31 agosto 2013

La Città dei Matusa nella cinepresa del Maestro

Ci vorrebbe la cinepresa geniale di un Federico Fellini per fissare certe anomalie fabrianesi, per dare al vizio collettivo dignità di stereotipo, respiro d'arte e suggestione di concretezza. Ma stavolta non ci sarebbe una "città delle donne" a ispirare il primo piano, svagato e sognante, del Maestro ma una Città degli Incompatibili, popolata di politici che, per una ragione o per l'altra, onorano le proprie cariche con la stessa coerenza nobilitante di una grattata di pecorino su un sugo di pesce o di una pashmina avvolta a un collo di suino. I primi ciak del docufilm felliniano risalgono ai primi di agosto: protagonista unico e indiscusso Angelino da San Donato, l'Uomo dei Monti e dei Conti che tassa i fabrianesi ma non potrebbe farlo in quanto dirigente sanitario incompatibile, ma lo fa lo stesso dato che a salvarlo ci pensa l'emendamento d'un Azzeccagarbugli democratico che, come la Semiramis dantesca del canto quinto, libito fe' licito in sua legge per torre il biasmo in che era condotta. E siccome non ci facciamo mancare nulla, anche la città degli incompatibili ha bisogno del suo numero uno, quel Giancarlone - dipendente comunale in aspettativa - che, per via del Bilancio, riesce a mettere in agitazione sindacale i placidissimi mai agitati colleghi dipendenti comunali, ben guardandosi dal disturbare quei dirigenti che a fine mandato torneranno a dirigerlo. Un clamoroso caso di conflitto d'interessi concatenato, di cui sono artefici non due scartine o un paio di comparse rimediate dalle parti di Cinecittà, ma sindaco e vicesindaco della città del fare. Un mirabolante gioco delle parti in cui, al posto della Tabaccaia e della Gradisca, spiccano il dirigente della sanità che s'accorda col dipendente comunale per solleticare l'ansia dei giancarlonici colleghi, ma sempre preservando iattanza e autostima. Forse certe situazioni non configurano il conflitto d'interessi, roba da giuristi capziosi e attenti, ma soltanto la narrazione di una città vecchia, un'antologia di Spoon Driver dove i morti raccontano e ricordano ai vivi che, comunque vada, sempre comanda Matusa e la sua corte d'antichi vegliardi. Ma noi speriamo sia solo l'ultimo Amarcord e il passaggio finale del grande transatlantico. O quanto meno vogliamo illuderci che sia così.
    

30 agosto 2013

L'ultima tentazione di Cocco è fare l'unità ma Giucas Casella style

Alle polemiche della scorsa settimana, relative al rientro anticipato in alcuni reparti dello stabilimento di Albacina e alla conseguente divaricazione di punti di vista tra le sigle sindacali, ha fatto seguito qualche giornata di decantazione e di tregua. Un silenzio che è stato infranto, giusto ieri, da un comunicato stampa firmato dalla segreteria regionale della Fim Marche e dai membri Cisl delle Rsu degli stabilimenti Indesit di Albacina e Melano. Il pronunciamento della Fim è dichiaratamente incentrato sul bisogno di rimarcare un elemento cruciale e cioè che la posizione della federazione, rispetto alla vertenza Indesit, non ha subito cambiamenti rispetto alla reazione maturata nelle settimane successive all'annuncio del Piano aziendale di Salvaguardia e di Razionalizzazione. Ma questo smentire voci significa confermare, implicitamente, l'esistenza di un problema coi lavoratori che sconfina in un caso da manuale di excusatio non petita. Anche perchè la relazione e il rapporto tra federazione di categoria e maestranze dovrebbe appartenere a una dimensione fiduciaria che non può essere incrinata da interpretazioni e ricostruzioni giornalistiche, a cui la Fim attribuisce, praticamente per intero, la responsabilità dei recenti equivoci emersi in merito alla linea del sindacato d'ispirazione cattolica. La verità, naturalmente, è di tutt'altro tenore perché la divisione sindacale, sul rientro anticipato ad Albacina, non è frutto di una macchinazione maliziosa e sediziosa degli osservatori, ma un fatto acclarato e circostanziato che ha indebolito i lavoratori e rafforzato il disegno delocalizzatorio dell'azienda. Il comunicato stampa, di fatto, rappresenta quindi un tentativo di riposizionamento della Cisl, che sembra andare nella direzione dell'unità sindacale, definita, in modalità politically correct, "valore irrinunciabile". Ma il punto fondamentale non è il dire ma il fare, ossia comprendere come si declina concretamente il desiderio unitario. E qui il quadro si fa assai meno nitido e cartesiano. La Fim rivendica, legittimamente, il protagonismo garantito in tutte le azioni fino ad ora adottate per contrastare gli indirizzi dell'azienda e rimarca la volontà, ritenuta vitale, di continuare a condividere gli obiettivi che accompagnano i lavoratori sin dalle prime battute della vertenza: mantenimento delle produzioni in Italia, continuità operativa dei siti produttivi e salvaguardia dei livelli occupazionali. Fin qui tutto bene ma i motivi di interesse sopraggiungono in chiusura di comunicato, dove si profilano gli intenti presenti e futuri. La Fim dichiara apertamente che il 17 settembre è la data in cui dovranno trovare inderogabile concretezza le risorse garantite dalle istituzioni e le disponibilità aziendali, di cui finora però nessuno ha visto il segno. Si tratta di una posizione che lascia intendere un prender tempo, un soprassedere per altre due settimane sperando che nel frattempo qualcosa cambi. Probabilmente questa dichiarazione di intenti è l'unico spazio di unità sindacale possibile e non è un caso che il comunicato non faccia alcun cenno a cosa accadrebbe se non dovesse essere quella la data di confine e, tanto meno, a quali iniziative si dovrebbe ricorrere per dare forza al dissenso, alzare il livello dello scontro e renderlo coerente con l'individuazione del 17 settembre come data limite di consolidamento delle intenzioni istituzionali e aziendali. Il comunicato della Fim si chiude in un modo che sollecita riflessioni aggiuntive, ossia elencando gli errori che il sindacato è sicuro di non commettere in futuro: dividere i lavoratori di Melano e di Albacina; intraprendere iniziative di lotta esterne che non coinvolgano tutti i lavoratori dei due stabilimenti ed evitare blocchi di attività produttive non determinanti per il buon esito della vertenza. Di fatto la sensazione è che la Fim voglia creare le condizioni per un recupero di egemonia, rivendicando la scelta del via libera al rientro anticipato dei lavoratori di alcuni reparti di Albacina e censurando preventivamente ogni iniziativa - come ad esempio gli auguri a Bellaluce - che non sia frutto di una decisione unanime dei lavoratori e quindi delle sigle sindacali. In questo modo l'unità sindacale viene rappresentata e immaginata non come un processo dialettico di confronto ma come una sorta di diritto non dichiarato di veto, una ipnosi alla Giucas Casella in cui l'unità si fa solo quando lo dice Cocco. In pratica, da un lato si rivendica il valore dell'unità sindacale e dall'altro si delineano condizioni che sono in evidente contrasto con qualsiasi impegno e pratica unitaria. L'impressione è che questo comunicato stampa finirà per acuire gli elementi di divisione e i motivi di lotta per l'egemonia. E sarà davvero interessante capire se Fiom e Uilm rientreranno nei ranghi - accettando di trovare riparo sotto il manto rassicurante e maggioritario della Fim - o se, invece, proseguiranno nella radicalizzazione del conflitto. Nel frattempo Milani guarda, tace, benedice e acconsente.
    

29 agosto 2013

Il video di Bacchi e il "turismo anno zero"

Qualche giorno fa Paolo Bacchi – che i fabrianesi dovrebbero ringraziare per la straordinaria capacità di trasformare testimonianze oculari in vera e propria multimedialità civica, come già accaduto per la manifestazione Indesit di metà luglio – ha postato su Facebook una breve ma densissima intervista a due turisti friulani (guarda il video), volontariamente giunti in città per visitare il “famoso Museo della Carta”. In soli quaranta secondi il video risolve e chiarisce – attraverso l’obiettività di un punto di vista non autoctono – i nodi del turismo impossibile con cui deve fare i conti la nostra città: una concezione “caverna e clava” dell’accoglienza, l’idea perversa che la fruizione delle bellezze artistiche e museali debba essere regolata da una concezione impiegatizia degli orari, incompatibile con la dinamica dei flussi turistici, la relazione senza coordinamento tra accesso alle risorse turistiche e sistema della ristorazione locale. Nelle settimane passate si è parlato di circa venticinque mila turisti che hanno visitato la città nel periodo estivo. Si tratta di un numero che, personalmente, considero poco verosimile ma che, per default, voglio prendere per buono. Gli studi più accreditati sull'atteggiamento dei consumatori affermano che ogni persona è in grado di influenzarne altre dieci. Ora, se sono veri i venticinquemila visitatori e se l’intervista sintetizza una percezione diffusa del turista che arriva a Fabriano, il rischio concreto è che – con questi livelli di accoglienza e di fruibilità – la reputazione negativa, indotta dai resoconti dei turisti quando assumono il profilo di influenzatori, sopravanzi e di molto le campane a festa suonate per celebrare la ripresa del turismo estivo. Questo significa che pure nei fenomeni più promettenti e interessanti esiste una linea d’ombra, in grado di comprometterli e di trasformarli nel loro contrario. E’ un po’ come quando un’azienda, con buone potenzialità di mercato, cerca di conquistare quote producendo sottocosto, senza rendersi conto che sarebbe meglio fermare le macchine piuttosto che rischiare il tracollo finanziario. Fabriano, dal punto di vista turistico, vive una situazione comparabile: l’impreparazione e la disabitudine al forestiero rendono, paradossalmente, preferibile il non avere turisti che averne molti e insoddisfatti, di quelli che tornano a casa dicendo “Fabriano è molto bella ma sarebbe ancora più bella senza i fabrianesi”. Se si vuole investire nel turismo è, quindi, necessario tirare una riga e partire dalla consapevolezza, parafrasando un grande film neorealista, che siamo a “Fabriano, anno zero”. La progettazione turistica è notoriamente un fatto politico ed è, quindi, legata a scelte strategiche che chiamano in causa l’amministrazione comunale nella sua funzione di soggetto decisore; scelte rispetto alla quali gli operatori, le associazioni di categoria e i cittadini possono e devono svolgere attività di stimolo, di supporto, di consiglio e di motivazione. Ma la vera sfida per un turismo non episodico e radicato è quella di far uscire di casa i fabrianesi, perché non nessun pubblico esercizio può farcela se, per prima cosa, non viene frequentato dai concittadini. E se chiudono bar e ristoranti il turismo non è altro che una chimera, dato che non è possibile sopravvivere aspettando Godot. Ovviamente un nuovo approccio deve riflettersi sia nelle politiche di prezzo che nella qualità del servizio che notoriamente e spesso lasciano a desiderare. In parallelo sarebbe, inoltre, necessario attivare un registro dei Volontari della Bellezza, con gruppi di cittadini che si mettono a disposizione per tenere aperti gratuitamente – due giorni l’anno per ogni volontario -  musei e chiese normalmente chiusi come Il Gonfalone, l'Oratorio della Carità e la Chiesa di San Benedetto. L’amministrazione comunale, dal canto suo, può cominciare a fare la sua parte e a misurarsi su alcune scelte necessarie e propedeutiche: accorpare in un unico assessorato le deleghe alla cultura e al turismo – ad oggi colpevolmente spacchettate -; riscoprire la centralità dell’urbanistica, che deve tornare politicamente sovrana rispetto ai lavori pubblici; sviluppare azioni migliorative a costo zero come, ad esempio, rimuovere gli orribili cassettoni colorati dell’immondizia dal fondo della piazza di San Nicolò, che sono diventati il tratto squalificante di quel bellissimo frammento di centro storico; ridurre la sporcizia urbana che è il primo e decisivo biglietto da visita che condiziona la percezione di chi arriva in città; e infine tagliare la lingua a chi, con una concezione impolverata, ottocentesca e cadaverica della bellezza e della cultura, ritiene che un po’ di musica in centro storico – buona per attirare gente e farla uscire da appartamenti, ville e villette a schiera ormai ridotte a bunker e a spazi di solitaria depressione - costituisca non un attentato alla verità delle cose e alla socialità delle persone, ma un vulnus all’integrità di affreschi che non desiderano altro che essere guardati e ammirati. Anche da gente che muove il bacino ascoltando due canzoni e che guarda in alto tenendo un calice di vino rosso in mano. 
    

28 agosto 2013

Adolescenti fabrianesi che fumano e che spacciano

Ogni generazione ha i suoi adolescenti precoci e i suoi brufolosi utilizzatori di stupefacenti. Quella a cui appartengo - che conobbe l'adolescenza a cavallo tra gli anni settanta e ottanta - fu protagonista, a quel tempo, di un consumo diffuso e massiccio di "fumo" di cui la città, presa dalle sue lavatrici e dai suoi frigoriferi di successo, non si accorse né, forse, volle davvero vedere. In alcuni casi, di cui i coetanei conoscono bene nome e cognome, le "canne" furono il primo passo verso gli acidi e l’eroina, che anche a Fabriano falciò vite e piantò giovani croci. Ciò non vuol dire che chi si fa le "canne" debba per forza diventare un tossicomane senza redenzione, ma chi si fa servo delle droghe pesanti è, di certo, passato per un utilizzo allegro, sistematico e incosciente di marijuana e hascish. Le recenti retate compiute dai Carabinieri di Fabriano tra alcuni concittadini adolescenti – beccati per consumo di droghe leggere e, in alcuni casi, pure per spaccio - devono essere quindi accolte con giusta preoccupazione ma non con lo stupore che meritano gli inediti. Perché cadere dal pero come se fosse la prima volta, magari accampando la solita spiegazione del disagio sociale e familiare prodotto dalla crisi economica e dalla fine del monoprodotto, vuol dire rintanarsi in un nido di rondine e ignorare un fenomeno che attraversa carsicamente la società fabrianese da lungo tempo, a prescindere dal tasso di disoccupazione e dal rapporto economico tra l'osso e la polpa. L'assessore Saitta - che aveva cominciato il mandato annunciando una lotta senza quartiere al disagio, di cui poi si sono perse rapidamente le tracce - ha dichiarato che un adolescente fabrianese su tre fa un qualche uso, anche solo sporadico, di sostanze stupefacenti. Sono dati magari ingigantiti da una percezione soggettiva ma che, di certo, evidenziano la dimensione generale del fenomeno. E in questo senso non andrebbe dimenticato anche un altro aspetto, che è quello del consumo di alcolici, ritenuto meno devastante ma di fatto altrettanto grave e meritevole di attenzione. Il punto fondamentale non è quello di immaginare un mondo perfetto e liberato dalle droghe, ma di comprendere se la portata del fenomeno - dalle nostre parti - sia tale da determinare un potenziale cortocircuito sociale o se invece ci si muova ancora all'interno di una dimensione sostenibile. Da questo punto di vista ogni soggetto deve fare la sua parte. A partire dalle famiglie perché, secondo gli esperti, ci sono almeno un paio di segnali – oltre al classico esame delle buone e delle cattive compagnie, spesso efficace ma altrettanto spesso fuorviante - che possono aiutare a comprendere se si sta configurando una situazione di rischio: il verificarsi di repentine variazioni verso il basso del rendimento scolastico e l'attenzione ai "bisogni di spesa"  manifestati dei ragazzi. In questo caso può essere utile rivolgersi ai Carabinieri o alla Polizia che non possono essere visti soltanto come braccio armato della legge, ma innanzitutto come soggetti che, per capacità investigative ed esperienza in materia e sul campo, possono fornire alle famiglie un sostegno concreto in termini di monitoraggio e prevenzione. E poi c'è la politica, che ha smesso di parlare dell'argomento dal tempo della battaglia di Bettino Craxi per la punibilità del consumo di droghe leggere. Una politica, anche locale, che nel rimuovere il tema è come se avesse dichiarato il proprio disinteresse; come se il consumo di droga tra gli adolescenti non fosse un tema sociale e politico ma un elemento tra i tanti nel grande universo della libertà di scelta e di consumo. E' difficile, ovviamente, produrre scelte amministrative e di governo di cui sia possibile determinare e inquadrare il nesso con una volontà di prevenzione, ma se guardiamo, ad esempio, i programmi elettorali dei partiti e delle coalizioni ci accorgiamo di come non esista, né a destra né a sinistra né al centro, una riflessione o una proposta sui giovani e tanto meno sugli adolescenti. Anche perché, questi ultimi non votano e quindi sono oggettivamente condannati a non "meritare" né interesse né rappresentanza, a parte la pagliacciata del consiglio comunale dei ragazzi che serve giusto per scattare qualche foto ricordo. E allora proviamo a immaginare Fabriano vista con gli occhi di un ragazzino di tredici anni. Ci sono poche e risicate opportunità di impiegare il tempo. E avere cose da fare è il modo migliore per non cadere nella noia, che poi è il brodo di coltura delle peggiori nefandezze compiute dagli umani. Non esistono ricette miracolose, ma di certo è necessario un impegno nuovo che riguarda e coinvolge tutti: scuola, famiglie, politica, forze dell'ordine. Perché pure su questo versante siamo al crepuscolo degli dei e all'insostenibile pesantezza di quella che fu l'isola felice.
    

27 agosto 2013

Perchè il culo salvo del Berlusca forse salva il culo ai fabrianesi

Giusto ieri L'Unità, senza troppo menare il can per l'aia e con poca cognizione mnemonica del proprio passato di organo del partito della classe operaia, ha pronunciato un verdetto politicamente impegnativo sulla vertenza Indesit, sostenendo che senza l'intervento diretto del Governo non ci sarà una soluzione positiva per i lavoratori e per l'azienda. Di certo colpisce leggere, proprio sul quotidiano fondato da Antonio Gramsci, una rinuncia tanto plateale e iconoclasta all'autonomia negoziale delle parti sociali, oltre che la constatazione quasi compiaciuta circa la necessità di statalizzare il conflitto, trasformandolo in una faccenda tutta interna alle dinamiche del potere esecutivo. Ma, di contro, il cinismo dell'Unità rivela e svela un fatto politico non accessorio e cioè che rimarcando la funzione dirimente del Governo, rispetto alla vicenda, si sposta lontano dai luoghi della produzione - ossia da Fabriano - il bandolo di una matassa sicuramente intricata e industrialmente poco attrattiva per quel che resta dei grandi poteri decisionali presenti nel nostro Paese. Qualche settimana fa, forse ingenuamente, non fummo in pochi ad auspicare una "nazionalizzazione" della vertenza, convinti che un trasferimento della sede negoziale a Roma avrebbe comportato anche un'assunzione di responsabilità confederale da parte delle organizzazioni sindacali. Purtroppo - anche a causa dello sdoppiamento del tavolo ministeriale che ha penalizzato e sminuito l'autonomia del sindacato - abbiamo soltanto assistito a uno spostamento "fisico" e non "politico" del negoziato: la mobilitazione confederale annunciata da Raffaele Bonanni - che voleva fare del caso Indesit un momento emblematico di rilancio dell'industria italiana - non ha infatti avuto corso. Così come non hanno prodotto effetti tangibili il solenne impegno gridato da Susanna Camusso in Piazza del Comune e l'empatia manifestata da Luigi Angeletti nei confronti dei lavoratori del presidio di Melano. In questo senso il cinismo dell'Unità - paventando l'esaurirsi di ogni spazio di potere contrattuale delegato alle parti sociali - introduce un elemento di chiarezza che deve essere raccolto, perchè prefigura l'entrata in scena, come un ospite inatteso e controverso, di una questione politica nazionale che impatterà, inevitabilmente, sulla vertenza Indesit e cioè la capacità del Governo di larghe intese di proseguire nel suo mandato costituzionale sopravvivendo alle tensioni politico giudiziarie di queste ultime settimane. Se cadesse il Governo, infatti, il tavolo istituito presso il Ministero delle Attività Produttive si ridurrebbe a un osso di seppia, privato di qualsiasi potere di intervento e di ogni possibilità di prefigurare, suggerire o imporre una qualche ipotesi di soluzione soddisfacente e concertata. A quel punto, venendo meno l'illusione romana e istituzionale, si consumerebbe rapidamente anche la funzione mediatoria e filtrante della Regione Marche, che da sola non è in grado di tirare fuori dal cilindro della crisi Indesit neanche l'ombra di un coniglio capace di correre e di spiazzare un cacciatore spietato e gelido come Milani. Se cadesse il Governo, in sintesi, per il management della Indesit si spalancherebbe non una porta o un portone ma un prateria, un vuoto di potere in cui sguazzare allegramente, accelerando decisioni e processi di delocalizzazione già scopertamente annunciati e rivendicati. Il restringimento del perimetro della vertenza farebbe ricadere per intero sulle strutture territoriali del sindacato il peso di una negoziazione profondamente segnata da una feroce disparità di mezzi, di risorse e di capacità di logoramento della controparte di cui si avvantaggerebbe solo e soltanto l'azienda. Il rischio è quello di ritrovarci immersi in un paradosso tutto fabrianese, vittime di sillogismi di impronta quasi aristotelica: sperare che il Governo resti in sella e quindi - considerando l'effetto delle cause prime - auspicare una qualche forma di salvataggio o di salvacondotto a favore del Cavaliere. Già perchè se cade Berlusconi, è facile che si rompa il grugno pure Letta. E, nel caso, Zanonato tornerebbe a a Padova come Lessie, si smonterebbe il tavolo ministeriale e Milani farebbe romanella, sfregandosi barba e mani sulle rive del lago di Lugano. Se, invece, l'Uomo Nero di Arcore riuscisse a sfangarla, allora uno straccio di trattativa col vertice aziendale della Indesit sarebbe ancora possibile, proprio per le ragioni evocate dall'Unità, ossia un equilibrio in cui alla pari dignità dei vertici del triangolo concertativo azienda, governo e sindacati subentra, per forza di cose, una sorta di indiscutibile comando governativo. E come era prevedibile, in poche settimane, il canovaccio della vertenza Indesit ha costretto tutti ad accettare la migrazione dalle sorti magnifiche e progressive della lotta dura e senza paura alla mesta consapevolezza che molto, o forse tutto, possa dipendere dalla tenuta delle larghe intese. E' l'ironia della sorte: lunga vita a Berlusconi!  
    

24 agosto 2013

Ad Albacina chiodo scaccia chiodo: scende Cocco e sale Gentilucci

Il Sole 24 Ore di oggi, a pagina 18, dedica ampio spazio a quanto accaduto ieri allo stabilimento Indesit di Albacina. Ovviamente si tratta di una posizione di grande interesse perché, nonostante l’alto profilo giornalistico del quotidiano, siamo comunque di fronte alla punta di diamante editoriale della Confindustria, ossia a una fonte informativa per forza di cose sensibile alle ragioni dell’impresa e quindi naturalmente parziale e partigiana nel suo giudizio di fondo e di merito sui conflitti sociali in atto nel nostro Paese. Colpisce quindi che, nell’occhiello che accompagna l’articolo, Il Sole parli esplicitamente di fallimento del rientro anticipato nello stabilimento di Albacina, rimarcando la falsa partenza della Indesit e sottolineando il successo ottenuto da Fiom e Uilm che – a differenza della Fim Cisl - si sono opposte alla riapertura anticipata di alcuni reparti e hanno rafforzato questa volontà organizzando un "presidio all’alba" in cui hanno spiegato ai lavoratori le ragioni del rifiuto. E i circa quaranta lavoratori coinvolti nell'"anticipo" hanno rinunciato a rientrare in fabbrica. Per comprendere come questo avvenimento possa incidere sui rapporti di forza sindacali, e quindi sulla linea che i metalmeccanici assumeranno a partire dai prossimi giorni, è opportuno delineare il contesto generale, partendo dai risultati emersi in occasione delle elezioni RSUdi Albacina, tenutesi nel marzo del 2013 In quella circostanza la Fim Cisl ottenne più del 50% dei voti e 5 rappresentanti su 9. E’ quindi quanto meno singolare che, di fronte a una scelta delicata come il rientro anticipato dalle ferie, i lavoratori abbiano seguito senza defezioni la linea indicata da Fiom e Uilm, quando sarebbe stato logico e prevedibile immaginare una capacità aggregazione e formazione del consenso nettamente sbilanciate sulla linea dialogante della Fim, che detiene la maggioranza assoluta della rappresentanza sindacale unitaria nello stabilimento di Albacina. Di fronte a questo dato di fatto ci sono due linee interpretative: raccontare la bruciante sconfitta politica della Fim come un semplice incidente di percorso, una casuale buccia di banana su cui può capitare a tutti di inciampare e farsi male; oppure leggere di gli accadimenti di ieri come un cambiamento di fatto nei rapporti di forza tra le sigle sindacali dei metalmeccanici, con una Fim nettamente egemone e trainante nelle settimane iniziali della vertenza e costretta – dopo le prime riunioni del tavolo romano - a rincorrere un dinamismo che vede sempre di più la Fiom e la Uilm al centro della scena e capaci di ordire mobilitazioni efficaci. Se volessimo fisicizzare e sintetizzare, con un filo di brutalità, la trasformazione dei rapporti di forza all’interno del fronte sindacale potremmo dire che scende Cocco e sale Gentilucci. Ma metterla in questi termini sarebbe minimalista e fuorviante, anche se una efficace descrizione di scenario non può che alimentarsi pure di semplificazioni, sicuramente suggestive e gossippare ma di certo utili alla didattica del conflitto sociale. Dal punto di vista politico l’elemento interessante è, però, di tutt’altro altro genere e natura. A questo punto è, infatti, necessario comprendere come il superamento dell’egemonia numerica della Fim a vantaggio di una nuova impronta direzionale a base Fiom e Uilm possa modificare nel profondo la mappa e lo spirito della mobilitazione sindacale e l’intero approccio alla vertenza. Anche perché, di norma, le linee di rottura sindacale vedono allineate Cisl e Uil – in quanto sindacati contrattualisti e riformisti – rispetto a certe irresistibili tendenze radicali della CGIL e della Fiom. La vertenza Indesit, tra le altre cose, ha anche disarticolato i fondamenti della rappresentatività, ossia la capacità dell’organizzazione sindacale di unificare comportamenti ed esigenze dei lavoratori affinché essi operino come gruppo e non come sommatoria di individui. Il paradosso della Fim, nella vertenza Indesit, è quello di avere un ampio mandato alla rappresentanza – testimoniato dal risultato elettorale delle RSU - ma di essere a corto di rappresentatività, dato che i lavoratori di Albacina fanno quadrato attorno agli input delle organizzazioni minoritarie piuttosto che aggregarsi attorno al punto di vista della sigla maggioritaria. Come intenderà reagire la Fim a questa situazione di incartamento lo scopriremo solo vivendo. Certo è che la radicalizzazione dell’asse sindacale rende più improbabile l’ipotesi dell’accordo separato e meno indolore il tentativo del management aziendale di spostare le produzioni contando su una reazione docile delle maestranze e dei cittadini. E i fatti di Albacina di ieri possono essere considerati, anche alla luce di quanto accaduto fino ad ora, il più importante e significativo cambiamento dei rapporti di forza verificatosi all’interno del fronte sindacale dal giorno in cui l’azienda ha reso pubblico il suo piano di salvaguardia e razionalizzazione. Ed è anche per questo che se è difficile dire come andrà a finire è di certo lapalissiano ma vero ritenere che nulla, anche nel placido e lentissimo mondo sindacale, sarà più come prima.
    

23 agosto 2013

In Indesit nuove frizioni sindacali in assenza di piattaforma alternativa

La Indesit ha chiesto ai lavoratori del reparto stampaggio dello stabilimento di Albacina di anticipare ad oggi il rientro dalle ferie estive. Si tratta di un'esigenza produttiva che in una situazione di normalità non avrebbe avuto alcun rilievo mediatico, in quanto riconducibile a naturali processi di ottimizzazione del lavoro, ma che, in questa fase, si arricchisce di significati che delegittimano qualsiasi tentativo di lettura rassicurante e routinaria della questione. Attraverso questa mozione d'ordine l'azienda è, infatti, riuscita a generare un surplus di caos e di divisione nella controparte sindacale, con Uilm e Fiom contrarie alla ripresa anticipata dei lavori e una Fim Cisl non solo favorevole all'eccezione stampaggio ma, quel che è peggio, sempre più sedotta dalle correnti gravitazionali alimentate ad arte dalla dirigenza Indesit. Il punto di rottura, che oramai separa le due federazioni minori dall'egemonica Fim, è sancito da una radicale divergenza di metodo: per la Fim si è mani e piedi nel pieno di una fase negoziale in cui la sola carta vincente è la disponibilità nei confronti dell'azienda, ovvero l'illusione che il cedimento alle sue ragioni sarà occasione di ripensamento strategico e di mantenimento in loco delle produzioni; Fiom e Uilm, assai più banalmente ragionevoli, ritengono invece che il clima negoziale, sostanzialmente segnato da un cumulo di tensione pregressa e dalla cronicizzazione dello stallo, non consenta alcuna disponibilità aggiuntiva rispetto a quanto previsto dal contratto nazionale e dall'integrativo aziendale. In questo senso non può sfuggire, a uno sguardo spassionato seppur preoccupato e partecipe, che la divisione tra le sigle dei metalmeccanici non riguarda i contenuti negoziali - ossia le proposte di parte sindacale con cui si intende contrastare creativamente la linea del CEO Milani - ma gli strumenti con i quali conseguire la finalità, oggettivamente velleitaria e idealistica, del ritiro del Piano Indesit e dell'azzeramento degli esuberi che tuttora unifica l'intero fronte delle maestranze. In questo quadro è, quindi, sbagliato scorgere ragioni strategiche nella posizione odierna della Uilm e della Fiom, così come è fuorviante fronteggiare l'atteggiamento assunto dalla Fim Cisl derubricandolo a tradimento: per la semplice ragione che ci si sta alambiccando sui mezzi senza che nessuno dedichi un rigo o una parola al bisogno di una piattaforma sindacale alternativa, capace di tenere assieme competitività dell'azienda, diritto al lavoro e tutela del distretto. E' infatti il primato indiscusso dei contenuti negoziali ciò che rende pregnante e sensata la discussione e il confronto, anche aspro, sugli strumenti di lotta e sulle forme di mobilitazione. Diversamente, dividersi sulla marcia a Bellaluce o sull'anticipo del rientro dalle ferie allo stampaggio di Albacina diviene evento puramente dimostrativo, happening dannunziano in cui il gesto subentra alla sostanza, scardinandone natura e funzione. E le organizzazioni sindacali - caso mai qualcuno se ne fosse dimenticato - non servono a "cercar la bella morte" o a dare lustro a qualche funzionario baciato dal dolore provvidenziale e salvifico di una vertenza da prima pagina, ma per governare la dignità del lavoro e la sopravvivenza di un tessuto produttivo. Ed è per questo che la divisione di oggi non è altro che il sintomo di un vuoto di proposte e di idee che condanna sindacato e lavoratori a dipendere dai minuetti dei tavoli romani, dalle agende bilaterali azienda-governo e dalle magie da sagra paesana di enti locali avvezzi a impastare e rimpastare il nulla.
    

22 agosto 2013

Di nuovo Indesit, ma ancora tra polveroni e fumi senza arrosto

In attesa che le maestranze rimettano piede negli stabilimenti in bilico tra continuità e dismissione, la fabbrica delle illusioni ha ripreso a macinare a pieno regime sogni e chimere. Ha aperto le danze il Resto del Carlino che ieri ha architettato un'operazione da disinformazione sovietica, pubblicando un articolo in cui, col supporto di una fonte ovviamente anonima e vicina alla proprietà Indesit - ovvero alla famiglia Merloni, che ci si guarda ancora bene dal nominare - si sparge miele piuttosto che sale sulla ferita sociale prodotta dal Piano di Salvaguardia adottato dalla multinazionale fabrianese del bianco. Il cuore della confidenza anonima ruota attorno a due concetti che vibrano nel timpano dei lavoratori e della comunità con la seduzione sirenica ed annegante che sobillò la resistenza dell'Odisseo avviluppato alla pertica: nessun licenziamento e nessuna vendita ad altri player internazionali del settore. Ed oggi, con evidenti finalità di rafforzamento dell'annuncio, lo stesso quotidiano riporta alcune dichiarazioni del primo cittadino, che parla esplicitamente di "messaggi che arrivano dalla proprietà", e un'intervista al segretario dei metalmeccanici della Uil Gentilucci, quasi tirato per la giacca dall'intervistatore fabrianese nel tentativo, stiracchiato e tendenzioso, di strappare un'ammissione di stupore circa la "clamorosa" dritta incartata dal giornale a supporto ideologico di un rientro pacifico e ordinato dei lavoratori. Tecnicamente si tratta di un classico polverone mediatico. Innanzitutto perchè l'anonimato delle fonti è oggettivamente sospetto, oltre che insostenibile, quando in ballo ci sono 1.425 lavoratori e non la semplice e gustosa coloritura di un retroscena politico. E poi perchè, così facendo, il giornale si è fatto portavoce artigiano di una linea di retromarcia aziendale che, nel caso fosse confermata, avrebbe dovuto seguire altre strade e trovare conferma in tutt'altre sedi. Ma siccome Sagramola parla esplicitamente di "messaggi che arrivano dalla proprietà" - e trattasi di persona che si deve ritenere quanto meno informata sui fatti - ci sono ragioni deduttive per ritenere l'articolo comunque ispirato da ambienti di vertice dell'azienda. Occorre quindi indagare nel merito per giungere a qualche sensata considerazione. E la sensazione è che non ci sia nulla di nuovo se non l'intenzione di pestare l'acqua nel mortaio per logorare il fronte dei lavoratori, confondendo posizioni e chiavi di lettura: innanzitutto perchè in nessuna occasione il management della Indesit ha fatto cenno all'ipotesi di licenziamenti di massa, ribadendo invece l'obiettivo di un ricorso contrattato agli ammortizzatori sociali lunghi, per un numero di esuberi rispetto a cui non si è mai profilata la possibilità di una contrazione o di una revisione al ribasso; in seconda istanza perchè il Piano Indesit è incentrato su strategie di recupero di redditività e competitività che possono risultare più o meno propedeutiche rispetto a una ipotesi di cessione del pacchetto azionario di controllo da parte della famiglia Merloni. L'ipotesi della vendita ad altri player internazionali - che alcuni danno per certa e altri riconducono al campo scivoloso delle congetture - rientra infatti in una procedura assai più complessa che non contempla annunci a mezzo stampa locae ma trattative riservate, valutazioni d'azienda, accordi preventivi e quindi passaggi formali regolati da una normativa che, a garanzia del mercato e degli investitori, non può essere aggirata in caso di scalata di aziende quotate in Borsa. Alla luce di queste considerazioni si può tranquillamente sostenere che siamo di fronte a fumo senza arrosto, perchè l'annuncio del vecchio spacciato per nuovo non sposta di un solo centimetro la linea contrattuale stabilizzatasi a metà luglio. Ma anche il fumo - specie in situazioni complicate come questa - ha il suo perchè. E l'impressione è che l'effetto annuncio sia finalizzato a fiaccare un'unità sindacale già minata da alcune divisioni emerse a ridosso delle ferie di agosto. Il tutto per facilitare la digestione di un Piano che non contempla margini dedicati a modifiche sostanziali: ricorso massiccio agli ammortizzatori sociali, chiusura dello stabilimento di Melano e narrazione collaterale di un possibile mantenimento della proprietà ai Merloni come illusione mediatica e vaselina comunitaria. E riflettendo su questi temi viene davvero da pensare che avesse ragione quel pensatore antico nel sostenere che nei teatri di guerra la prima a morire è sempre la verità.
    

Quel che ci attende e quel che si può fare: pensieri agostani in salsa settembrina

Dopo una settimana di silenzio, causa penna stesa al sole, riprendo le pubblicazioni con alcune considerazioni agostane che, credo, possano avere qualche proiezione settembrina e qualche fondamento autunnale. Per questo proverò a individuare e descrivere i link che, a mio avviso, connettono tra loro temi apparentemente distanti: l'incompatibilità di Tini, la vertenza Indesit e l'esigenza impellente di un "patto locale tra i produttori". Sul caso Tini diverse persone mi hanno chiesto per quale ragione mi sia tanto accalorato sulla presunta incompatibilità dell'assessore alle finanze e se ci fosse qualcosa di personale nella critica aspra che da tempo gli riservo. Sgombero il campo da ogni equivoco: considero Angelo Tini una persona simpatica, un politico fine e uno dei pochi democristiani capaci di riservare alla politica una bruciante passione (nel suo caso quella per il bilancio pubblico). Inoltre c'è da dire che la mia "infanzia politica" si è consumata in un mondo declinante che considerava i personalismi il frutto di un'inaccettabile depravazione liberale. E questa avversione nei confronti dell'individualismo in politica resta, per me, una stella polare e un sistema fondamentale di orientamento che mi consente di distinguere sempre tra il personale e il politico. Per queste ragioni considero il caso Tini una questione eminentemente politica. Tini, in questa fase della vita fabrianese, incarna il rischio tecnico, ossia una politica spogliata di creatività, di istinto e di azzardo che si riduce a scadenzario e si restringe a vincolo e imperativo contabile. Ma cosa comporta il rischio tecnico? Il suo effetto più rilevante è la soppressione di ogni dialettica di posizioni ispirate da valori, ideologie e visioni. La soluzione tecnica è sempre una e mai trina, si nutre di neutralità ed è fondata su competenze specialistiche, che nulla hanno a che spartire con l'umanesimo incerto e mobile della politica. E se la politica diventa gara di competenze finisce che a comandare siano ristrette elite di "conoscitor della peccata" e che la partecipazione non abbia altra impronta che quella negativa del'invasione di campo. Ossia l'esatto contrario di quel che serve oggi a Fabriano: una politica capace di mettere in circolo idee e di delegare agli apparati tecnici la ricerca di soluzioni conseguenti. La linea Tini è invece quella di fare delle idee una variabile dipendente dal primato assoluto della compatibilità finanziaria, che da strumento di razionalizzazione ed efficienza si trasforma sacro e indiscutibile tabernacolo. La linea "ragionieristica" è, ad oggi, prevalente nel sistema politico locale. Essa trova il pieno consenso del Sindaco, della sinistra sociale convertita al rigorismo dei tecnici, dei poteri forti dell'apparato comunale, fino a produrre qualche suggestione anche in ambienti dell'opposizione. Un equilibrio di potere - segnato dalla diarchia non elettiva e quindi democraticamente opinabile tra assessore alle finanze e dirigente dei servizi finanziari - che mette a repentaglio il necessario armistizio tra idee e risorse, vera base di sopravvivenza e di rilancio della comunità fabrianese. In questo senso una battaglia sull'incompatibilità di Tini - al di là dell'ossequio alle regole - significa perseguire una finalità di indebolimento politico dell'assessore alle finanze e quindi della sua linea ragionieristica. Un modo per far saltare il tappo che imprigiona la circolazione delle idee e la rende prigioniera di pochi guardiani delle risorse scarse. Come si sarebbe detto in altri tempi, l'operazione Tini configura, quindi, uno scampolo non marginale di una "rivoluzione dall'alto" che si rende necessaria anche alla luce della risacca che pare aver riassorbito il conflitto sociale in Indesit. Gli operai della Indesit hanno legittimamente delimitato il campo delle loro rivendicazioni alla difesa - sacrosanta - del posto di lavoro, senza coltivare l'ambizione di farsi anche classe generale sul territorio e di puntare a un cambiamento profondo della cultura e della politica cittadina. E questa dimensione della vertenza - sostanzialmente economica e tradeunionista - lascia aperta, ad oggi, una prateria senza presidio, perchè non basta garantire il clima necessario alla circolazione delle idee se non si determinano le condizioni necessarie alla loro produzione. Il grande interrogativo d'autunno sarà quindi incentrato sui luoghi e sui modelli organizzativi necessari per strutturare i nuovi "pensatoi" locali. In questo senso il Comitato del Giano rappresenta un modello organizzativo interessante e una buona prassi che, forse, è possibile e auspicabile replicare e aggiornare: tematiche delimitate e circoscritte, leadership policentrica, adesione informale a cipolla, centralità dell'opinionismo, saldatura tra imprinting tecnico e risvolti umanistici, registri comunicativi sottratti alla dittatura dell'immagine coordinata. Insomma, una terza via tra organizzazione liquida e aggregazione solida che è riuscita a fare lobby sul decisore senza intrupparsi nella mediazione strumentale e classica delle vecchie e nuove forze politiche. La sfida che Fabriano ha davanti è quella di un patto tra i produttori che abbia l'obiettivo di riscrivere il profilo della città su almeno tre versanti: economico, urbanistico e di mentalità. Va iscritto all'ordine del giorno un esperimento sociale nuovo: far incontrare imprenditori, lavoratori e cittadini - al di fuori del rapporto di lavoro e al netto di ogni filtro istituzionale - per generare idee sulle tre grandi aree di rifondazione territoriale e tracciare i mille percorsi che legano urbanistica, produzione e socialità. Un'operazione di fioritura di tanti soggetti collettivi a termine e a tema, liberata dalla tentazione burocratica del coordinamento e capace di convergere in un grande e informale "forum della rinascita cittadina". Una rivoluzione copernicana che dovrà nascere da chi ha voglia di farla nascere e che di certo non annovera tra i suoi amici il ragionierismo della politica e il crescente minimalismo del sindacato. La città delle idee è lontana anni luce dalla città dei residui attivi e da quella di un corporativismo straccione ma risorgente. Ma se così non fosse spero sappiate perdonarmi, considerando queste impressioni di settembre frutto di calura agostana, di idromassaggi e di encomiabili prosecchi.
    

15 agosto 2013

Buon Ferragosto e qualche sassolino nelle scarpe

Il Resto del Carlino di oggi pubblica un pezzo inatteso sui clochard a Fabriano. E se non fosse per il tono dell'articolo - col fenomeno quasi ridotto a nota di curiosità e colore - ci sarebbe da fare un plauso al coraggio di chi azzarda una riflessione sulla povertà proprio nel giorno in cui - tra gavettoni, cocomeri, sangria e melanzane alla parmigiana - si consuma l'apice della spensieratezza estiva. Giusto qualche giorno fa, risalendo la scalinata che da Corso della Repubblica conduce dietro ai Giardini del Poio e alla Pinacoteca Civica, ho notato uno spazio ricavato alla meno peggio, con i segni inequivocabili di una presenza umana costretta a vivere all'addiaccio e di espedienti. Una testimonianza visiva e forte di povertà, proprio a due passi dal "salotto buono" della città, quasi una sintesi dei tanti fattori di rischio sociale di cui ci è capitato, in più circostanze, di raccontare la genesi e l'incubazione. E' inutile girarci intorno: siamo al preludio di una gigantesca "questione sociale" locale di cui ci sfuggono, ad oggi, non solo le dimensioni potenziali ma anche il decorso e gli effetti. Si tratta di una malattia territoriale che non può essere curata dall'esterno perchè il nostro "distretto distrutto" è inserito nel corpo malato di una intera nazione in crisi. Non ci possiamo quindi avvalere di un occhio di riguardo e di una benevola mano pubblica perchè il "precedente" diventerebbe l'alibi per mille altri interventi in mille altre realtà locali in crisi. Le uniche medicine possibili non potranno che essere autoctone e quindi legate all'orgoglio e allo spirito di sopravvivenza della nostra comunità. La politica locale - alla luce dei suoi poteri - non può fare molto ma mantiene, comunque, spazi di intervento potenziale tutti da verificare e perlustrare. Ma per agire con energia sulla crisi è fondamentale conoscerne le pieghe quotidiane, sentirne addosso il morso ansiogeno, fare i conti in prima persona con le piccole strategie di sopravvivenza che scandiscono la vita di una città in affanno da crisi strutturale. Negli ultimi quindici anni la politica ha, invece, conosciuto due soli criteri di selezione della classe dirigente: il successo e il denaro. In questo modo è stato creato un sistema di apartheid che ha generato una elite di potere concentrata nel vertice della piramide sociale e quindi incapace - in un'ottica classista che va urgenemente ripresa e recuperata - di comprendere cosa stava accadendo altrove, nelle "insulae" popolari dove l'impatto della crisi è arrivato prima e in modo più profondo e pervasivo. E' dai tempi in cui la società italiana si è privata della presenza del Partito Comunista Italiano che la politica ha smesso di riflettere sulla necessità di un soggetto politico capace di dare rappresentanza agli ultimi e ai più deboli e di saldare questa visione radente, dal basso, con la cultura e il respiro della borghesia più evoluta e colta. Non si tratta di coltivare nostalgie ma di ragionare concretamente sul presente fabrianese con una domanda fondamentale: come può una giunta caratterizzata da figure economicamente borghesi, comprendere e affrontare i problemi della crisi economica cittadina? Due avvocati, un medico e un alto dirigente di un'azienda pubblica quale condivisione possono esprimere rispetto alle difficoltà di chi rinuncia al pagamento automatico delle utenze per giostrare sui ritardi, di chi ha il terrore di guardare la cassetta della posta per paura trovare un avviso di Equitalia o, peggio ancora, di chi si trova a scegliere come domicilio una panchina dei Giardini Margherita o l'atrio della stazione ferroviaria? E non è un caso che la politica istituzionale abbia scelto di adottare la linea dura contro chi chiede l'elemosina e vive all'addiaccio. Come nel Medioevo, quando la povertà suscitava lo scandalo dei ricchi e per questo veniva perseguita e punita, nonostante il ribaltamento culturale generato dall'irruzione francescana. Un politico può comprendere la crisi solo se la vive in casa propria. Solo in questo modo è in grado di condividerla nel senso etimologico del termine. Il governo dei ricchi e dei benestanti, in questa fase della vita cittadina, è invece il culmine della sfiga. Buon Ferragosto a chi resiste e a chi non ce l'ha fatta.
    

13 agosto 2013

E sull'incompatibilità di Tini Sorci scrisse a Napolitano

Roberto Sorci ha fatto crepitare, a mezzo Ansa, una sventagliata di fuoco amico su Tini, Sagramola, la maggioranza di centrosinistra e sul Pd. Quattro piccioni con una fava sono una vera grazia per chi osserva e una notevole calamità per chi subisce. Specie se la polvere da sparo serve a infrangere la solidarietà di granito esibita dalla maggioranza in merito alla possibile incompatibilità di Angelo Tini. Concretamente Roberto Sorci ha scritto a Giorgio Napolitano e al segretario del Pd Epifani, sollevando dubbi d'incostituzionalità e di iniquità sull'emendamento inserito nel Decreto del Fare che ha consentito ad Angelo Tini - nominato assessore prima del 4 maggio 2013 - di avvalersi di una zona franca che lo mette al riparo da verifiche e da procedure di valutazione circa la compatibilità tra il ruolo professionale di dirigente di struttura complessa in Asur e la sua funzione politica di assessore comunale. Sorci, nella sua epistola al Capo dello Stato, sviluppa un ragionamento di carattere generale, evitando, ovviamente, di fare riferimento al caso specifico del compagno di coalizione. Ma sarebbe politicamente criminoso, oltre che demenziale, non cogliere la frattura politica che l'atto sorciano va a determinare all'interno della maggioranza. Sorci, infatti, non è soltanto colui che ha governato per un decennio la nostra città, ma anche un "saggio" del Partito Democratico, oltre che un crocevia obbligato di manovre politiche e di azioni di disturbo talvolta eclatanti e in altre circostanze sottili e sotterranee. Il suo profilo politico non consente, quindi, di minimizzare - ricorrendo al solito cattofurbismo - l'impatto della lettera inviata a Napolitano. Si tratta, infatti, di un vulnus politico che, a questo punto, dovrà inevitabilmente produrre una presa di posizione del Pd fabrianese, chiamato a scegliere tra la copertura politica di un suo dirigente politico di prima fascia e di recenti fasti e il sacrificio del medesimo sull'altare della governabilità e della golden share esercitata sulla Giunta dal Rag.Tini. Sicuramente il Pd cercherà di prendere tempo, tacendo e sperando che il sopraggiungere del Ferragosto ridimensioni la portata di questo inatteso e creativo rigurgito di sorcismo. In parallelo si muoverà anche la schiera di quanti proveranno a delegittimare l'azione del Barbuto, narrandola come il sussulto di un isolato che non è riuscito a ricollocarsi e che, per tale ragione, coltiva un'unica finalità: distruggere posizioni ed equilibri truccando le carte e trasformando l'invidia in interessata e insincera sensibilità istituzionale. Ma il punto cruciale da considerare non è quale sia la ragione occulta che ha ispirato Sorci, ma che a questa buon azione civica e politica sia stata data piena concretezza. Avrebbero potuto farlo altri, magari ispirati da nobilissimi propositi e solerte civismo. Ma non lo hanno fatto. E quindi, saggiamente, quando si riceve l'ostia, è bene concentrarsi sul suo significato simbolico e salvifico evitando di misurarne il valore in base a quanto possa essere peccatore il prete che la porge. Ma il vero dato politico è che questa battaglia sull'incompatibilità di Tini ha saputo oltrepassare le linee di demarcazione partitica, coinvolgendo consiglieri del Pdl e della sinistra radicale, cittadini e osservatori indipendenti e, da oggi, anche un pezzo da novanta del Partito Democratico. Si tratta di una trasversalità che rimette in moto un quadro cristallizzato, in cui non si capiva più dove passassero le linee di divisione tra maggioranza e opposizione. Oggi abbiamo uno scampolo di chiarezza in più e un segnale di cambiamento da cogliere e valorizzare. E come si dice in questi casi piuttosto che niente è meglio piuttosto
    

La Tares, l'incompatibilità e la moglie di Cesare

Negli ultimi giorni questo blog ha seguito con attenzione e costanza la vicenda dell'incompatibilità dell'Assessore alle Finanze Tini. Non certo per un qualche occulto personalismo, del tutto estraneo alla visione "strutturalista" dell'autore, ma per gli effetti di turbamento nel rapporto tra governanti e governati che una posizione politica e amministrativa potenzialmente irregolare - seppure sanata da un provvedimento ad hoc - può determinare. Si tratta di questioni delicate, che hanno a che fare con la legittimità complessiva del sistema politico locale e con quel patto di fedeltà civica e fiscale che è alla base della coesione sociale e della cultura delle autonomie locali più moderna ed evoluta. Ciò significa che è necessario creare e condizioni affinchè il cittadino possa fidarsi delle istituzioni di prossimità perchè se manca il contenuto fiduciario la relazione si sfibra e si incrinano i meccanismi di fedeltà tra i singoli e lo Stato. E' noto a tutti il detto: "La moglie di Cesare deve non solo essere onesta ma anche sembrare onesta". Ciò significa che l'esercizio di un mandato pubblico deve rispondere non soltanto agli imperativi e ai perimetri stabiliti dalla legge ma anche a un codice deontologico e comportamentale che sappia delimitare, con chiarezza, spazi e contesti inopportuni, seppur legittimati da una norma talvolta degradata a foglia di fico apposta abusivamente sui nudi michelangioleschi. Da questo punto di vista - qualsiasi scusa consolatoria possa accampare il primo cittadino, per simulare un compatta solidarietà di maggioranza - il caso Tini configura un deficit di apparenza della moglie di Cesare che, come si diceva rimandando a un antico detto, non deve solo "essere" ma anche "sembrare". Ovviamente non si tratta di sofismi desunti dalla teoria politica, ma di questioni che impattano concretamente nell'amministrazione della cosa pubblica e nella qualità delle sue prestazioni. Proprio in questi giorni - tanto per calare la riflessione tra le pieghe della nostra realtà cittadina - cominciano ad essere recapitati gli avvisi di pagamento dell'acconto della Tares 2013. Ora, il pagare tributi non è sicuramente tra le cose per cui vale la pena vivere, ma la pratica democratica e il senso civico hanno storicamente chiarito che esiste una relazione diretta - seppur deviata e deformata dai costi abnormi di una burocrazia pubblica che divora circa l'80% delle entrate degli enti locali - tra fiscalità e servizi ai cittadini. La crisi economica e sociale ha ulteriormente complicato questa relazione, rendendola via via più precaria e conflittuale. Chiedere sacrifici ai cittadini - come nel caso della Tares - presuppone quindi una grandissima credibilità della classe politica. Così come serve un dosaggio cavallino di autorevolezza politica per trasferire direttamente a Equitalia la riscossione del tributo, con l'obiettivo non dichiarato ma sintomatico di intimidire psicologicamente il contribuente senza assumersi la responsabilità politica dei residui attivi e consegnandolo a una visione coattiva e subalterna del suo rapporto con lo Stato. Quando ho letto e analizzato l'avviso di pagamento mi sono rivolto una domanda: ma per quale ragione dovrei sopportare questa intimazione al pagamento - netta, rigorosa e quasi ingiuntiva -se tale richiesta è riconducibile a un assessore alle finanze che, senza lo scudo di un salvacondotto giuridico, sarebbe potuto risultare incompatibile con la carica che ricopre? Quale credibilità può mai avere una decisione assunta da chi non può esserne direttamente testimone attraverso l'incontestabilità del proprio ruolo e della piena coerenza funzionale tra persona e ruolo politico? Cesare ebbe a ripudiare Pompea accusata di infedeltà, nonostante fosse convinto della sua innocenza, perché “la moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto”. Succedeva nel I° secolo avanti Cristo. A Fabriano siamo orgogliosamente indietro: anacronistici nei secoli dei secoli.
    

11 agosto 2013

Sindaco e Vicesindaco costretti a saltare di palo in frasca per chiudere con l'incompatibilità

Il principio fondamentale della dialettica politica prevede un confronto tra tesi e antitesi, ossia tra posizioni che si contrappongono, a volte generando sintesi altre mantenendo inalterata la contrapposizione originaria. Ciò significa che se io sostengo che Tini è incompatibile, suffragando la mia affermazione con elementi e riflessioni soggettive basate sul merito della questione trattata, dialettica vuole che Tini - o chi per lui - replichi alle mie osservazioni proponendo asserzioni e ragioni della presunta, possibile oppure certa compatibilità. In questo modo sia le parti in causa che eventuali osservatori esterni possono costruire un'opinione, proprio a partire dalla parzialità delle posizioni contrapposte che si scontrano. Il metodo dialettico è quindi politicamente pedagogico, culturalmente migliorativo e utile se si desidera far crescere il senso comune e lo spirito critico di una collettività. Sulla "questione Tini" stamattina sono intervenuti tre democristianoni a ventiquattro carati che del metodo dialettico ignorano i fondamenti e le ragioni: il diretto interessato, il Sindaco e il segretario dell'Udc, nonchè consigliere comunale, Roberto Pellegrini. Un triumvirato di praticoni politici che ha cancellato, con un vero e proprio colpo di spugna, qualsiasi replica cartesiana, abbassando drammaticamente il livello dello scontro politico. Tini, Sagramola e Pellegrini si sono,infatti, guardati bene dall'entrare nel merito della questione incompatibilità, perchè farlo avrebbe comportato la necessità di costruire una riflessione approfondita e articolata, un'antitesi forte, solida e autorevole rispetto a quanto rimarcato dalla tesi contenuta nella missiva inviata al Segretario Comunale dal Pdl e dalla lista Paoletti. La scelta compiuta dal triumvirato bianco è stata, appunto, quella di cambiare discorso, di saltare di palo in frasca, evitando scientificamente qualsiasi contatto con gli aspetti politici e giuridici di una incompatibilità probabilmente sussistente ma congelata da un emendamento ad personam che lascia intatti dubbi e ombre. Sagramola - fedele al mandato della democristianeria più sfrenata e spaccona - è riuscito a sostenere che il salvacondotto, gentilmente concesso dal Parlamento agli amministratori in bilico, costituisce non un opinabile condono ma una sorta di premio a chi lavora e si impegna e, di riflesso, uno schiaffo a chi, rincorrendo le regole, si limita a criticare ben guardandosi dal fare. E già questa affermazione, che trasforma una delicata materia politico giuridica in un'occasione per fare del moralismo sulle formiche che operano e sulle cicale che si sfiatano, evidenzia quanta pochezza si annidi nella politica quando essa diventa rendita di posizione e rifiuto deliberato del metodo dialettico. Un'arma di distrazione di massa a cui ricorre anche Tini che neanche si premura di architettare una qualche linea difensiva di merito, allontanando totalmente il focus da se stesso e paventando addirittura sassolini nelle scarpe da togliere quanto prima, come se l'incompatibilità non fosse un elemento strategico di trasparenza pubblica ma soltanto l'arena di un dialettica abbassata a gioco di provocazioni e vendette. Dulcis in fundo l'intervento di Pellegrini che, giusto per menare fino in fondo il can per l'aia, risolve la diatriba velatamente incolpando uno dei sottoscrittori della missiva, cui si rinfacciano collaborazioni e lealtà pregresse. Come se la politica fosse matrimonio indissolubile e non anche cambiamento, dinamismo e trasformazione continua della scena, delle alleanze e delle relazioni personali. Ma in questo sottrarsi al metodo dialettico, come si diceva, non c'è l'impronta di una consapevolezza reale, non si intravede il segno di una qualche rinuncia volontaria, ma soltanto la forma mentis di tre esponenti rappresentativi di una elite politica promossa per cooptazione dall'ancien regime merloniano, culturalmente inadeguata, dedita al "particulare", totalmente immune da ogni sensibilità liberale e istituzionale e tenuta in sella dal bizantinismo onanista degli emendamenti e dei decreti. E visto che vogliono farceli ingoiare a tutti i costi, a tutti i costi cercheremo di sputarli, tenendo viva l'attenzione sugli effetti di una carica dimezzata di cui pagheranno il conto i cittadini e la credibilità delle istituzioni.
    

10 agosto 2013

Tinusconi, salvato ed ammezzato, alla prova del coraggio

Ha ragione una vecchia volpe della politica locale a dire che Tini è più potente del Silvio di Arcore. Sarà stata la fortuna, oppure il caso o magari un normale sodalizio politico, ma una cosa è certa: Angelino da San Donato è stato tempestivamente salvato da un emendamento scialuppa, surretiziamente inserito da un parlamentare del Pd - il partito che combatte il conflitto di interessi...degli altri ovviamente! - in un Decreto di esclusiva e revendicata pertinenza economica. Tra l'altro nella forma maliziosa e tipicamente italiota dell'articolo bis, ossia rifilato -$ come un cavolo a merenda -quando il testo definitivo era già stato congegnato e circolava in quarta lettura. L'emendamento prevede che la norma sull'incompatibilità - per chi si trova in quella particolare fattispecie - sia congelata, nei suoi effetti concreti, se l'incarico politico-amministrativo è stato conferito prima del 4 maggio 2013. Dopo tale data scatta invece la verifica di compatibilità. Il che, come è evidente, risulta giuridicamente limaccioso in quanto l'incompatibilità è uno stato che si configura in base al rapporto tra ruolo professionale e ruolo politico e non sulla scorta di una linea di demarcazione temporale che - a parità di condizioni - salva e penalizza in modo sostanzialmente arbitrario, generando vistose ineguaglianze di trattamento e di giudizio. Tini in base a questo dispositivo di dubbia costituzionalità, che in realtà è stato progettato per salvare il culo a quanti ricoprono il doppio incarico di parlamentari e sindaci e di cui il nostro vicesindaco si avvale di riflesso, resta dunque al suo posto. Ma "fu vera gloria?", si domandava Manzoni pensando a Napoleone e non propriamente ad Angelino nostro? No, non fu vera gloria perchè la legittimazione politica non corrisponde alla legittimità giuridica. Da oggi Tini è giuridicamente legittimato ma politicamente azzappato come un'anatra alla Casa Bianca e ammezzato nelle sue prerogative come un buon sigaro Garibaldi. Il problema politico è le sue decisioni sono di tale natura e portata da rendere necessaria una piena e integrale legittimazione politica, perchè un assessore al bilancio e alle finanze non stabilisce gli orari di apertura di un museo ma mette direttamente le mani in tasca ai cittadini, iscrive a ruolo i crediti, fa arrivare le cartelle di Equitalia e decide qualità e costo dei servizi al cittadino. In poche parole ti condiziona la vita di tutti i giorni e trattasi di un disturbo che presuppone, quanto meno, una piena legittimazione politica. Con quali argomenti infatti un "salvato" da una indigeribile sanatoria da possibile incompatibilità - ossia da violazione delle regole - si rivolge a me o a qualsiasi altro cittadino chiedendo il rispetto del patto fiscale locale e delle sue regole applicative? Personalmente, se fossi nella sua posizione e con quell'incarico tanto pesante e invasivo, rassegnerei le dimissioni perchè la delegittimazione politica - ossia la sensazione che ogni decisione sia inficiata da una lacuna a monte - è un'ombra che non si separa mai dal decisore, fin quando egli non decide di recidere, con una decisione netta, il filo che lo lega implacabilmente a quell'ombra. Ma Tini può uscirne anche giocando un'altra carta: raccogliere la sfida dell'incompatibilità, per ricostruire appieno la sua legittimazione politica. La strada è semplice ma presuppone un'indole pokerista e berlusconiana, un punto di vista da vero Tinusconi: rassegnare le proprie dimissioni e, dopo 24 ore, farsi restituire da Sagramola la delega alle Finanze. Così facendo Tini si metterebbe al di fuori dello scudo protettivo garantito dall'emendamento al Decreto del Fare, consentendo al Segretario Comunale di procedere alla verifica di compatibilità. Siccome, giusto ieri, l'assessore Tini ha dichiarato al Carlino di essere assolutamente compatibile non si vede la ragione per cui il Vicesindaco non debba sottoporsi a questa prova, che potrebbe garantirgli un pieno e necessario recupero di legittimità politica. Ma avrà il coraggio di di sottoporsi all'ordalìa? O preferirà, democristianamente, ripararsi dietro un emendamento che salva la faccia ma lascia chiaramente scoperto il culo? Siccome conosco Tini da quasi un quarto di secolo ho buoni motivi per pensare che non farà il Leprotto de Favriano e si sottoporrà, con ardire sandonatese, alla prova dei fatti e di norme non emendate. Diversamente rischia di essere un vicerè di maggio disarcionato e dimezzato.
    

9 agosto 2013

Sagramola e l'Udc già fanno "ciao ciao Angelino"

Angelo Tini ha parlato di sè stesso e del caso che lo vede protagonista di questa agitata scena politica agostana. E lo ha fatto da par suo, ovvero tignosamente convinto della linearità della propria posizione e della piena e piana compatibilità tra il suo incarico di assessore alle finanze del Comune e il ruolo di Direttore Amministrativo dell'Unità Opedaliera e Territoriale. Ed è per questa autopercezione che Tini rifiuta, in toto, l'idea delle dimissioni, che nessuno ha chiesto e che rappresenterebbero il riconoscimento di fatto della propria incompatibilità o inconferibilità che dir si voglia. Spetterà, infatti, al Segretario Comunale la decisione di mettere il Vicesindaco di fronte alla scelta di proseguire l'esperienza assessorile o di optare per il proseguimento dell'attività professionale in Asur. Ma quel che colpisce, di quanto Tini ha dichiarato stamattina al Resto del Carlino, è l'affermazione secondo la quale lo scorso anno fu "accertato che non c'era incompatibilità tra la carica professionale all'Asur e quella politico-amministrativa di Vicesindaco". Colpisce perchè, in realtà, non fu accertato nulla in merito, in quanto nessuno ricorse alla giustizia amministrativa, nonostante si parlasse a furor di popolo di esposti e carte bollate pronte ad essere protocollate e consegnate alle toghe. E' quindi segno di grande debolezza poliica utilizzare una linea di difesa basata su fatti non accaduti e su compatibilità non accertate da alcun soggetto deputato a farlo. E, forse, non è un caso che nell'Udc sia già decollato il totoassessori, a riprova che il partito di Casini non è disposto a morire per Danzica, specie se Danzica non è in Polonia ma corrisponde a una piccola frazione al confine con Sassoferrato. Ma chi più si sfrega le mani di fronte al caso Civit è proprio il Sindaco che ha la possibilità concreta di emanciparsi dal tutoraggio tiniano, che sta trasformando il cattolicesimo sociale dell'ispirazione sagramoliana in un tecnicismo protestante difficile da sostenere sul lungo periodo. E questa sensazione di uno sfregamento compiaciuto di mani, Sagramola ce la regala con la sua dichiarazione al Carlino; una presa di posizione formalissima, didascalica e vuota come un appartamento sfitto, in cui il Sindaco se ne guarda bene dall'esprimere giudizi politici o anche soltanto difese d'ufficio del proprio Vice, limitandosi invece a rimarcare retoricamente che la giustizia amministrativa farà il suo corso e che il segretario comunale valuterà tutti gli aspetti tecnici prima di esprimersi in proposito. Il che, tradotto in un essenziale "parla come mangi", significa che se Tini molla l'osso Sagramola non aprirà alcuna crisi di Giunta, limitandosi a un rapido rimpasto sostitutivo. In quel caso è probabile - secondo la logica che vuole assessore chi ha preso più voti - che Galli subentri a Tini come Vicesindaco, col terzo più votato dell'Udc pronto ad occupare la casella lasciata vuota dal Gallo Peppino. Politicamente è probabile che ci si troverà di fronte a due situazioni limite: se Tini vince questa partita scatenerà una repressione epocale nel partito, nella maggioranza e anche nella Giunta che diventeranno funzioni del primato tiniano; se perde e lascia Sagramola accenderà un cero di ringraziamento e andrà avanti, giusto togliendosi un filo di polvere dal bavero della giacca. Ma siccome il maligno si annida nei dettagli è anche probabile che la questione si complichi ulteriormente, anche perchè sembra che il Decreto del Fare contenga un emendamento che può mettere in salvo gli amministratori soggetti a incompatibilità, nominati prima del 4 maggio 2013. Nel qual caso sarebbe una sanatoria di regime - con sospensione e congelamento dell'efficacia della norma - di cui siamo certi che Tini rifiuterebbe con sdegno di avvalersi perchè configurerebbe una incompatibilità di fatto - ossia politicamente emblematica - ma giuridicamente sottratta a decisioni obbligate e a vincoli di scelta.
    

7 agosto 2013

Bye Bye Angelino: le possibili, anzi probabili dimissioni del rag. Angelo Tini

Angelo Tini è, da tempo, l'uomo forte della politica fabrianese: orienta decisioni amministrative, ispira scelte di medio periodo, aggrega interessi e rappresenta istanze fondamentali di redistribuzione delle risorse. Forte lo era già da esponente dell'opposizione quando furoreggiava, a colpi di numeri e veline, contro la Giunta Sorci, facendosi mentore e guida di buona parte di una minoranza costretta, in alcuni casi per amore in altri per convenienza, a seguirne le perlustrazioni tra le mille pieghe e le mille foglie contabili di un bilancio divinizzato e vissuto come spazio di una disinvoltura politica altrimenti inimmaginabile e inconcepibile. Una forza e una centralità che Tini è riuscito a trapiantare, senza variazioni significative di supponenza e di clima, in quella maggioranza che fino all'anno scorso combatteva e di cui oggi è leader indiscusso, assai più del Sindaco Sagramola che, non a caso, dipende manu militari dagli umori, dai misteri e dai responsi della calcolatrice tiniana. Attenzione però, perchè la centralità di Tini non deriva dalle sue qualità intrinseche di politico - oggettivamente sconosciute ai più - ma dalla mutazione genetica di una politica che ha smarrito ogni istinto e visione prospettica, riducendosi ad allocazione di ricorse, a predisposizione di giustificativi contabili e di prospetti barocchi in formato excel. Tini non emerge, quindi, dal mazzo in ragione di una stoffa politica di tipo "classico" ma perchè della politica ha colto, per tempo, il declassamento a numero e a sofisticheria travestita da scienza delle finanze e da specialismo. In questo processo mutageno è stato un precursore naturale, un anticipatore per indole che ha avuto l’istinto darwiniano e situazionista di essere l’uomo giusto nel posto giusto al momento giusto. Il fatto, poi, che dietro le nude cifre ci siano storie personali, disagi familiari e situazioni socialmente border line - ossia tutto l'umanesimo che dovrebbe dare senso e splendore alla politica - non lo intacca né in profondità né in superficie: quel che conta è completare il ciclo della tesoreria e viverne il compimento come un orgasmo irrinunciabile, indossando, se serve alla scarica emotiva generata da previsioni e consuntivi, i panni efficientisti del credit manager, quelli erculei e disanimati dell'esattore, quelli ferrigni del tagliatore di voci e capitoli o quelli sadici del tassatore addolorato e costernato ma sempre soggetto agli imperativi di una ragion di stato e di baracca. Il dato politico – al di là della passione contabile che gli arde dentro spingendolo a strafare - è che Tini ha compreso benissimo che a seconda di come si fanno girare i pochi soldi che restano, si fa fare il giro e la ruota anche al potere reale, con le sue porte laterali, i suoi divieti di accesso e di transito, le sue corsie di emergenza e le mille e mille piazzole di sosta. Un meccanismo oliato e crepuscolare che ne fa il più potente e indiscusso uomo di potere possibile nella fase di declino del sistema, legittimato ad ammonire e redarguire chiunque esca dal suo opinabile seminato di numeri, virgole e decimali. Ma, come saggiamente ricordavano le nonne, il troppo, a lungo andare, stroppia. E Tini ha esattamente questo tallone d’Achille: un tendenza al troppo, all'eccesso di cariche e di incarichi che, se da un lato ne esaltano una passione numeraria al limite dell'adorazione pagana, dall’altro finiscono col sedimentare un conflitto di interessi di dimensioni abnormi di cui la sinistra locale, a parole assai sensibile alle concentrazioni di potere, non sembra rilevare limiti, pericoli e anomalie: Assessore alle Finanze del Comune di Fabriano e Direttore Amministrativo Ospedaliero e Territoriale, ossia a capo della struttura amministrativa delle due grandi aziende pubbliche cittadine; realtà che, ovviamente, intrecciano tra loro rapporti e vedono la stessa persona - con ruoli di responsabilità apicale – assisa da entrambi i lati del tavolo di confronto tra Comune e Asur. Non a caso già l'anno scorso si discusse animatamente, anche su questo blog che ne fu tra i principali assertori, in merito all'ineleggibilità di Tini, che derivava non da pregiudizio ma semplicemente dalla lettura di alcuni articoli del Testo Unico degli Enti Locali. Una discussione che ebbe anche un risultato di grande comicità con la modifica, nel sito Internet della Asur, della qualifica di Tini da Direttore a Dirigente, excusatio non petita che alimentò e consolidò mille sospetti di legittimità in merito alla sua posizione. Poi la questione, come fa l’acqua in una roccia calcarea, sparì rapidamente dalla circolazione e pareva politicamente archiviata in un nulla di fatto. Ma l’affaire Angelino è prepotentemente riemerso dal sottosuolo carsico proprio in queste ore, per via di un'iniziativa politica dirompente che ha visto protagonisti il Pdl e la Lista Paoletti. Concretamente è successo che i consiglieri comunali del Pdl (quelli con capogruppo Giovanna Leli per intenderci), della Lista Romani (nella persona di Sandro Romani) e alcuni privati cittadini hanno protocollato una lettera indirizzata al Segretario Comunale di Fabriano, in qualità di responsabile della prevenzione della corruzione - così come previsto dalla legge 190 del 6 novembre 2012 e come si evince dalla delibera di Giunta n°43 del 28 marzo 2013 - per conoscerne il parere in merito a un’eventuale incompatibilità tra l’incarico pubblico di Tini e la sua posizione professionale di dirigente della Asur. L’antefatto della lettera risiede in un parere espresso dalla CIVIT - la Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche - chiamata ad esprimersi sull’incompatibilità di medici e di quanti ricoprono un ruolo dirigenziale nelle Asl o negli ospedali, che hanno deciso di intraprendere la carriera politica. La CIVIT si è espressa con la delibera n°58/2013 sostenendo che, nello specifico della sanità, l’articolo 12 del dlgs n° 39 del 2013 – laddove afferma che “Gli incarichi dirigenziali, interni e esterni, nelle pubbliche amministrazioni, negli enti pubblici e negli enti di diritto privato in controllo pubblico di livello regionale sono incompatibili con la carica di componente della giunta o del consiglio di una provincia, di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione della medesima regione” – va applicato anche per “i dirigenti di distretto, i direttori di dipartimento e di presidio e, in generale, i direttori di strutture complesse”. In questo senso la lettera pare faccia strategico riferimento alla determina dell’estate del 2008 con la quale a Tini venne confermato, per sette anni, l’incarico di direzione di struttura complessa “Direzione amministrativa ospedaliera”. Ora, al di là delle delibere, delle determine e dei formalismo, quel che conta è che spetta al Segretario Comunale esprimere una posizione dirimente in merito. E considerato il precedente di Fidenza, dove al Sindaco è stato dato l’aut aut di scelta tra ruolo professionale e carica elettiva, è assai probabile che anche Tini venga posto innanzi alla medesima alternativa anche perché è difficile immaginare un pronunciamento del segretario supportato da motivazioni divergenti con il contenuto della delibera CIVIT. Ed è altrettanto inverosimile supporre che Tini rinunci ai lauti compensi del suo incarico professionale di dirigente della sanità per la gloria, pressochè gratuita, di un incarico assessorile. Il che, concretamente, significherebbe le dimissioni di Tini, la crisi della Giunta Sagramola e il probabile ritorno alle urne dopo qualche mese di commissariamento. Si dice che in agosto la politica vada in ferie perché non ha più nulla da dire. Stavolta, invece, le cose da dire sono molte ed anche alquanto clamorose: ma per le vie del borgo dal ribollir de' tini va l'aspro odor dei vini l'anime a rallegrar!
    

5 agosto 2013

Lo scandalo della Pinacoteca "posata in un angolo e dimenticata"



Di Fabrizio Moscè
 Per comprendere la cultura di un città bisogna percorrerne le strade. E poi osservare i vicoli, attraversare gli incroci e passeggiare nei giardini pubblici. Ogni più piccolo dettaglio che si incontra è un elemento di narrazione che descrive la comunità, un racconto dove si incrociano quotidianità e cultura, la traccia rivelatrice di una psicologia collettiva che restituisce valori e modi di essere. Fabriano porta incisi, nelle sue strade e nei muri dei suoi vecchi palazzi, i segni dell'incuria come forma mentis, della microsporcizia generata da un deficit di educazione civica ereditato dal familismo amorale coltivato intensivamente dall'industrialismo merlonico e senza fratture, di una visione urbanistica in cui si mescolano generi, abusi, eternit e scorci di una bellezza tragicamente casuale e mai frutto di una scelta volontaria o di un qualche raptus estetico andato miracolosamente a segno. Passeggiando per le strade di Fabriano emerge, con la folgorante chiarezza di un lampo, che la nostra città ha profondamente ritenuto estraneo e d'ostacolo tutto ciò che fosse cultura, ordine estetico, vincolo urbanistico, monumento e documento. Ed è per questo che risulta coerente con un'intera vicenda storica e identitaria il caos museale cittadino, l'incapacità di escogitare sinergie tra contenitori, contenuti e flussi turistici, il pensiero verticale che domina e determina gestioni carenti di idee, di buonsenso e di risultati. E ha fatto bene il consigliere Sergio Solari a sciorinare qualche dato sui biglietti staccati dalla Pinacoteca Comunale nel 2012, perchè a volte è sufficiente la crudele nuidità di un numero a sfrondare gli allori di un'amministrazione sedotta dal nuovo vandalismo che non si nutre più di distruzioni ma di un oblio che scansa manutenzione ed inventiva e tutto ungarettianamente lascia "come una cosa posata in un angolo e dimenticata". Staccare 1.500 biglietti in un anno; incassare 7.500 euro, con una media di 125 biglietti al mese e una previsione d'incasso per il 2013 di 5.000 euro, significa non solo rimarcare lo sfregio di una cultura sempiternamente incapace di sopravvivere autofinanziandosi, ma sancire attrverso le nude cifre l'aborto spontaneo di una città di lamiere piegate, da riconvertire all'economia civile del bello, alle attrattive del paesaggio collinare modellato dal monachesimo e a una poesia dei luoghi capace di generare forme di turismo meno casuali ed episodiche. Ed è mortifero e depressivo leggere le soluzioni dell'ingegnere al Turismo Ass.Balducci Giovanni che scorge soluzioni possibili nel biglietto unico per un unico circuito museale, o il percorso "cento passi", ennesimo rimescolamento di parole e di cose che rimanda a un vecchio detto popolare secondo il quale se non è zuppa è, di certo, pan bagnato. Il problema, ovviamente, non è di biglietteria, di formule cumulative o di invenzioni lessicali ma di un territorio che non sa narrare se stesso a se stesso e quindi all'esterno. Si tratta di un punto di vista che mette radicalmente in discussione l'identità di una comunità abituata da decenni a sostenere che "a Fabriano non c'è niente e non c'è mai stato niente". Per far sì che questo punto di vista metta radici, ribaltando un antico senso comune, è necessario cominciare a pensare il turismo e la cultura come settori produttivi come gli altri e quindi bisognosi di competenze specifiche, di capacità gestionali e di visione manageriale del futuro. Tutta merce che va importata dall'esterno e che deve essere profumatamente remunerata. In questo senso - e a titolo di esempio - consentire che i pullmann delle comitive dirette al Museo della Carta possano parcheggiare in Viale Moccia - allontanandosi poi senza aver fatto un giro in centro e senza aver incontrato l'ombra di un bar o di un punto di ristoro - non evidenzia soltanto forme irreparabili di trionfo del demenziale, ma lascia anche scorgere il segno evidente della totale estranità alle modalità di base di una gestione ottimizzata e "toscana" dei flussi turistici. Ma Balducci e la Rossi non hanno ancora capito che 1.500 biglietti staccati dalla Pinacoteca sono più potenti della più bellicosa delle mozioni di sfiducia?
    

4 agosto 2013

Le mire divisive e a colori di Indesit come le vocali di Rimbaud

A partire da oggi riprendono a pieno ritmo le pubblicazioni del blog che seguirà il poco o il tanto delle vicende cittadine anche durante il mese di agosto. Si mormora infatti di novità politiche locali assolutamente clamorose e in procinto di esplodere che non mancheremo di seguire con la massima attenzione. Così come merita un occhio di riguardo lo spappolamento del fronte sindacale in Indesit, emerso in occasione della Marcia su Bellaluce dell'altro giorno e drammatizzato dalla decisione dell'azienda di richiedere due giornate di lavoro agli operai del reparto presse dello stabilimento di Albacina. Una decisione aziendale di cui si fatica a comprendere la logica industriale, gestionale e operativa anche se si capisce, invece, perfettamente la finalità divisiva, l'impeto maoista di colpire il cane che affoga, la simulazione di guerra necessaria ad approfondire il solco che sembra dividere, ogni giorno di più, la Fim Cisl dalla Uilm e dalla Fiom. Dividere la controparte non è, ovviamente, un'azione dettata dalla malvagità del capitale e dal razionalismo numerico e disumano del management ma soltanto una tecnica negoziale tra le tante, messa in campo - con cinica lungimiranza - proprio nel momento in cui il Generale Ferragosto rende più fragile a scalabile l'unità sindacale e meno granitica la saldatura tra lavoratori e organizzazioni di rappresentanza. L'obiettivo, non dichiarato ma evidente, è quello di lavorare per un accordo separato tra l'azienda e la Cisl, che in Indesit è il sindacato maggioritario. La proprietà e il management - alla luce di quanto accaduto in questi due mesi e di una reazione dei lavoratori e della città che non era stata minimamente preventivata, visto che il precedente di riferimento era lo "zitti e chiotti" della vicenda Ardo - non possono permettersi il lusso settembrino di consumare una rottura definitiva con i sindacati, perchè un Piano di Ristrutturazione che abbia ambizioni di rilancio e di svolta industriale non può affermarsi senza uno stock minimo di consenso dei lavoratori. In questo senso sancire un qualche accordo con la Cisl significa non solo avere la copertura della sigla sindacale maggioritaria, ma anche garantirsi un supporto riformista e contrattualista connaturato all'identità del sindacato di Via Po, riversando sulla Fiom un'accusa classica di politicizzazione del conflitto e sulla Uilm di essere eterodiretta dalla Fiom, nonostante l'affinità culturale e sindacale che la terza confederazione condivide con la Cisl. Se volessimo riassumere l'intendimento della Indesit, parafrasando la visione cromatica che il grande Rimbaud aveva delle cinque vocali, potremmo affermare che il desiderio dell'azienda è quello di avere una Fim gialla, una Fiom rossa e una Uilm bianca. Un gioco di colori e di strategie funzionale al successo del Piano e che sembra aver colto una divisione sempre meno latente tra le tre federazioni dei metalmeccanici, la cui unità fittizia, basata soltanto sul no pregiudiziale al Piano di Milani, comincia a mostrarsi del tutto inadeguata rispetto a questa fase più istituzionale e tattica della vertenza. In qualche modo è come se l'azienda, con occhio paziente e motivato, avesse tenuto sotto osservazione quali dinamiche si stessero consolidando nel campo di Agramante, con l'obiettivo di preparare per tempo lo showdown di settembre attraverso una nuova azione emblematica ma a bassa intensità. Il dettaglio dei due giorni di lavoro in un solo reparto di un solo stabilmento durante le ferie è un piccolo ma efficace colpo di teatro, un carotaggio sperimentale pensato per saggiare il terreno e vedere l'effetto che fa. La Fim ha immediatamente abboccato mentre Fiom e Uilm hanno reagito negativamente, evidenziando però un riflesso condizionato più identitario ed istintivo che calato davvero tra le pieghe della vertenza. Insomma un triplo filotto reale che costringe le federazioni sindacali a risalire la china, consapevoli che se le manovre divisive sono così forti da mettere a repentaglio l'unità sindacale i 1.425 esuberi, entro la fine dell'anno, diventeranno cassintegrati. Poi, a seguire, lavoratori in mobilità e infine disoccupati.
    

2 agosto 2013

Il Generale Ferragosto e le noci di...Cocco

L'altro ieri Andrea Cocco, segretario regionale della Fim-Cisl Marche, ha rilasciato una dichiarazione che è la prova più lampante delle crisi strategica e di prospettiva che sta vivendo il sindacato sulla questione Indesit: "Non molleremo la nostra posizione finché non avremo risposte concrete, la famiglia Merloni passi buone vacanze e rifletta sul da fare, altrimenti avrà un settembre caldissimo". Innanzitutto c'è da dire che si tratta di un'affermazione assai poco cislina perché, fino ad ora, dalle organizzazioni sindacali non è giunta una sola idea o proposta che fosse minimamente riconducibile a una piattaforma negoziale alternativa, capace di combinare e bilanciare, in un'ottica necessariamente bilaterale, esigenze di competitività dell'azienda e di tutela del lavoro e dell'occupazione. L'unica posizione del sindacato è stata quella di opporre un netto rifiuto al Piano Indesit, considerando il suo ritiro propedeutico rispetto a qualsiasi ipotesi negoziale. Ma è del tutto evidente che si tratta di una richiesta totalmente irrealistica perchè comporterebbe non solo il dimissionamento in tronco di Milani e del management ma - di fatto se non formalmente - anche quello degli azionisti che per statuto e norma agiscono attraverso la delega agli amministratori. Ma quel che colpisce è una vera e propria "noce di Cocco", ossia la promessa di un autunno caldissimo, con un picco di conflittualità giusto in corrispondenza con il rientro dalle ferie. La promessa di un inasprimento è, di per sé, del tutto legittima ma segnala una debolezza negoziale sempre più incombente, con gli slogan che rimpiazzano le proposte e con la furia degli agitatori che cerca di compensare e nascondere un vuoto d'iniziativa sindacale di cui sono sempre più evidenti il peso e la natura. La verità è che con lo sciopero di metà luglio si è chiusa la fase del diniego e della "storia siamo noi", e dal quel momento la vertenza Indesit si è impacchettata dentro una colla istituzionale in cui la moltiplicazione dei tavoli di confronto romano ha condannato il sindacato ad attenderne passivamente l'esito: esultando al primo accenno di soluzione statalista e poi riconoscendo l'assenza di spiragli quando è emersa con chiarezza l'opzione della politica e dell'azienda per gli ammortizzatori sociali. La verità amara è che il sindacato e i lavoratori stanno perdendo la partita perché l'unità dei lavoratori - e una prospettiva di successo - non si costruiscono sulla sabbia degli scioperi articolati ma su obiettivi specifici, misurabili, realizzabili, realistici e tempificabili. E la richiesta di ritiro del Piano non esprime nessuna di queste caratteristiche ma soltanto una vocazione irrefrenabile a tracciare un solco profondo di divisione che non permette quella vera azione propedeutica che è il riconoscimento delle ragioni della controparte. E non è un caso che, giusto ieri, siano emerse tra le sigle crepe da scala Richter e divisioni clamorose che hanno trovato la loro sintesi con il corteo di circa 150 operai saliti fino a Bellaluce per augurare, ironicamente, buone vacanze alla famiglia Merloni. Una manifestazione a cui la Cisl, sigla prevalente tra i lavoratori Indesit di Fabriano, non ha aderito, accampando una motivazione ufficiale in cui la toppa sembra molto peggiore del buco. Resta il fatto che le organizzazioni sindacali si sono divise non su una strategia negoziale o sui contenuti della propria inesistente piattaforma, ma su una manifestazione che era soltanto la replica senza escrementi di quanto già realizzato dal centro sociale Fabbri e che serviva per accedendere un riflettore mediatico drammaticamente sempre più lontano e fioco. Il vero problema è che quando non c'è una strategia ci si illude di vincere giocando tutte le carte migliori all'inizio, che è l'errore che commettono quei giocatori che consumano le briscole nelle prime fasi della partita, vanno apparentemente in vantaggio e poi alla fine sistematicamente perdono. Il sindacato in questi giorni -ormai senza assi e senza briscole, fa la voce grossa, promette un'altissima febbre autunnale ma intanto disperatamente combatte contro l'inesorabile incombere del Generale Ferragosto. E la manifestazione di ieri, sia detto senza finzioni politicamente corrette, non è stata soltanto triste e senza appeal ma ha evidenziato in modo drammatico che non c'è nulla dietro l'angolo che non richiami l'odore acre di una Caporetto disordinata e integrale. Una sconfitta che in parte potrà essere attribuita all'ostinazione di Milani e dei Merloni ma di cui il sindacato porterà la croce e una quota non da poco di responsabilità diretta.