico consesso ma un Triumvirato di Divulgatori che si sono messi nella testa e nel cuore di raccontare la città attraverso le immagini e di fare storia narrando visivamente la trasformazione urbana: Gisleno Compagnucci, Paolo Natali e Mauro Cucco. Sono tre appassionati che invece di nascondere gelosamente storie e memorie hanno deciso di custodirle condividendole, donando all'occhio scettico e sfiorito dei fabrianesi la più nobile e immateriale delle opportunità, quella di guardarsi allo specchio e di riconoscersi come cittadini e come comunità. Al punto che Giampaolo Ballelli ha avuto un'idea di gran pregio: utilizzare questo corposo e forse infinito archivio fotografico, che ormai ogni giorno sorprende e affolla i social network, nella base materiale di una ricostruzione tridimensionale. Per dare sostanza organica e complessiva al "come eravamo", per avere cognizione di quanta inutile distruzione di bellezza sia stata perpetrata da amministratori analfabeti e sbrigativi e di quali interventi sarebbero necessari per restituire a Fabriano quel minimo di lustro che abbiamo dilapidato e di cui è terribile testimonianza lo stacco estetico e materiale che segna il confine tra il cerchio delle antiche mura e i nuovi quartieri di quel che resta della città operaia e funzionale alla produzione fordista del merlonismo. La politica tradizionale è fortunamente altrove e forse è giunto il momento di pensare, di vivere e di agire ignorandola, operando come se non esistesse.
    

5 aprile 2013

Suicidi, orgogli e pregiudizi nella "città del fare"

La tradizione e la cultura ci hanno abituati a stendere un velo pietoso sul suicidio. E' un evento traumatico su cui preferiamo glissare, di cui sfuggono ragioni e spiegazioni convincenti e che spinge a un rispettoso e glaciale silenzio, come fossimo chiamati a interrogarci singolarmente ma soltanto ripiegando in una dolorosa introspezione. La vulgata e il chiacchiericcio attribuiscono al suicida le stigmate della debolezza, della vigliaccheria e dell'egoismo di chi impone ai cari che rimangono un continuo e tormentato rincorrersi di interrogativi. Qualcuno, in un sussulto di romanticismo, rimarca il coraggio della vita interrotta come atto finale e definitivo di libertà. Altri, ispirati dal pensiero cristiano, si allineano alla denuncia dell'arroganza prometeica che spinge l'uomo a decidere l'esito di una vita che è dono di Dio e può essere recisa solo dal disegno imperscrutabile del Creatore. Ma, come ha spiegato il grande sociologo francese Emile Durkheim, esiste anche un suicidio che non nasce dal disordine interiore, perché matura in un contesto influenzato dalle dinamiche sociali più che dalle problematiche individuali. E siamo, in un baleno, al suicidio anomico, al gesto perpetrato da chi subisce un violento turbamento delle condizioni economiche o da chi interpreta l'evoluzione della società come qualcosa a cui non si riesce né a stare dietro né a tenere testa. Farla finita si fa espressione di un disadattamento e della volontà di scendere da una giostra che ci trascina chiedendo prestazioni sempre più impegnative, sempre più onerose e sempre più vane. Fabriano, negli ultimi mesi, ha conosciuto un susseguirsi di suicidi anomalo rispetto al nostro modus vivendi. Una realtà, la nostra, che proviene da livelli di grande benessere materiale e piena occupazione che hanno facilitato un senso forte e profondo di integrazione sociale. Un'integrazione intimamente connessa a un preciso statuto, fondato sulle gerarchie del denaro e sulla "posizione" raggiunta nella piramide sociale. Con un'offerta di lavoro superiore alla domanda il meccanismo dell'integrazione si riproduceva per congenita inerzia e le eccezioni venivano espulse e dimenticate come gravissime violazioni del comune sentire. L'imprenditore costretto a chiudere dai rovesci del mercato era considerato un "fallito"; il lavoratore o la lavoratrice che perdevano il posto, senza ritrovarlo nel giro di una settimana, sfigati alla nascita e senza desiderio di riscatto da consumare attraverso quella che Papa Francesco ha definito, con grande efficacia, l'"oscura gioia del pettegolezzo". Quel meccanismo sociale di integrazione ed espulsione - allo stesso tempo rassicurante e feroce - si è estinto in pochi mesi senza portarsi dietro la colonna infame del suo retaggio culturale, la tendenza innata a punire con le parole e con la diffidenza chi si trova in difficoltà per via di un lavoro perduto o di un'attività che smette di brillare e dare soddisfazioni. Di questo strascico velenoso di pregiudizi e di provincialismo arcaico sono le donne a pagare il prezzo più alto perché perdere un lavoro significa - per tutti ma per le donne in modo particolare - smarrire un importante disegno di autonomia personale da coltivare a dispetto di una cultura che rimpiange l'età dell'oro dei focolari, degli angeli e delle subalternità; provare una fatica gigantesca e vana nella ricerca di un'altra occupazione e, spesso, compromettere anche la stabilità dei rapporti affettivi e sentimentali. Il danno e la beffa che si sommano e diventano un'insostenibile pesantezza dell'essere, un macigno interiore che spinge al suicidio anomico perché l'uomo è un animale che spera e quando smette di sperare non riesce a convivere con la sua natura primordiale e con la perdita di certezze e di valori identitari. Ho letto qualche giorno fa di alcuni psicologi che si sono messi a disposizione gratuitamente per le persone che, nella nostra città, perdono il lavoro. Credo sia un'iniziativa di grande intelligenza e sensibilità perché in una situazione di crisi l'esperto di meccanismi mentali serve quanto e più di un patronato. Un tempo si esprimeva questo gioco di precedenze con una frase efficace e brutale: "prima magnamo e poi pregamo". Oggi probabilmente è assai più vero il contrario.  
    

4 aprile 2013

Fabriano: tagli alla politica ma soldini ai dirigenti


johnny depp nel film edward mani di forbice 116490 Edward mani di forbice: il malinconico Pinocchio di Burton
La politica ha commesso un errore storico nel suo rapporto con i cittadini: far credere che la crescita economica, il benessere e la competitività del sistema siano bloccate e ostruite dal costo della politica. Ragion per cui sarebbe sufficiente tagliare emolumenti, indennità, diarie e gettoni di presenza per riattivare, in automatico, le macchine inceppate del sistema Paese. In questo modo la propensione al taglio dei costi della politica  è diventata una linea di frontiera ideologica tra crescita e stagnazione, tra riforme e immobilismo. Questo stravolgimento di significati ha consentito – ad esempio ai grillini - di accumulare immense fortune elettorali quando, in realtà, il costo della politica non è altro che una voce tra le tante - e forse nemmeno la più onerosa - nel grande vaso di Pandora della burocrazia pubblica e statale. C'è poco da fare: impegnarsi per uno Stato leggero e lottare contro la burocrazia ha un retrogusto liberale che non eccita gli animi, mentre la crociata contro la politica ingorda e dedita al ladrocinio tocca corde emotive potenti - seppur anarcoidi, destrorse e sottoproletarie - del popolo italiano, storicamente educato a disprezzare la democrazia a ricercare, senza sosta, un duce risoluto e risolutore a cui sacrificare anima, culo e libertà. A Fabriano, tanto per restare nel nostro piccolo mondo antico, si è discusso molto sul taglio dei gettoni ai consiglieri e dell'emolumento degli assessori. Una discussione che ha lambito e oltrepassato il ridicolo in una città che assiste impotente alla chiusura di aziende e allo stillicidio di posti di lavoro persi. Come era prevedibile Sagramola ha giocato a fare Edward Mano di Forbice, ma senza il fascino di un Johnny Depp. E a ristabilire un po’ di ordine e di verità ci ha pensato la Gola Profonda del Pd, che con le sue parole ha restituito il senso del prosaico a un gesto che era parso politicamente circondato di allori etici e poetici. La prima chiave è il DM 119/2000 che prevede, per i consiglieri dei comuni compresi nella classe demografica tra 30.001 e 250.000 abitanti, un gettone di ammontare pari a 70.000 lire, ossia a 36,15 euro. Una cifra che corrisponde a circa un terzo di quanto hanno percepito, per lungo tempo, i consiglieri comunali fabrianesi. Secondo Gola Profonda il riallineamento sagramoliano del gettone serve a scongiurare – ma non si sa quanto – un rischio incombente e cioè che vecchi e nuovi consiglieri siano chiamati a restituire la differenza tra quanto previsto dal DM e quanto realmente percepito, con tutte le complicazioni legate alle passate dichiarazioni dei redditi, all'imposizione fiscale e ai versamenti volontari effettuati in favore dei partiti di appartenenza. Insomma più che ai tagli siamo ai ritagli, anzi a vere e proprie frattaglie di piccolo cabotaggio a cui si cerca di dare forma, nobiltà e senso. Ma Gola Profonda mi ha fatto notare un'altra cosa interessantissima e cioè che mentre la politica imbastisce su se stessa operazioni penitenziali - condite di autocritiche e di flagellum - la burocrazia comunale cura i suoi interessi con serena e felpata attitudine, senza che la cosa venga minimamente sottolineata o notata. Con la determina n°153 del 21 marzo 2013 - che chiunque può scaricare dal sito Piazzalta.it – è avvenuto un ritocchino interessante del Fondo per il trattamento accessorio dei dirigenti. Interpretando a loro favore la diminuzione della dirigenza degli uffici di staff (2011) e servizi sociali (2012), la parte variabile dello stipendio - legata al risultato dei dirigenti delle funzioni dismesse – è stata trasferita al Fondo, magari per sopperire a un’assenza di dirigenti che ha comportato un incremento di responsabilità e di lavoro. Anche se questa chiave di lettura sembra abbastanza campata per aria, sia perché il comune di Fabriano ha diverse posizioni organizzative riconosciute e pagate in sostituzione dei dirigenti, sia perché con la crisi il lavoro del Comune – sempre secondo Gola Profonda -si è ridotto di almeno del 30%. Tra l’altro c’è da dire che il decreto Tremonti 122/2010 precisa che tutte le amministrazioni pubbliche hanno l’obbligo di ridurre automaticamente i fondi del trattamento accessorio in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio. Questo significa che se un dirigente cessa dal servizio il fondo destinato al finanziamento della retribuzione di posizione e di risultato deve ridursi automaticamente. Il che alimenta qualche perplessità sul contenuto della determina. Niente di illecito sia chiaro, ma di certo in un momento di cinghie tirate, di servizi ridotti all'osso e di pagamenti anticipati, qualsiasi ritocco verso l’alto delle retribuzioni della burocrazia pubblica è moralmente inaccettabile e dovrebbe, invece, stimolare un processo inverso di rinuncia e di taglio volontario. Stiamo parlando di circa 25 mila euro, che non sono certo una cifra da Paperon de’ Paperoni, ma visto che tutti reclamano segnali è buona cosa che a darli siano tutti e non solo i san sebastiano che hanno avuto la sventura di essere eletti in consiglio comunale o nominati assessori. E su questo sarebbe interessante conoscere il parere dell’assessore Angelo Tini, che dai banchi dell'opposizione faceva il Gigi Riva, il Rombo di Tuono sulle retribuzioni dei dirigenti e oggi, invece, sembra rapito e conquistato dalla saggezza del silenzio. Così come sarebbe interessante conoscere, su questo ritocco del Fondo, la posizione e le intenzioni di tutte le forze politiche, a partire dagli assertori del "taglio dei costi a tutti i costi".

    

2 aprile 2013

Le demolizioni amiche della bellezza


La Piazzetta di San Benedetto come era. (Foto P.Natali)
Il nostro tempo sarà ricordato dai posteri per la vocazione al monologo, alla disattenzione insonorizzata e all'autoreferenzialità più triste e solitaria. Ma uno scampolo di memoria sarà dedicato pure alle pulsioni contrarie e ai contrappassi logici visto il fluire, limaccioso e straripante, di appelli al dialogo, al costruire, all'armarsi di calce e cazzuola per innalzare ed edificare senza sosta e senza ritegno. La reputazione e il buon nome delle genti sembrano dipendere più da questo nobile intento che dalla concretezza e dallo stile dell'essere. Le persone perbene sono i costruttivi indomiti, quelli che girano con la proposta in tasca e che replicano al dubbio con le certezze di uno studio di fattibilità. La dannazione coincide invece con la critica - un tempo sale d'ogni intelletto ridotta a ritenzione idrica e cerebrale -, con la repulsione non meditata e viscerale, con la tentazione montaliana del "ciò che non siamo e ciò che non vogliamo". Ma anche il naturale desiderio di costruire ha bisogno del suo contrario, del gemello cattivo, di una sana voglia di distruzione. La politica - attraverso la ripartizione di ambiti tra la logica edificante di chi governa e quella critico distruttiva di chi fa opposizione - ha riconosciuto la legittima convivenza di queste due pulsioni. Ragion per cui il distruggere è parte integrante del governo della polis. Da questo punto di vista Fabriano ha sicuramente bisogno di una vision costruttiva ma anche di qualche punto fermo entropico e demolitorio. Il recupero estetico e urbanistico del centro storico, in termini di rispetto della bellezza, trova ogni giorno il suo luogo di deflagrazione e, in parallelo, la sensazione che sia sufficiente qualche piccola azione distruttiva per ristabilire l'ordine delle forme e mondare la città dall'impronta brutale di edificatori senza cuore e di decisori senza vocazione, quelli che il compianto Renzo Passari giustamente denominava "figli delle tenebre". La piazzetta su cui si affaccia la chiesa di San Benedetto è una prova fisica e oculare di questa esigenza demolitoria. Siamo  in uno dei punti più belli e suggestivi del centro storico cittadino, racchiuso tra la ripida discesa di Via Mamiani e il dislivello a salire di via Damiano Chiesa. Sulla piazzetta si affacciano la più bella chiesa cittadina col suo barocco sfarzoso e tridentino, il vecchio monastero ristrutturato e restituito alla sua bellezza e, di lato, il Gonfalone, piccolo scrigno di bellezza rimasto a lungo rinchiuso e dimenticato. Davanti al Gonfalone si spinge ripidamente verso l'alto il I° Vicolo di Via Balbo, in uno scorcio di città medievale degno di una rappresentazione gotica in cui terra e cielo si toccano e delineano un tutt'uno. Ma la vista completa di questo capolavoro creativo e costruttivo è ostruita da un edificio che nasce da una pura e semplice esigenza di riempimento di spazi. Parlo, ovviamente, della sede della Croce Rossa, un cubo in muratura estraneo al contesto, una costruzione disadorna e senza stile che non incarna, di certo, la mescolanza dei generi ma soltanto l'istinto irrefrenabile del cavolo a merenda. Demolire quel cubo, e liberare la piazzetta dalle strisce di parcheggio e dalle auto che sistematicamente la invadono, non costituisce, quindi, un cedimento alla critica che allegramente distrugge e rade al suolo, ma incarna la più nobile e alta delle azioni di tutela. Il giorno in cui un'amabile ruspa smonterà, pezzo a pezzo, quell'inutile obbrobrio sarà un giorno si festa per tutti i fabrianesi. E spero che i comitati cittadini e le associazioni cittadine si facciano carico di questa battaglia che merita un'attenzione mediatica pari a quella che si sta focalizzando, da tempo, attorno allo scoperchiamento del Giano. Se accendiamo mille fuochi forse qualcosa resterà.