Ma paradossalmente lo scandalo non è tanto la decisione, che ha davvero poco di sulfureo e di sorprendente, quanto il vedere inalberati i taciturni cronici, i fatalisti furbi e gli assuefatti accomodati e accomodanti: adesso "i bambini fanno ohhhh" ma la prolungata finzione industriale prima o poi doveva infrangersi di fronte alla dura legge dei fatti.
E allora proviamo a raccontarlo questo p percorso insincero, la favola bella di un rilancio evocato e mai declinato, affinché serva da monito per i cittadini ignari e da vaccino a chi ha fatto man forte alle gesta cerretesi di questo pezzo di industria fabrianese.
Ricostruire serve, anche se Porcarelli farà marcia indietro in cambio di qualche accordo compensativo. Del resto annunciare mobilità sorprendenti e massicce funziona sempre in questo Paese senza politica industriale, privo di visione e a corto di decenza.
Partiamo da lontano. E’ il 2007. La crisi della Antonio Merloni è sempre più scoperta: il vecchio gigante del terzismo ha i piedi
di argilla e cerca di riconvertirsi a una politica di marchio. Troppo
tardi. Le risorse scarseggiano e il settore è maturo. L’operazione non riesce.
In quell'anno il gruppo presenta un fatturato
consolidato di circa 850 milioni di euro, 10 siti produttivi e circa 5.000
dipendenti: la crisi c’è ed è profonda ma non prefigura quanto sta
per accadere.
Il 13 ottobre del 2008 la Antonio
Merloni Spa richiede l'ammissione alla procedura di amministrazione
straordinaria, dichiarando il proprio stato
d’insolvenza. Il giorno dopo il
Ministero dello Sviluppo Economico nomina
un collegio commissariale composto
da tre professionisti.
Di fatto la Antonio Merloni è tecnicamente fallita ma
si finge sia ancora operativa per tenere in piedi, fittiziamente, l’impalcatura
barcollante della Legge Marzano e
aprire la strada agli ammortizzatori sociali lunghi.
I Commissari lavorano
alacremente allo spezzatino: vendono
le controllate più appetibili e
remunerative, ma il vero problema è trovare un acquirente per il corpaccione
obsoleto della Ardo.
Si percorre la strada del
bando internazionale di vendita. Manifestano
il proprio interesse due multinazionali,
una cinese e una iraniana. Quella cinese “dimentica” di
versare la cauzione di due milioni di
euro necessaria a partecipare al bando; quella iraniana presenta un Piano Industriale senza risorse a supporto e chiede allo
Stato italiano di finanziarlo a fondo perduto.
La
situazione è drammatica ma chiara e configura un bivio: o si trova un
acquirente o si va al fallimento e arrivederci agli ammortizzatori sociali
lunghi.
Il 27 dicembre 2011, dopo tre anni di amministrazione straordinaria,
la Ardo viene svenduta a Porcarelli
per circa 13 milioni di euro, di cui 10
cash più 3 di crediti precedentemente vantati. Una piccola azienda acquisisce una realtà industriale che, seppur
tecnicamente fallita, è venti volte più grande. C'è già di che preoccuparsi.
L’accordo prevede
l’assorbimento, da parte della JP
Industries, di 700 lavoratori su 2.300 e quattro anni di cassa integrazione
straordinaria a rotazione per ristrutturazione. Non proprio un segnale di salute. Inoltre Porcarelli
porta a casa circa 200 mila metri quadri
di capannoni a prezzo assolutamente vantaggioso. Il gioco forse vale la candela.
Domanda: si
tratta di un’operazione di rilancio industriale sostenibile o è una finzione
necessaria per garantire l’erogazione degli ammortizzatori sociali lunghi nel
territorio fabrianese?
In questo quadro c’è da
considerare un dettaglio non di poco conto e cioè che le banche creditrici perdono, in solido, con questa operazione circa
187 milioni di euro di crediti,
divenuti in pochi istanti vera e propria carta da culo.
Siccome non si tratta di
bruscolini fanno la cosa più naturale al mondo: un ricorso al Tribunale per tutelare i propri legittimi interessi di
creditori. Il Tribunale verso la
fine di luglio del 2012 decide di nominare un perito per verificare se la vendita della Ardo sia stata gestita al ribasso e capire se sia avvenuta con l'azienda in funzionamento o in stato di blocco totale della
produzione, perché ciò doveva comportare una diversa valutazione dei valori di
vendita.
Qualche mese prima, l’11 marzo del 2012 Porcarelli aveva
rilasciato un’intervista baldanzosa al Messaggero,
firmata da Claudio Curti, in cui si
era lasciato andare a previsioni rassicuranti ed ottimistiche sul successo
della JP, sulle prospettive dell’occupazione, sul rilancio del territorio e
sulla volontà di produrre elettrodomestici d'alta gamma, anzi "di
sartoria"; una di quelle interviste
che tranquillizzano i cittadini e abbassano il livello di attenzione e di
vigilanza delle organizzazioni sindacali.
Qualche mese dopo arriva il primo colpo di scena che contraddice ogni rassicurazione. Il 6 novembre del 2012, Porcarelli
vende alcuni macchinari per lo stampaggio della plastica degli stabilimenti del
Maragone e di Santa Maria senza avvisare i sindacati (una radicata abitudine
si potrebbe dire col senno di poi!).
Gli operai la prendono male
e rispondono con un presidio di protesta che blocca i tir. I sindacati s'indignano per non essere stati avvisati ma Porcarelli li convoca per comunicazioni urgenti. Il risultato
dell’incontro sarà una rinnovata sintonia tra le parti, confermata dai
contenuti del verbale divulgati dalla stampa.
Un verbale in cui il sindacato prende atto della versione ufficiale
dell'azienda sulle motivazioni della vendita non comunicata; accetta future cessioni di
macchinari non funzionali previa consultazione e condivisione della scelta;
plaude a una generica conferma della dimensione degli investimenti da
realizzare e afferma con orgoglio di aver ottenuto l'utilizzo aziendale del
ricavato della vendita dei macchinari.
A conferma del clima
positivo tra sindacati e Porcarelli il 18
dicembre del 2012 arriva a Fabriano
l’allora responsabile nazionale della FIOM del settore elettrodomestici Evaristo Agnelli a sostenere che, nel
primo anno, JP Industries ha garantito un buon volume di investimenti e di
produzione. Aggiungiamo noi: nonostante la cassa integrazione fosse la cifra
dominante di quel periodo.
Da questo momento su JP cala l’ombra lunga del silenzio e,
a partire dai primi di giugno, l’attenzione dell’opinione pubblica, dei media e
delle organizzazioni sindacali si concentra interamente attorno alla vertenza Indesit che andrà avanti,
ininterrottamente, fino agli ultimi giorni dell’anno.
Il 2 luglio 2013 il perito nominato dal Tribunale deposita la sua
perizia relativa alla vendita della Ardo a JP Industries. In essa si sostiene che
la vendita è stata sottostimata di
almeno quattro volte il valore effettivo.
Il 19 settembre 2013 il Tribunale di Ancona dispone la revoca della vendita della Ardo alla JP
Industries accogliendo il ricorso delle banche e le valutazioni del perito
che aveva accertato un valore di vendita della Antonio Merloni al gruppo
Porcarelli sottostimato di molto rispetto a quanto effettivamente sborsato per
l’acquisizione.
Secondo il giudice Edi Ragaglia la definizione del valore
del cosiddetto "perimetro della cessione" del ramo d'azienda a JP, era
stato valutato considerando uno "sconto" legato a una previsione di redditività
negativa (badwill) estesa a un arco
temporale di quattro anni, quando la normativa relativa alla cessione di
aziende in amministrazione straordinaria prevedeva un badwill di due anni, a vantaggio non solo dei
creditori ma del principio della tutela del patrimonio dell'azienda insolvente.
Il ricalcolo del valore,
seguendo la norma dei due anni di badwill, si sarebbe dovuto attestare - secondo
la perizia realizzata dal consulente nominato dal Tribunale - intorno ai 54 milioni di euro.
Il pronunciamento del Tribunale di Ancona diventa l’occasione
per una saldatura di relazioni e per una nuova
narrazione manichea: da un lato l'assioma di un complotto che ha per
protagonisti un pool di banche rapaci
e tre giudici cattivi; dall’altro l’asse del bene ovvero Porcarelli, i
sindacati e il centrosinistra.
Ovviamente a nessuno salta
in mente di chiedere come possa un'azienda con un valore patrimoniale di circa 30 milioni di euro, farsi carico di
un'acquisizione così smisurata e onerosa, o perché mai la produzione procedesse
sempre a singhiozzo e senza un adeguato riassorbimento di manodopera, chiamata
a lavorare una tantum nel
quadro di un massiccio e sistematico ricorso alla cassa integrazione.
Altrettanto ovviamente
nessuno fa domande su quel Piano Industriale evocato nella famosa intervista al
Messaggero. Eppure oggi c’è chi dice di
averne chiesto conto a tempo debito, ma forse intendeva dire a babbo morto. Non ce ne
eravamo accorti.
La tesi prevalente viene
sbandierata ai quattro venti: il pronunciamento del Tribunale è un colpo al Piano Industriale della JP. Il problema
è che qualcosa è accaduta il 7 agosto
del 2013, alla Camera dei Deputati.
Il protagonista, però, non è
il deputato del PD Emanuele Lodolini - che da ieri sta ricordando a tutti di essere
stato tra i pochi ad aver battuto sul Piano Industriale – ma la deputata
perugina del Movimento 5 Stelle Tiziana Ciprini.
A Montecitorio si sta
svolgendo un question-time in Commissione
Lavoro e l’allora Sottosegretario allo Sviluppo Economico Carlo Dell’Aringa risponde a
un’interrogazione presentata dalla Ciprini, in merito ai provvedimenti da adottare a tutela dei
lavoratori coinvolti nel caso Ardo - JP.
Il sottosegretario, con
risposta scritta, affronta le diverse questioni poste dalla deputata e in un
passaggio fa riferimento a una riunione
tenutasi l’8 luglio 2013 presso il Ministero dello Sviluppo Economico.
Riporto
testualmente le parole di Dell’Aringa:
“Lo scorso 8 luglio la società cessionaria J.P. Industries e le
organizzazioni sindacali hanno sottoscritto, presso i competenti uffici del
Ministero del lavoro, un accordo per la definizione di un nuovo programma di
ristrutturazione. In particolare, la società ha confermato l'intento di
perseguire il proprio progetto industriale e mantenere gli impegni assunti
operando tuttavia un ridimensionamento
del programma in funzione del contenimento dei volumi di attività causato del
venir meno delle risorse esterne cui aveva fatto affidamento”.
Tradotto
significa che JP non è in grado di
sostenere il Piano Industriale presentato in sede di acquisizione. E questa
impossibilità viene riconosciuta e ratificata dal Ministero col sostegno e il
consenso del sindacato.
Ma a Fabriano non se ne sa nulla perché nessuno
riporta questa notizia. Ho ripreso i quotidiani locali di quei
giorni ma non sono riuscito a trovare alcun riferimento agli esiti della
riunione romana tenutasi presso il Ministero.
Col senno di poi ciò vuol dire che oltre alla nullità
dell’atto di compravendita, sussisteva pure un problema di tenuta strutturale del
Piano Industriale.
Il 23 settembre del 2013 si tiene
un’assemblea al parcheggione di Santa Maria. Poi in corteo in direzione Municipio,
per concordare col Sindaco difficili linee di difesa e improbabili azioni di
contrattacco. La sceneggiatura che emerge è una raffigurazione plastica di come
si condensa il senso comune ai tempi della crisi: maestranze con lo scalpo del giudice Ragaglia in mano e promesse
altisonanti di azioni da intentare contro le banche, rapinatrici e ree d'ogni
malignità terrena e celeste.
Il 3 ottobre del 2013, a Fabriano, un
corteo di lavoratori sfila da Viale Moccia fino alla sede della Banca
Toscana di Viale Zonghi: obiettivo colpire le banche che stanno
complicando il rilancio della JP. Ovviamente neanche un cenno a un'azione
stringente per pretendere da JP Industries un Piano Industriale coerente con il
peso di quell'acquisizione. Non sia mai che venga fuori la storia del
ridimensionamento chiarita in question time da Dell’Aringa!
Nel frattempo sia Porcarelli che i Commissari nominati dal Mise avevano
presentato ricorso rispetto
all’ordinanza del Tribunale di Ancona. L’8
gennaio del 2014 si tiene una manifestazione unitaria delle sigle sindacali
che, con una carovana lenta di auto, raggiungono il capoluogo dorico dove si
tiene la prima udienza relativa al ricorso.
La saldatura tra
sindacati e Porcarelli è sempre più solida ma ancora una volta mancano le
domande cruciali: la Jp sta davvero producendo valore? E se sì quanto? Qual è
il livello di redditivà del capitale investito? Quante persone a tempo pieno
sono state occupate? Quante ore di produzione sono state registrate? Quali
prospettive di sviluppo è possibile prevedere? Si intende proseguire con un
massiccio ricorso alla cassa integrazione o ci sono spazi per una crescita
produttiva autonoma dal ricorso agli ammortizzatori sociali?
In questa fase inizia a intervenire pesantemente la politica. I governatori di
Marche ed Umbria, Spacca e Marini, inviano un sollecito congiunto
al Presidente del Consiglio Letta
con il quale richiedono al Governo di intervenire, in via legislativa, per
fornire una corretta interpretazione della legge Marzano.
Un intervento
governativo che aveva già preso forma col Decreto Legge "Terra dei fuochi" n°136 del 10 dicembre 2013,
in cui viene inserito un paragrafo (art.9, comma 1) totalmente estraneo alla
materia rifiuti e finalizzato a garantire la continuità produttiva della JP, normando una sorta di diritto a
ignorare la sentenza d'annullamento della vendita sancita da un Tribunale della
Repubblica.
Nel frattempo la ricerca di interventi
legislativi, finalizzati a manomettere la sentenza del Tribunale di Ancona che
ha annullato la vendita di Ardo a Jp Industries, prosegue indefessamente.
Verso la fine di gennaio del 2014 tre
parlamentari del Pd – tra i quali il parlamentare falconarese Emanuele
Lodolini - propongono un emendamento
al Decreto Destinazione Italia per
togliere dalla normativa che regola le procedure di amministrazione
straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza qualsiasi riferimento al prezzo di vendita
delle aziende in esercizio.
Nonostante gli interventi a gamba tesa
di una politica interessata unicamente al ribaltamento del pronunciamento del
giudici Ragaglia, negli ultimissimi giorni di aprile del 2014 il Tribunale
del Riesame conferma l’annullamento della vendita di Ardo a JP.
I sindacati invece di riflettere riaprono subito il tiro contro le banche
anche se conoscono bene l’origine del male: la vendita di Ardo a JP è una
storia sbagliata, un’operazione concepita male che ha ceduto progressivamente
per debolezza interna e di visione e non per un complotto delle banche e della
magistratura.
I primi di maggio del 2014 il fronte
porcarelliano – sindacati, sindaci, Regione, parlamentari del PD – si
arricchisce di nuovi adepti. Il Presidente
di Confindustria Ancona Schiavoni sposa il punto di vista dell’imprenditore
cerretano: definisce scandaloso che a distanza di tre anni venga contraddetta
una decisione assunta attraverso una procedura di amministrazione controllata e
chiama in causa il rapporto controverso e irrisolto tra industria e giustizia
amministrativa, come se la sentenza del
Tribunale del Riesame configurasse un'azione vessatoria nei confronti del
fare impresa.
Insomma tutti concentrati sulla sentenza
del Riesame, su come arrivare in Cassazione. Tutti presi a colpire le banche e
i giudici. Nessuno a chiedere conto di
qualche numero. Eppure ce ne erano di cose da chiedere ma quasi nessuno
ebbe l’ardire di fare domande.
Qualcosa si poteva chiedere. Ad esempio
il numero dei lavoratori stabilmente
utilizzati nella produzione, il Piano ne
prevedeva 250 nel 2012, 400 nel 2013, 550 nel 2014 e 700 nel 2015.
Qualcosa si poteva chiedere anche sul
versante degli investimenti: il
Piano prevedeva un ammontare complessivo di 26 milioni di euro, di cui 14 milioni nel primo biennio e 12 nel
secondo.
Infine qualcosa si poteva chiedere anche
sul fatturato. Il Piano prevedeva un
fatturato di 40 milioni di euro nel 2012
fino a giungere ai 130 milioni di euro del 2015. Forse qualcuno ha
domandato. Ma senza farsi sentire da nessuno. A voce bassa. Con tono da
confessionale.
Il 18 giugno del 2014 arriva a Fabriano il Ministro del Lavoro Poletti.
Fiom, Fim e Uilm di Marche ed Umbria
gli consegnano una nota congiunta. Chiedono al Governo di farsi carico della situazione di stallo che si è creata attorno a
JP Industries convocando un tavolo ministeriale che eviti di far saltare
l’attività industriale (quale?).
Qualche giorno prima e
precisamente l’8 giugno Sergio Rizzo
– autore del best seller “La Casta” – interviene sul caso Porcarelli con un
articolo sul Corriere della Sera.
Scrive Rizzo: “I commissari devono verificare per
prima cosa se le imprese sono risanabili, cercando di preservare la continuità
aziendale. In caso contrario, si vende per pagare i creditori. Ed è qui che
possono accadere cose a dir poco curiose, come nella vicenda assolutamente
emblematica della marchigiana Antonio Merloni. Valutata dai periti del
tribunale 50 milioni, un bel giorno la fabbrica viene venduta a 10 milioni:
applicando alla cifra stabilita dalla perizia un badwill, cioè il valore
negativo corrispondente al costo del personale che l’acquirente si impegna a
non licenziare per almeno due anni. Ma i creditori fanno ricorso e il tribunale
di Ancona gli dà ragione. A quel punto sbuca in Parlamento qualche mese fa un
emendamento al decreto Destinazione Italia con il quale si stabilisce che il
valore fissato dalla perizia, nei casi di vendita commissariale, è solo
“orientativo” e non tassativo. E chi lo firma? Il deputato democratico Paolo
Petrini, marchigiano di Porto San Giorgio ed eletto nelle Marche. Anche se non
basta: perché nonostante quella legge «ad fabricam» i giudici d’Appello
confermano l’annullamento del contratto.”
I primi di agosto del 2014 prende forma un’altra
delle grandi narrazioni che hanno scandito questi anni di Ardo e di JP: la tiritera un accordo tra le banche e la JP
Industries, con la benedizione del Mise per evitare il pronunciamento
della Cassazione. Obiettivo: far ripartire la produzione della JP, sbloccare le
linee di credito e trovare un accordo di transazione tra le parti. Si va avanti
per più di anno a parlare di accordi e transazioni ma non se ne fa nulla.
Alla fine di novembre del 2015 la Cassazione chiude definitivamente il
contenzioso aperto con gli istituti di credito e dà ragione a Porcarelli
ribaltando i due precedenti pronunciamenti del Tribunale.
Da quel giorno la JP
non ha più alibi ma la cassa integrazione prosegue e la produzione langue.
L’azienda è letteralmente sparita dal dibattito pubblico e dall’attenzione dei
media.
E’ ritornata sulla
scena ieri con l’annuncio di 400 persone
in mobilità. Chi ha avuto la pazienza di leggere questa cronistoria –
ovviamente parziale e incompleta – si renderà conto che quel che è accaduto
ieri era scritto nell’ordine delle cose: cinque anni senza strategia, senza
Piano Industriale, senza produzione. Cinque anni di finzioni in cui si è visto di tutto tranne
che un filo di operatività e di industria.
L’importante era tenere
in piedi l’impalcatura degli ammortizzatori sociali lunghi. Il resto era contorno e corollario. Su questo l'accordo era generale ed è stata combattuta una guerra in cui tutti erano schierati dalla parte
di Porcarelli che oggi non può diventare l’unico capro espiatorio e l'uomo nero della situazione.
Non era solo e non ha agito da solo. E se lo ha fatto sapeva di poter godere di sostegni, incoraggiamenti e alleanze. Per questo porterà tutti a fondo con lui.
Non era solo e non ha agito da solo. E se lo ha fatto sapeva di poter godere di sostegni, incoraggiamenti e alleanze. Per questo porterà tutti a fondo con lui.