25 febbraio 2018

Morte lenta a Marischio: il lungo tracollo della Tecnowind

La crisi della Tecnowind diventa di dominio pubblico nella prima metà di giugno del 2013.

Il periodo non è dei più adatti per dare alla notizia un rimbalzo mediatico adeguato, dato che l'opinione pubblica cittadina è concentrata - da qualche giorno e con un'apprensione mai conosciuta in precedenza - sui 1.425 esuberi annunciati da Indesit.

Il 12 giugno il Corriere Adriatico esce con un articolo in cui si sottolineano i paradossi di un'azienda con i fondamentali a posto ma funestata da una crisi di liquidità che non si risolve per via di vincoli esterni.

La condizione risolutiva è un mantra sindacale già sperimentato col caso Ardo: le banche che rifiutano di sbloccare le linee di credito - qualcosa come 27 milioni di euro - perché la crisi della Tecnowind è soltanto il riflesso del loro ingiustificato rigore che ha costretto l'azienda a richiedere il concordato preventivo con proseguimento di attività, ovvero trasformare i fornitori in banche.

La pressione aggressiva sulle banche pare funzionare, tanto che nel giro di due giorni, accompagnato da una manifestazione dei lavoratori, viene convocato in Comune un incontro tra l'allora Sindaco Sagramola, le sigle sindacali e gli istituti coinvolti nel debito dell'azienda. L'esito dell'incontro, almeno in apparenza, pare essere positivo tanto che il Carlino del 15 giugno si fa prendere la mano e titola: "Il blitz di Sagramola: le banche ridanno credito".

Nessuno, in quel frangente, prova ad andare oltre il giubilo momentaneo, tanto per capire se si tratti di una soluzione di prospettiva o di un pannicello caldo. I bilanci dell'azienda non dispensano fiducia e ottimismo: perdite di esercizio, oneri finanziari esorbitanti, redditività in caduta libera, ovvero un quadro generale che, senza scelte e interventi gestionali forti, avrebbe reso l'accordo con le banche soltanto un modo per guadagnare tempo e posticipare la deflagrazione della crisi.

Passano giusto due settimane, scandite da mille contraddizioni sull'accesso al Concordato e da una ripresa della produzione sistematicamente rimandata, e l'affaire Tecnowind torna prepotentemente sulla scena perché si scopre che, nonostante la situazione, l'azienda non aveva presentato al Tribunale tutta la documentazione necessaria per l'accesso al concordato preventivo che avrebbe attivato lo sblocco della liquidità. 

A mancare non è la fotocopia di un atto o una marca da bollo ma il Piano Industriale, ossia il documento di indirizzo strategico necessario per convincere il Tribunale che la concessione del Concordato avrà basi solide e di prospettiva. 

Ma per quale ragione il Piano Industriale non viene allegato alla documentazione? Semplicemente perché il Fondo proprietario della Tecnowind è in liquidazione.

Di colpo l'euforia dell'accordo in Municipio lascia nuovamente il campo al dilemma liquidità. In fondo il meccanismo è semplice: per produrre servono materie prime, per acquistare le materie prime serve denaro che non c'è. 

In queste condizioni se vuoi produrre le materie prime devi pagarle cash perché nessuno "regala credito" ad aziende strozzate, e quindi se disponi di circolante le compri altrimenti ti accontenti di una produzione incerta e a singhiozzo. Ma se produci senza costanza ti giochi il mercato, perché i clienti non aspettano e più di ogni altra cosa hanno bisogno di continuità e certezza negli approvvigionamenti di prodotto finito.

A questo punto, e siamo ai primi di luglio del 2013, rompe il silenzio il Presidente della Tecnowind Fosco Celi, che squaderna pubblicamente alcune questioni, a partire dall'ipotesi che l'azienda venga acquisita e salvata dall'imprenditore marchigiano Roberto Cardinali, rappresentante del Fondo Atlantis.

Fosco Celi non prende di petto i gravi deficit di gestione dell'azienda ma anzi si allinea al mantra sindacale della colpa bancaria e, alla fine dei giochi, piazza il colpo a effettoil Fondo Synergo, proprietario di Tecnowind, non è disposto a ricapitalizzare ma è pronto a vendere la sua quota al valore simbolico di un euro. 

Celi presenta questa volontà del Fondo come un presupposto non negoziabile. Il messaggio che arriva è devastante perché significa che Synergo è disposto a rinunciare a qualsiasi transazione significativa con un eventuale acquirente pur di uscire da Tecnowind. Di fatto si sancisce che l'azienda è priva di valore. Al punto da essere messa in vendita allo stesso prezzo di un cornetto Algida

Fosco Celi, in questo contesto, rivela ai giornalisti un elemento e cioè che l'azienda non solo non aveva inviato al Tribunale il Piano Industriale, ma che non si era neanche proceduto alla richiesta di Concordato: semplicemente perché l’assemblea dei soci avrebbe deliberato la richiesta al Tribunale soltanto in presenza di una proposta di acquisto comprensiva di due milioni e mezzo di euro di aumento di capitale, più dodici milioni di euro a storno di parte del debito di 27 milioni che Tecnowind aveva contratto con le banche

In un articolo del 4 luglio 2013, su questo blog, pongo alcune domande a cui nessuno risponde:con quali attività ordinarie e straordinarie si è giunti a una esposizione bancaria di 27 milioni di euro; quale sia il prezzo medio di vendita delle cappe Tecnowind rispetto a quello medio del settore; quale sia il margine operativo reale dell'azienda e quale il fatturato per dipendente, elemento fondamentale per comprendere la capacità di generare reddito d'impresa attraverso i livelli di produttività.

A metà luglio 2013 dopo innumerevoli pressioni e infiniti giri di valzer, il Fondo Synergo, azionista di maggioranza della Tecnowind con l'89% del capitale sociale, scioglie le riserve, annunciando la vendita del proprio pacchetto azionario: il 51% ai dirigenti dell'azienda e il 38% ai lavoratori. 

Si tratta di una vendita ponte che serve per aprire la strada a un nuovo "giro di quote" in direzione del vero acquirente, quel Roberto Cardinali da Osimo proposto e annunciato con le sembianze ieratiche di un Cristo Redentore sulla collina di Rio de Janeiro e chiamato, nel giro di un paio di mesi, a rilevare l'azienda e a presentare al Tribunale la richiesta di Concordato, poi accordata, accompagnata dalla formulazione di un nuovo Piano Industriale.

I contenuti del Piano Industriale sono resi noti i primi di ottobre del 2013sessantuno esuberi, incentivi all'esodo volontario, richiesta di un ulteriore anno di cassa integrazione straordinaria a rotazione, delocalizzazione produttiva in Romania del basso di gamma e sei milioni di investimenti a Fabriano per il periodo 2014-2016. 

Il Piano prevede un numero di esuberi pari a quasi al 20% della forza lavoro impiegata, come a dire di un'azienda sovradimensionata e con una produzione incapace di produrre i margini necessari ad alimentare un'adeguata generazione di valore. Il che consente di comprendere appieno quanto sia farlocco e fuorviante il tentativo politico e sindacale di raccontare un'azienda in salute, esclusivamente gravata dal peso di errori precedenti e di oneri finanziari cumulati da vecchie gestioni. 

Come spesso accade in queste circostanze tutti preferiscono mettere la testa sotto la sabbia. Al punto che il 14 dicembre 2013 la nuova proprietà organizza al Teatro Gentile un concerto per tutti i dipendenti, quasi il viatico musicale di un nuovo inizio fiducioso e condiviso. Una serata speciale che  spinge il Sindaco Sagramola a pronunciare parole di grande ottimismo: "Incredibile, sono passati solo pochi mesi dalle lotte e siamo qui a festeggiare.

La fiducia di fine anno sembra trovare conferma nel 2014, un anno di apparente ritorno alla normalità. Tanto che l'8 aprile del 2014 il Carlino pubblica un articolo in cui descrive le magnifiche sorti e progressive della nuova gestione: il Piano Industriale funziona, con 28 dipendenti che hanno accettato l'uscita volontaria dall'azienda e col resto degli esuberi riassorbito dall'acquisizione di nuove, decisive commesse.

La questione Tecnowind, di fatto, entra in modalità stand by, con la città convinta di aver chiuso bene e senza troppi danni una crisi potenzialmente esplosiva. In realtà i nodi strutturali restano intatti e l'azienda di Marischio, dopo un anno di low profile, torna ad allarmare la comunità; Esattamente nell'autunno del 2015 quando si profila una tangibile divaricazione di risultato tra i risultati ottenuti in Cina e Romania e quelli evidenziati dallo stabilimento fabrianese.

Questa forbice, che non si richiude ricorrendo semplicemente alla cassa integrazione straordinaria, nel giro di un anno metterà di nuovo al centro della scena l'ipotesi di un cambio di proprietà. Tanto che verso la fine di settembre 2016 si ricomincia a parlare di un acquirente straniero e di serrate trattative di vendita che sostanzialmente confermate anche dal fronte sindacale.

Nel frattempo la cassa integrazione a rotazione ricomincia a colpire duro, con circa 40 operai coinvolti ogni giorno, ma la notizia che deve rasserenare gli animi arriva il 19 ottobre 2016 quando il Corriere Adriatico parla esplicitamente di un'offerta vincolante di acquisto inoltrata da un Fondo statunitense di cui, però nessuno conosce l'identità, il profilo e le intenzioni.

Mentre la grancassa mediatica avvalora l'idea di una trattativa concreta e in itinere col Fondo americano, viene nominato un nuovo Consiglio di Amministrazione; una nomina che avviene mentre si intensificano i segnali di singhiozzo operativo, con i primi ritardi nel pagamento degli stipendi ai dipendenti e una politica degli ammortizzatori sociali che sostituisce la cassa integrazione in scadenza con i contratti di solidarietà, che scattano il 5 dicembre 2016.

Con il sopraggiungere del nuovo anno saltano lo stipendio di dicembre 2016 e il 50% della tredicesima e serviranno tre giorni di sciopero per ottenere il saldo delle retribuzioni sospese. Il fantomatico Fondo americano alla fine di gennaio esce di scena, dissolvendo le speranze che si erano  comunque focalizzate attorno a un'operazione caratterizzata da elevati livelli di confusione e di opacità.

Di fatto nel giro di un anno e mezzo vanno in fumo tre possibilità di vendita (forse Electrolux, un Fondo canadese e il Fondo americano) e i primi di marzo spunta all'orizzonte un nuovo Fondo europeo pronto all'acquisizione, che propone di acquistare la Tecnowind per un milione di euro, cifra ritenuta insufficiente dalla banche creditrici.

La pressione dei lavoratori, il coinvolgimento sempre più attivo del Ministero e delle istituzioni locali consentono a Tecnowind di accadere a un nuovo Concordato che salva una produzione temporanea ma non risolve la questione strategica di una liquidità che deve essere necessariamente di lungo periodo. 

Cedere l'azienda resta l'imperativo fondamentale e ancora nel mese di luglio 2017 il Mise rilancia, palando di almeno un paio di trattative finalizzate alla vendita di Tecnowind che però, come già accaduto, svaniscono senza lasciare traccia mentre si avvicina il 4 novembre, data di scadenza del secondo Concordato con i creditori.

Tra novembre e dicembre del 2017 la situazione precipita con gli acquirenti che quotidianamente appaiono e scompaiono, mentre gli stipendi sembrano diventati una variabile tra le tante e s profila la mobilità per 140 dipendenti, dato che la cassa integrazione andrà a chiudere il suo ciclo il 17 dicembre. 

Il 10 gennaio 2018 il licenziamento di 140 dipendenti viene congelato ma l'INPS boccia la cassa integrazione della seconda metà del mese di dicembre 2017. Sono segnali inequivocabili di un default che nessuno vuole vedere, anche se incombe come mai prima d'ora. 

Il 10 febbraio dalla Regione arriva la notizia che la cassa integrazione è confermata per altri sei mesi e sembra una boccata d'ossigeno che fa sparare ancora. In realtà è solo una giornata di bonaccia che annuncia la tempesta: dieci giorni dopo il Tribunale dichiara il fallimento della Tecnowind. 

Il 22 febbraio i lavoratori firmano il licenziamento collettivo e abbandonano simbolicamente le loro t-shirt aziendali avanti alla Fontana Sturinalto: non ci saranno più corpi a indossarle ed è il simbolismo brutale del lavoro perduto.

La storia di Tecnowind finisce: un'implosione prolungata, un lungo tracollo che poteva essere evitato se solo si fosse capito e detto quali fossero le condizioni dell'azienda già nell'estate del 2013. Servivano sicuramente denaro e acquirenti ma era fondamentale anche un po' di verità: invece è stato uno stillicidio di finzioni, di opacità, di cortine fumogene, di ombre cinesi e di illusioni dispensate senza scrupoli, senza sosta e senza senso.

Ai lavoratori della Tecnowind è stato reso difficile tutto, anche ritirare i propri effetti personali. Per farlo devono adattarsi a una procedura senza cuore perché anche il poco che resta rientra nel perimetro del fallimento. Dopo il danno arriva sempre la beffa.