30 settembre 2013

Considerazioni liberali su Ardo e Tecnowind



 
La scorsa settimana sono stati in molti a manifestare scandalo per l’ordinanza del Tribunale di Ancona relativa all’annullamento della Ardo alla JP Industries. Uno scandalo segnato dall’indignazione e privo di quelle pezze d’appoggio giuridico che non sono una variabile tra le tante ma l’elemento necessario per inquadrare razionalmente il giudizio negativo e dare fondamento alla valutazione critica del provvedimento. Il rifiuto dell’ordinanza si è invece basato su un’esigenza sociale, sicuramente forte e mobilitante, come la tutela dell’occupazione; in pratica una motivazione sostanziale contrapposta al quadro formale che avrebbe dovuto contenerla. Ma piegare la norma a una ratio esterna, quale che sia il suo valore etico, significa indebolire uno dei meccanismi dello stato di diritto, ovvero la coincidenza, almeno d’enunciato, tra forma e sostanza. Il sindacato, in questo contesto, ci ha messo sicuramente del suo, ricorrendo sistematicamente alla logica dei “due pesi e due misure”. Infatti, quando il giudice ha applicato la legge su Ardo si è scatenato il pandemonio – corredato dai classici richiami alla Costituzione più bella del mondo violata dal complotto delle banche - ma quando la medesima toga ha sgomitolato in punta di diritto cause e concause del caso Tecnowind, applicando la disposizione del concordato preventivo con prosecuzione di attività, la tempesta critica rapidamente si è placata e ad essa è subentrato un gioco di armonie, di cori mielosi e di serenissime note. Personalmente ritengo l’idea del concordato un elemento di turbamento rispetto alla concezione schumpeteriana dell’imprenditore innovatore e alla logica liberale di una concorrenza di mercato sottoposta a regole precise, ma ciò non significa che il dissenso debba necessariamente sfociare nello scandalo. Per la semplice ragione che le leggi possono essere cambiate e che chi non gradisce quelle vigenti può farsi promotore di una loro modifica. Concretamente la legislazione italiana e, in parte anche quella europea, punta a privilegiare la continuità operativa dell’azienda rispetto ai diritti dei creditori, che molto spesso sono piccole aziende fornitrici, costrette a transare al ribasso i propri crediti, trasformandosi, di fatto, in banche dell’azienda cliente. L’idea stessa del concordato, oramai concesso a iosa, ossia di irragionevoli indebitamenti ristrutturati tagliandone l’ammontare e la gerarchia di restituzione qualora essa sia funzionale alla continuità aziendale, costituisce un’istigazione all’abbassamento della qualità imprenditoriale e un’alterazione del principio fondamentale della concorrenza, ossia l’esistenza di pari opportunità di contesto nel mercato di riferimento. Questa scelta normativa di proteggere la continuità aziendale per tutelare l’occupazione, ha una sua legittimità culturale e sostanziale, ma se analizziamo i problemi in un’ottica di sistema la diminuzione della qualità imprenditoriale e l’alterazione dello scenario competitivo che ne derivano tenderanno a rallentare lo sviluppo e la crescita e, di conseguenza, lo stock degli investimenti e il livello dell’occupazione. Il caso Tecnowind, ossia una violenta crisi da indebitamento, pur nel plauso per la soluzione in procinto di essere raggiunta, pone un problema e una domanda: il problema è che se passa l’idea che il debito sia uno strumento da usare per trasformare, attraverso il concordato, i fornitori in banche, è facile che gli effetti a catena sul sistema delle piccole imprese possano diventare devastanti. La domanda riguarda, invece, il destino di chi concepisce la partita imprenditoriale in modo più saggio e tradizionale: gestire un’azienda con lo spirito del padre di famiglia è ancora una virtù o è soltanto un modo elegante e nobile per perdere competitività e quote di mercato? Sono temi di profonda attualità che la crisi profonda del lavoro può spingere temporaneamente da parte ma che non possono essere cancellati da una ragion di stato dietro la quale, spesso, trovano comune asilo la ragione dei bisognosi e quella assai meno nobile dei furbi.
    

29 settembre 2013

Quel lontano '84, col Pci e V.Merloni a parlare di lavatrici

Una scatola bianca a forma di cubo, infilzata da due serpentine stilizzate. Fu questo il logo, graficamente scarno e primitivo, utilizzato dal Partito Comunista Italiano per pubblicizzare e promuovere la Conferenza Nazionale sugli Elettrodomestici che si tenne a Fabriano il 27 e il 28 aprile del 1984. Avevo promesso ai lettori che mi sarei occupato di quell'evento, così lontano nel tempo, non per semplice curiosità storica ma in quanto ricco di possibili attualizzazioni e di un approccio teso a dimostrare che Fabriano non fu soltanto luogo di pensiero tenue ma anche officina di senso critico, seppur minoritario. La conferenza Sugli Elettrodomestici fu sicuramente un momento di confronto alto, che non a caso fece registrare anche la sorprendente partecipazione di Vittorio Merloni e si concluse con l'intervento di Gianfranco Borghini, allora responsabile nazionale del PCI per l'industria e uomo di punta della corrente amendoliana del partito guidata da Giorgio Napolitano. Per ricostruire, a grandi linee, i contenuti della Conferenza è stato necessario ricorrere alle raccolte del Progresso, perchè il quindicinale comunista fabrianese è, di fatto, l'unica fonte a cui è possibile accedere per affinare la conoscenza di quel passaggio, per certi versi profetico, della storia economica fabrianese. I materiali reperiti sono oggettivamente poveri e scarni ma comunque significativi: due articoli di commento e un documento di indirizzo settoriale. La raccolta completa delle relazioni e delle comunicazioni trovò forma editoriale in un libretto edito dal Pci regionale a cui, allo stato attuale, non pare possibile risalire e che forse giace dimenticato in qualche archivio del movimento operaio marchigiano. Per compensare questo limite informativo mi sono messo in contatto con Primo Galdelli, ex deputato e senatore comunista, che fu il principale animatore di quella emblematica iniziativa. La decisione di organizzare una conferenza nazionale nacque come risposta politica a una precisa fase evolutiva del mercato degli elettrodomestici bianchi, ossia in concomitanza con l'acquisizione della Zanussi da parte della svedese Electrolux, che inaugurò un processo di concentrazione dei produttori di bianco destinato a cambiare radicalmente il profilo di un settore a quel tempo ancora assai frammentato. La Conferenza - come mi ha spiegato con dovizia di particolari Galdelli - fu preceduta da un questionario propedeutico, distribuito a 3.500 lavoratori delle aziende Merloni, fnalizzato a coprendere quali fossero gli orientamenti dei lavoratori rispetto alle scelte dell'azienda e alla transizione che si stava consolidando. Si trattava di una consultazione inedita e dirompente, che fu gestita con accortezza politica se è vero che il Pci ebbe volontariamente indietro circa 1.300 questionari compilati. Ma la cosa più importante è che da quelle risposte emerse una rottura generazionale tra i vecchi metalmezzadri e i lavoratori più giovani, con quest'ultimi decisamente propensi a superare le forme e i precetti più marcatamente paternalistici della gestione aziendale. Di questa novità sociologica diedero conto giornali borghesi come il Corriere della Sera e quotidiani di ispirazione operaia come l'Unità, ma ad oggi non è stato possibile recuperare quelle pubblicazioni. L'elemento che più colpisce, a distanza di tre decenni, è sicuramente la capacità di un partito politico di ispirazione marxista di farsi interprete di una lettura approfondita e anticipatoria di certe trasformazioni economiche e sociali. Così come in parallelo spicca l'anomalia di una forza anticapitalista che sa farsi carico di una politica industriale interna al sistema liberale, che pone per tempo il problema delle alleanze e degli accordi strategici tra produttori, che annusa i rischi della "multinazionale tascabile" e le criticità di una competizione connessa a un settore già allora segnato da un eccesso di capacità produttiva rispetto alla domanda. Ma il vero paradosso è che in quella sede Vittorio Merloni - almeno da quel che si evince dall'articolo di resoconto di una giornalista dell'Unità - contrappose alla lettura sistemica del Pci l'autosufficienza della sua azienda anche se, a parere di Galdelli, fu pure grazie a quel confronto inedito e aspro che maturarono nuove relazioni industriali e una consapevolezza sempre più marcata di quel necessario salto dimensionale che spinse, giusto un anno più tardi, l'allora presidente di Confindustria ad acquisirire la Indesit, ovvero il principale competitor italiano della Ariston. In questo quadro furono molti anche i relatori che si focalizzarono sul rischio di un territorio assoggettato alla monocultura industriale e sugli elementi di inefficienza connessi a una gestione paternalistica e individualizzata dei rapporti di lavoro. Questo è, in sintesi, il contesto da considerare e valorizzare nella lettura dei testi di seguito riportati, senza dimenticare, appunto, che già trenta anni fa c'era chi provava a confrontarsi con l'azienda e coi problemi del settore senza subire l'iniziativa della controparte e senza attenderne le mosse. Una lezione che, purtroppo, il sindacato dei giorni nostri sembra aver completamente rimosso dal suo orizzonte ideale e negoziale. Buona lettura.

IL PROGRESSO N° 8 APRILE 1984

IL DOCUMENTO POLITICO DEL PCI
Nei giorni 27 e 28 aprile a Fabriano, la Direzione Nazionale del Pci, il Comitato Regionale delle Marche e la federazione comunista di Ancona indicono una conferenza per discutere del ruolo del gruppo industriale Ariston nel cosidetteo settore degli elettrodomestici bianchi. Dopo la pubblicazione del documento sulla situazione finanziaria del gruppo Ariston, con questa nota si vogliono esporre parte delle valutazioni e delle proposte del Pci. (...) In Europa per produrre 35 milioni di pezzi operano circa 400 imprese; in Italia 5/6 imprese coprono una quota altissima delle produzioni. Una ipotesi di razionalizzazione del sistema delle imprese di elettrodomestici non sollecita integrazioni societarie ma piuttosto consiglia lo stringersi di accordi per produrre in comune componenti e per rafforzare la capacità di commercializzazione del Made in Italy. Tali accordi sono necessari e vanno promossi. Fondamentale è anche un intervento del Governo che indirizzi e favorisca la ristrutturazione e la riconversione del settore. Non chiediamo un "piano del settore", pensiamo piuttosto a un intervento organico per fattori, per imprese, per linee di prodotto che assecondi l'adeguamento della nostra struttura industriale ai mutamenti sopravvenuti nella qualità e quantità della domanda italiana ed europea. La proposta che noi avanziamo può essere così articolata:
  • investire il parlamento o una delle sue commissioni affinchè svolga un'analisi dello stato del settore per offrire al Governo un indirizzo per la ristrutturazione e la riconversione
  • costituire presso il Ministero dell'Industria un Comitato tecnico composto da esperti che elabori un programma di intervento senza mettere in discussione l'autonomia e la responsablità delle imprese
  • destinare per la ristrutturazione del settore un finanziamento ad hoc
(...) Con l'ausilio del Comitato tecnico si possono ottenere economie di scala per lo sfruttamento comune dei risultati della ricerca e per costituire uno specifico e originale "sistema italiano" di imprese. (...) Non ci si può difendere con politiche protezionistiche, la giusta strada è quella degli accordi tra imprese di uno stesso paese che dovono puntare a costituirsi come sistema. I sistemi di impresa nazionali europei debbono a loro volta stringere accordi. In sostanza non ci si può chiudere dentro alla propria azienda e non ci si può chiudere dentro al proprio paese. (...) A nostro avviso conviene:

  • realizzare il risanamento finanziario delle imprese. Infatti l'alto costo del credito e l'alto livello di investimenti che richiedono l'innovazione e la ricerca hanno già creato difficoltà (...). Contemporaneamente occorre comparare l'entità dei margini operativi con le necessità di investimento per ricostruire sufficienti possibilità di autofinanziamento (...)
  • gli investimenti devono in prevalenza essere destinati alla ricerca applicata e all'innovazione perchè solo così si può mantenere inalterato il ruolo che la nostra struttura industriale esercita a livello mondiale (...)
  • agevolare l'innovazione delle linee di prodotto e il completamento della gamma. Non compete a un partito politico indicare i modi per assicurare tale positiva evoluzione ma non si possono certo salvaguardare le possibilità del settore mantenendo la gamma e la qualità dei prodotti attuali (...)
  • sostenere con opportune agevolazioni accordi tra imprese per la produzione in comune della componentistica(...)
Opporsi alla ristrutturazione è sterile e pericoloso; bisognerà piegarla agli interessi dei lavoratori e del sistema produttivo, Derivano da ciò, a nostro parere, alcune conseguenze:

  • se si manifesterà un eccesso di occupazione sarà giusto rifiutare un linea di puri licenziamenti. Una gestione accorta del regime dell'orario di lavoro può consentire di affrontare in modo concreto questo problema
  • la riqualificazione delle professionalità dei lavoratori non può essere lasciata all'arbitrio dell'impresa (...)
  • l'innovazione delle tecnologie di processo muterà l'organizzazione del lavoro e il ruolo del sindacato

IL GRUPPO ARISTON
(...) il dato maggiormente apprezzabile è il mantenimento della dimensione europea dell'impresa. (...) Tuttavia prevale ancor oggi la convinzione che l'Ariston possa fare da sola. Noi dubitiamo della bontà di tale orientamento(...). Ciò non consentirebbe ad Ariston di partecipare in modo attivo alla riconversione del settore apportandovi il suo patrimonio di esperienze e la complessità dei suoi problemi (...)
  • la gamma dei prodotti che Ariston offre sui mercati appare apprezzabile per qualità e ampiezza. Il successo di mercato conseguito con la lavatrice Margherita, quelli ottenuti con alcuni prodotti della linea cottura sembrano confermare la nostra osservazione (...) ma a noi non risulta che sulla gamma attuale Ariston abbia impostato un programma di ricerca che garantisca la possibilità di affermarsi anche in futuro nel mercato italiano ed europeo
  • Preoccupante ci sembra l'assenza o l'annulamento di alcune iniziative che sembrano invece in grado di aprire il mercato e di superare l'attuale stasi (...) Certo, oggi si sentono le conseguenze della crisi che ha colpito l'edilizia abitativa, però vigorosa è la spinta che vuole superare tale crisi anche ripensando al modo di costruire le abitazioni (...)
  • Inoltre i prodotti che l'Ariston è in grado di offrire sono giudicati buoni ma tradizionali. Non ci si è posti il problema di avere prodotti per il prossimo futuro (...)

IL PROGRESSO N° 9 MAGGIO 1984

di Gabriella Mecucci

Eravamo i primi in Europa ma ora stiamo per diventare terra di conquista. I frigoriferi, e lavatrici e gli elettrodomestici in genere continuano a far guadagnare all'azienda Italia 2.500 miliardi di lire all'anno ( tanto è l'attivo della nostra bilancia commerciale nel 1983), ma i più famosi e potenti gruppi industriali del settore da qualche anno continuano a perdere. Cosa sta succedendo? Dove è la malattia e quale può essere la cura? Il settore è ormai maturo e va abbandonato ad altri, oppure questo patrimonio deve essere rilanciato? Il Pci ha messo al centro del suo convegno sul futuro degli elettrodomestici questi interrogativi.. Una riflessione aperta, non condotta in solitudine nel chiuso delle proprie stanze alla quale hanno partecipato altri soggetti. Tanto è vero che è intervenuto anche Vittorio Merloni. Il Presidente uscente della Confindustria ha preso al parola al convegno dei comunisti, qui a Fabriano, per dire la sua sui problemi del settore e in particolare su quelli dell'Ariston. Il convegno non poteva non guardare con particolare attenzione al caso Zanussi e al rischio di svendita del secondo gruppo italiano. Un esempio, un segnale di fatti che potrebbero ripetersi: gli americani e i giapponesi sono alle porte e se la politica di internazionalizzazione non viene condotta dall'Italia partendo dalla sua posizione di forza, allora si può finire per diventare una colonia, lasciando ad altri il ruolo di maggior produttore europeo di elettrodomestici. E' proprio questo il senso della prima relazione, quella del compagno Isaia Gasparotto (allora deputato del Pci nda) che ha accusato il Governo italiano di totale inerzia verso un settore dove pure deteniamo tanti primati.. Ritorna, come esemplare, la vicenda Zanussi. Il gruppo ha raggiunto un indebitamento di 1.000 miliardi di lire su un fattorato di 1.800 miliardi; eppure, spiega Gasparotto, dal punto di vista industriale e produttivo è sano: nel 1983 ha mantenuto una quota altissima del mercato europeo, pari al 15%, ed ha aumentato le sue vendite in Italia. Stesso discorso vale per l'Ariston, ricorda subito dopo Manghetti (allora responsabile del Pci per i problemi del credito nda), dove i debiti sono arrivati a 300 miliardi di lire e l'occupazione  - aggiunge Galdelli, un tecnico degli stabiimenti di Merloni - è calata di 700 unità.. Perchè sui due gruppi, come su altri, sono piovuti così pesanti problemi finanziari? Gasparotto risponde così: "E' questo un settore dove per restare competitivi è stato indispensabile fare notevolissimi investimenti, resi assai costisi, qui in Italia, dal costo del denaro. Gianfranco Borghini, nelle conclusioni, parla della necessità di grandi innovazioni di processo e di prodotto e di risamento finanziario delle aziende: " I gruppi più importanti del settore sono sottocapitalizzati e non riescono a far fronte da soli agli enormi problemi che si pongono". Il Pci denuncia l'assenza di una linea governativa in un settore che, pur essendo maturo, ha tutti i margini per essere modernizzato. E passiamo al capitolo internazionalizzazioni. Borghini dice subito che il Pci non è contrario a questa scelta. Resta da vedere coem questa operazione viene condotta, altrimenti anzichè alle integrazioni sovranazionali si arriva alle svendite. Gasparotto aveva proposto, prima di tutto, una collaborazione fra i gruppi italiani e poi un'apertura a possibili joint venture europee. Vittorio Merloni ha una sua terapia. La prima cura è macroeconomica: ridurre l'inflazione, il costo del lavoro e quello del denaro. Subito dopo - continua - si potranno curare i mali azienda per azienda. Quanto all'Ariston ce la farà da sè ad uscire dalla crisi, tanto è vero che dopo il passivo del 1983 nei primi mesi del 1984 i bilanci non sono più in rosso. Ciò non toglie che il governo debba avere una sua linea per sviluppare un settore che ha tirato e che costituisce un cardine del made in Italy (...) Il Presidente della Confindustria su una cosa si dichiara d'accordo col Pci: il settore degli elettrodomestici ha un futuro avanti a sè, anche se sta attraversano un momento difficile. Occorre però - questo il senso dell'intero convegno - non procedere in ordine sparso e non fare come il governo italiano che ha deciso di lavarsene le mani.


di Primo Galdelli

(...) La tenuta e il consolidamento delle quote italiane sui mercati sono in pericolo per una serie di motivazioni. Vi è stata una saturazione della domanda a partire dal 1973, mentre sono entranti o tentano di entrare nuovi e agguerriti produttori sui mercati. Questo, insieme alla crisi generale che ha mutato nella famiglia la qualità dei consumi portando molto spesso a rinviare l'acquisto di beni durevoli, posticipando così la sostituzione di elettrodomestici, ha determinato una condizione di sovrapproduzione valutabile intorno al 15%. Questa situazione ha determinato lo scatenarsi di una lotta per la divisione del mercato e ciò ha impresso una forte spinta a processi di fusione e concentrazione di marchi, che hanno ridotto di molto il numero delle imprese di elettrodomestici. In Italia le due grandi imprese Zanussi e IRE-Philips congiuntamente alle 5 o 6 di media grandezza, con in prima fila l'Ariston, coprono il 90% della produzione nazionale. mentre si calcola che il 41% di frigoriferi, il 42% di congelatori, il 43% di lavabiancheria e il 22% di lavastoviglie europee vengano prodotti nel nostro Paese. (...) Anche l'Ariston si trova quindi a dover affrontare questi problemi e noi abbiamo espresso le nostre preoccupazioni sia per la situazione finanziaria sia per il fatto che i progetti di ricerca sono stati sospesi. L'Ariston ha ora una buona gamma di prodotti ma rischia di trovarsi spiazzata nel prossimo futuro. Queste e altre considerazioni ci hanno portato alla convinzione che necessiti subito una politica del governo per il settore, che occorra un provvedimento snello a sostegno delle imprese italiane soprattutto per quanto riguarda gli investimenti in ricerca applicata e per il rinnovamento dei prodotti. (...) Non siamo contro l'internazionalizzazione dell'industria italiana ma crediamo che nel settore del bianco spetti a noi il compito di essere determinanti nelle scelte di integrazione e cooperazione. (...) Il costo del lavoro in Italia è il più alto d'Europa mentre i salari sono i più bassi: in questa contraddizione risiedono gran parte delle striture del nostro sistema economico nazionale. (...) Si è parlato e in maniera molto approfondita, dei rapporti industriali all'Ariston. La comunicazione della Ires Cgil di Rolando Burattini ha messo in evidenza la particolarità di questo rapporto e come esso stia mutando, in questo ultimo periodo, anche in conseguenza della crisi e delle scelte aziendali e come questo determini nuovi problemi di consenso sia alla direzione dell'Ariston che al sindacato e come, altresì, per il sindacato si aprano spazi nuovi su un terreno di confronto e progettuale più avanzato (...)
    

27 settembre 2013

Fabriano risorgerà quando smetterà di essere democristiana d'animo



 
Ci sarà tempo e modo per capire, al netto delle attuali passioni, come sia potuto accadere che un modello di industrializzazione decantato dai sociologi e proposto come formula distrettuale da imitare da schiere di politici, analisti e consulenti, sia potuto declinare e schiantarsi in tempi così irragionevolmente brevi. Di certo la crisi occupazionale, e la carenza sempre più acuta di opportunità di lavoro, non facilita la comprensione di quanto realmente accaduto. Si moltiplica, di conseguenza, l’appello a guardare avanti, a ignorare ogni riferimento al passato, a fingere che tutti i gatti siano neri. Non è così come dimostra il convegno nazionale sugli elettrodomestici organizzato nel 1980 a Fabriano dall’allora Partito Comunista (di cui a breve pubblicherò alcuni articoli e forse anche alcuni frammenti delle relazioni che vennero presentate in quella sede) e la ricerca realizzata nel 1999 dalla Fondazione Censis sul rischio del modello Fabriano e sulla necessità di riflettere su nuove linee e nuovi driver di sviluppo (grazie alla gentilezza di un amico ho avuto l’occasione di avere lo studio in formato digitale, con la possibilità, attraverso questo blog, di metterlo a disposizione di tutti i fabrianesi) ma conviene farlo credere, in modo tale che una intera, ramificata e inamovibile classe dirigente possa godere di un’indulgenza plenaria per i propri peccati sociali e di potere. Ma questo tentativo di offuscare il passato, facendone una palude lattiginosa e senza vita, è causa di fraintendimenti e di nuovi pregiudizi che inficiano anche la comprensione del presente. Leggendo i tanti interventi che sono stati postati su questo blog negli ultimi tempi e scandagliando tra parole forti, insulti e dileggi d’impronta più toscaneggiante che marchigiana, ho visto delinearsi, in tutta la sua potenza divisoria, una vera e propria linea di frattura tra chi lavora e chi ha perduto questa possibilità. Una contrapposizione muscolare tra guelfi e ghibellini, dove spesso chi lavora si scaglia sulla presunta vita facile e comoda di chi il lavoro lo ha perduto. Una criminalizzazione che richiama i vade retro medievali, quando la povertà era ritenuta peccaminosa e maligna, come ha straordinariamente raccontato, in tanti suoi libri, lo storico polacco Bronislaw Geremek. E dentro questa divisione se ne scorge anche un’altra, largamente infondata e irreale, che prova a decodificare la linea di faglia tra lavoro e non lavoro come fosse il risultato di una divisione nitida tra raccomandati e non raccomandati. Da questo punto di vista è del tutto evidente un’istintiva rimozione rispetto alla vera storia e alla lunga vicenda del potere fabrianese. Il concetto di raccomandazione non è applicabile al nostro contesto perché l’idea del raccomandare richiama alla mente azioni individuali, one to one, tra il raccomandatore e il raccomandato. A Fabriano la raccomandazione non era una modalità di contrattazione individuale ma un fondamentale meccanismo di inclusione nel sistema di potere merloniano. Un potere che si è declinato attraverso la funzione mediatoria e di coagulo tenacemente svolta dalla Democrazia Cristiana, che ha interpretato, in forma collettiva e in raccordo con il sistema associativo animato dalle parrocchie, lo stesso ruolo, bonario e imperativo, che il “capoccia” svolgeva all’interno del sistema mezzadrile. Abbiamo, quindi, conosciuto una “DC delle frazioni” che governava il consenso del contado, attraverso il sistema inclusivo delle raccomandazioni estese e l’assunzione, previa iscrizione al partito ma non sempre necessariamente,  alla Antonio Merloni. Così come è esistita una “DC statalista” – quella dei Mercia e dei Medici per intenderci – capace di applicare in modo sistematico e spietato un vero e proprio spoil system su tutto ciò che potesse ricondurre all’assunzione in enti pubblici come l’ospedale, l’azienda sanitaria e il comune. E, per finire, è esistita e ha prosperato una “Dc tecnocratica” che ha filtrato e drenato l’accesso dei fabrianesi al resto delle aziende del gruppo Merloni; una DC questa che, nel corso degli anni, si è fatta carico di selezionare una classe politica – almeno ai suoi massimi livelli – di origine prevalentemente aziendalista.  Questa Democrazia Cristiana una e trina ha egemonizzato tutte le pieghe della vita cittadina, alternando bastone e carota e stabilendo chiare linee di demarcazione tra chi era dentro e chi era fuori dai meccanismi di inclusione e di consenso fissati a tutela del sistema di potere. Un sistema che premiava la fedeltà, il voto e la sindacalizzazione smuntarella e gialla raccomandando e inserendo nell’attività produttiva interi nuclei familiari comprensivi di estese sequenze parentali e generazionali. La crisi industriale e il tramonto dei vecchi patriarchi dell’industria locale ha logorato e consumato i fili di questo modello di welfare basato non sul diritto ma sulla concessione inclusiva. Ma è assolutamente falso e fuorviante, dal punto di vista storico e sociale, narrare una città improvvisamente divisa tra puri e raccomandati. Raccontarlo significa, ancora una volta, ricorrere a una visione lunare delle cose in cui si semplifica e si assolve per dimenticare. Finchè saremo democristiani non risorgeremo mai.
    

26 settembre 2013

Le banche, i ricorsi Ardo e la legge



E’ difficile coltivare un rapporto di simpatia nei confronti delle banche: innanzitutto perché fanno soldi con i soldi; poi perché te ne prestano a iosa ma solo se apponi venti firme che corrispondono a venti corde al collo; infine perché non finanziano le aziende che, con una linea di credito a volte giusto appena generosa, potrebbero salvarsi ma riempiono di denari i più indebitati e esposti, non certo per condivisione di sviluppo ma per non mettere a bilancio sofferenze e incagli che creerebbero problemi con la vigilanza della Banca d’Italia. Ma, nonostante questi fastidiosi effetti collaterali, le banche sono parte integrante del tessuto economico di un Paese e possono funzionare soltanto se producono reddito e profitto, ossia se il fare soldi attraverso l'impiego di soldi funziona a dovere e a regime. In questo senso, nonostante la particolarità dell’attività svolta, gli istituti di credito sono imprese come le altre che, dettaglio non esattamente secondario, danno lavoro a oltre trecentomila persone e possono farlo solo nelle misura in cui guadagnano. Le banche vivono quindi, come qualsiasi impresa, in un quadro di diritti da esercitare e di doveri da assolvere la cui cornice è stabilita da norme generali e da norme ad hoc. E tra i diritti che è loro facoltà esercitare c’è quello alla tutela dei propri crediti, specie quando questi sono di natura ipotecaria. Certo, rimane sempre scolpita nel nostro inconscio di persone normali, la frase di Bertolt Brecht sul cosa sia rapinare una banca a paragone del fondarla, ma con l’inconscio e con le viscere si fa poca strada e non si modifica la realtà. Il caso Ardo, con la sentenza del Tribunale di Ancona che ha accolto il ricorso di un gruppo di banche annullando la vendita alla JP Industries, ha riproposto con forza la questione del potere delle banche, perché lavoratori, sindacati e politici – a partire da alcuni parlamentari marchigiani come l’on. Emanuele Lodolini del PD – hanno commentato l’ordinanza del Tribunale senza entrare troppo nel merito ma soffermandosi prevalentemente sul “mandante”. In pratica è passato un preciso messaggio e cioè che il problema non era la violazione della norma relativa al computo dell’ormai celebre badwill, ma una sorta di illegittimità intrinseca dell’impugnazione, derivante dal fatto che a ricorrere al Tribunale fossero, appunto, le famigerate e diaboliche banche. Il problema posto da sindacati e politici è, quindi, quello della natura del ricorrente. Laicamente la cosa non esalta e non scandalizza, ma siccome viviamo ancora in uno stato di diritto – ossia bene o male governato da codici – è bene che eventuali eccezioni sulla natura del ricorrente trovino uno sbocco legislativo, oltre che declinazioni di facile consumo mediatico. E da questo punto di vista, Lodolini e gli altri parlamentari che denunciano lo strapotere delle banche capaci di convincere fino all'ultimo dei giudici, potrebbero farsi promotori di una proposta di legge che - in determinate circostanze, come ad esempio nel caso della vendita di grandi aziende in amministrazione controllata – riconosca e stabilisca uno statuto di inferiorità delle banche e, quindi, il primato delle ragioni di natura sociale e occupazionale su quelle di ordine creditorio. Questo tipo di iniziativa – che risulterebbe probabilmente pure a rischio di costituzionalità – avrebbe, quanto meno, il merito di dare concretezza politica a proteste simboliche che, di per sé, non cambiano di una virgola la realtà e che non incidono sui problemi occupazionali e di prospettiva economica su cui il “sistema Fabriano” è ormai quotidianamente chiamato a misurarsi.
    

25 settembre 2013

Le abili aritmetiche di casa Indesit



 
Milani sta applicando alla negoziazione dei tagli e degli esuberi in Indesit una personale ed efficace matematica, fondata sulla proprietà commutativa dell’addizione: cambiando l’ordine degli addendi la somma non cambia. Già, perché è la somma il vero focus decisionale del top manager, ossia il saldo finale invariato dei costi tagliati e delle efficienze conseguite. Milani, da questo punto di vista, ha un vantaggio situazionale rispetto alle organizzazioni sindacali e cioè una sostanziale indifferenza alle ragioni dei territori coinvolti e alle oscillazioni di consenso, anche politico, che si determinano. La mission professionale di un manager è, infatti, quella di migliorare la redditività degli investimenti e la remunerazione degli azionisti e non di agire secondo dettami e imperativi di natura morale e politica. Può non piacere agli idealisti e alle anime belle, ma si tratta di un realismo assolutamente necessario se si vogliono sostenere posizioni critiche rispetto alle scelte del vertice Indesit. Milani, con la sua proposta di rimodulazione più formale che di sostanza, del Piano di Salvaguardia, ha colto tempestivamente un’opportunità: rimescolare le carte della produzione quanto basta per alimentare un embrione di divisione tra i lavoratori di Fabriano e le maestranze di Teverola, scaricando sul sindacato l’onere di un inedito fronte di divisione orizzontale della forza lavoro. La risposta del sindacato, alla nuova fase “aritmetica” di Milani, è stata sostanzialmente negativa perché le modifiche del piano sono ritenute, e non a torto, insufficienti e di facciata. E non è di secondo piano che su questa linea, abbandonando una proverbiale neautralità, si sia attestato anche il Ministero dello Sviluppo Economico, per bocca del sottosegretario piddino De Vincenzi. C’è però un sostanziale problema di tenuta di uno schema paritario di confronto, perché opporre un rifiuto senza stabilire dove vada collocata l’asticella che separa l’ok dal niet, significa recitare la parte dei terminali passivi e far sì che a dare le carte e a fare il banco sia sempre l'azienda, che sulla base della proprietà commutativa dell’addizione può muoversi tra diverse alternative di scelta rilanciando senza difficoltà e sempre a parità di saldo. Per queste ragioni l’unica via di uscita, negozialmente creativa, sarebbe stata quella di un sindacato capace di mettere sul tavolo una proposta organica di ristrutturazione aziendale, incentrata non sul primato secco della redditività aziendale ma su una competitività compatibile con livelli occupazionali socialmente sostenibili e senza rischi di macelleria messicana. Per fare questo salto di qualità è improrogabile dare un’ impronta confederale – e non quindi territoriale e di categoria - al confronto con Indesitr, perché solo a quel livello è possibile disporre di competenze industriali e di ristrutturazione aziendale adeguate alla produzione di un piano alternativo di matrice davvero lavorista e sindacale. Quel che sfugge alla comprensione degli osservatori e dei cittadini è il perché di questa oggettiva latitanza della confederazioni rispetto a un negoziato che riguarda la sorte italiana di un’azienda come la Indesit, leader di un mercato che rappresenta, tuttora, uno degli anelli forti di un Made in Italy sicuramente indebolito dalla globalizzazione e dalla crisi ma ancora decisivo per il futuro della nazione.