Vittorio Merloni con Luciano Lama |
Non sono mai stato un merloniano. Non ho mai subito il fascino e l'allure del "Dottor Vittorio" come lo chiamavano gli ammiratori più zelanti, ricorrendo a una formula confidenziale retorica e stucchevole. Non avrei mai indossato un t-shirt col suo volto stampato e la scritta "uno di noi". Vengo da un'altra storia, da un'altra tradizione e da un'altra cultura e sarebbe ipocrita, oltre che intellettualmente poco onesto, trasformare il cordoglio in adesione postuma.
Eppure, come tutti i fabrianesi, ho la netta sensazione che con la scomparsa di Vittorio Merloni si chiuda un'epoca nonostante fosse il meno fabrianese della famiglia e il più estraneo al perimetro stretto dei riti locali: quella prodiana del "piccolo è bello", di un capitalismo familiare che ce la fa e decolla, di una storia industriale nata tra quattro cantoni ma capace di spingersi fino a una dimensione globale, di una comunità che si emancipa da uno spazio impervio e da un destino marginale, di un distretto che affascina i sociologi e li riempie di stupore di fronte all'epica del metalmezzadro, il soggetto anfibio prestato alla modernità e fedele alla tradizione.
Come dicevamo Vittorio Merloni era il più
giovane e il meno autoctono dei quattro fratelli della seconda generazione; il
più proiettato all’esterno, il cosmopolita inserito in quel vertice di
relazioni sindacali e industriali in cui, nei primi anni ’80, si prendevano le
grandi decisioni economico-sociali e di sistema, l'innovatore incuriosito dalle potenzialità del rapporto tra elettrodomestici e tecnologia informatica.
In linea con questa inclinazione
imprenditoriale – che era anche suddivisione complementare e familiare di ruoli – Vittorio Merloni fece della Merloni Elettrodomestici un’azienda originale e diversa rispetto all’impronta più fordista e tradizionale data alle proprie
attività dai fratelli Antonio e Francesco; una realtà industriale moderna e
attrattiva, una vetrina produttiva legata alle politiche di brand e capace di affermarsi dimensionalmente grazie ad acquisizioni
e a operazioni geopolitiche come l’apertura del mercato
russo già in epoca sovietica.
Il risultato di questo modus operandi fu che la
Indesit divenne la “multinazionale tascabile” di cui si è tanto parlato: troppo
grande per evitare uno scontro perdente coi player più importanti e troppo piccola per competere da sola in un mercato condizionato
da gruppi di enormi dimensioni e smisurate risorse.
Di questa condizione transitoria e anomala Vittorio Merloni aveva intuito il
rischio ma ha affrontato il cambiamento di scenario che s stava profilando senza preparare il necessario ricambio
generazionale, forse perché convinto che sarebbe stata sufficiente la sua
vision per organizzare una risposta efficace rispetto a rivolgimenti profondi e di sistema.
Quella di Vittorio Merloni è
stata, quindi, una storia imprenditoriale di successo a termine, tutta inscritta in una dimensione
industriale, produttiva e geopolitica che è quella del secolo scorso, coi suoi mercati stabili e le sue dinamiche competitive lente e gestibili. Il consuntivo
storico della sua vicenda terrena è una grande azienda che non
c’è più, sparita di scena a distanza di pochi anni dal passo indietro obbligato del suo
deus ex machina e fusa per
incorporazione in un gruppo più grande e capace di competere.
Secondo lo storico francese
Francoise Furet per misurare il valore di un’esperienza occorre osservare il
modo in cui quell’esperienza si esprime nella propria fase di declino. E di certo Indesit si era talmente identificata con il tessuto e l'orizzonte di un'idea di capitalismo e di comunità che la sua fine poco gloriosa e repentina ha costituito un motivo di sorprendente contrasto con il suo lungo processo di crescita e di sviluppo.
Sarebbe andata diversamente se
Vittorio Merloni avesse potuto continuare la sua opera? Non possiamo saperlo,
ma abbiamo qualche buona ragione per dubitarne perché anche gli uomini più ispirati
devono fare i conti con il peso dei vincoli, delle turbolenze e gli scenari che cambiano.
XXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXX
Una t-shirt con stampata la foto di
Vittorio Merloni e la scritta “ci manchi”. Il 28 giugno del 2013 diversi lavoratori coinvolti nella vertenza Indesit si presentano con una maglietta
dedicata a lui ai cancelli di Melano e Albacina, per dare il cambio ai colleghi che
avevano partecipato ai presidi notturni.
Credo sia questa la sintesi più esauriente del rapporto tra Fabriano e Vittorio Merloni: i lavoratori della
Indesit che scelgono come emblema della loro vertenza il proprietario
dell’azienda contro la quale stanno conducendo la lotta.
Una scelta sicuramente poco ortodossa ma comprensibile perchè Vittorio Merloni ha dato spessore e finezza al mito della città-stato fondata sull’Oblò, incarnando il volto elegante e spendibile del merlonismo, inteso non solo come
modello di industrializzazione senza conflitto sociale ma come prassi di controllo pervasivo e totale della comunità, una sorta di deformazione scandinava "dalla culla alla tomba" che
ha dato alla città una lunga fase di ricchezza senza cultura, un presente di
benessere con innestato il dispositivo dell’autodistruzione e della desertificazione
di cui oggi vediamo i segni, le rughe e le macerie.
Il cordoglio di questi giorni e
di queste ore è, quindi, comprensibile e umano; è l’omaggio della città ai suoi
anni perduti, al suo antico lignaggio economico e ai tempi in cui tutti vissero felici e contenti. Vittorio Merloni non era “uno di
noi” ma sembrava lo fosse perché Fabriano ha sempre guardato a Menenio Agrippa, ai patrizi
e plebei uniti da un destino comune, all'idea dannatamente retrive di un'azienda che si
fa guscio, rifugio e famiglia.
La verità, come sempre accade, corre
anche su altri binari e si arricchisce di luoghi meno comuni e più feroci: l’intero ciclo merloniano, che si chiude
simbolicamente con la scomparsa di Vittorio Merloni, é stato scandito e dalla più
naturale delle logiche d’impresa, il tornaconto economico.
Se Fabriano è diventata una
company town non è stato per amore ma per profitto e per calcolo, perchè il capitale non va dove lo porta il cuore ma dove ci sono le condizioni migliori per la sua remunerazione. Le condizioni vantaggiose che spingevano Vittorio Merloni e i suoi fratelli a restare nel territorio, con il tempo, sono diventati i nodi gordiani di un modello industriale che conteneva alcuni degli elementi del suo declino: bassi
salari che si moltiplicavano nelle famiglie generando cumulativamente
remunerazioni borghesi; un paternalismo fondato su rapporti di lavoro diretti e senza
mediazione sindacale; un esercito di capi e capetti, elevati al rango di
pretoriani, selezionati in base a fedeltà e obbedienza e spinti ad agire col
fare occhiuto del fattore nel podere; il rifiuto di qualsiasi diversificazione
che potesse diluire il rischio del monoprodotto e spingere verso l'alto la dinamica
retributiva; la progressiva merlonizzazione della
politica, con una classe dirigente concepita come
estensione e protesi del contesto merloniano.
E tutto intorno un consenso
larghissimo ed entusiasta: lo sguardo appenato verso chi non "non faceva domanda da Merlò", i conti grassi alla Carifac, la casa a
Torrette o a Marotta, il velato compiacimento nel dire che la Famiglia di certo non
tollerava svaghi, divertimenti e cazzeggio però, grazie al cielo, manco puttane, scansafatiche
e delinquenti.
In realtà ciò che per i Merloni era remunerazione del capitale per i fabrianesi era sogno e dimensione onirica. Una convergenza di interessi che impediva di riconoscere e comprendere il rovescio della medaglia e cioè che quelle
industrie erano insediate qui perché il gioco valeva la candela e i benefici
del radicamento superavano ampiamente i costi della permanenza. Non aver compreso queste dinamiche ha
impedito di vedere che quel sistema conteneva un gigantesco rischio
prospettico.
La città che piange Vittorio Merloni e che, giustamente, ne ricorda le opere non può limitarsi a un'apologia nostalgica, evitando una lettura critica degli ultimi decenni, perchè riconoscere la verità storica di un modello industriale - con i suoi momenti di gloria e i suoi limiti strutturali - rende più nitida e puntuale la memoria, aiuta a fare del
lutto un'esperienza di crescita e a capire che stavolta nessun "piccolo padre" ci farà riveder le stelle.
Che la terra gli sia lieve.
Chi non ha fatto domanda da Merlo' forse ora sta bene.
RispondiEliminacapolavoro!
RispondiEliminaStrepitoso articolo, un'analisi incredibilmente lucida, intelligente e critica. Conoscere Fabriano come pochi. Scriverne meglio di tutti.
RispondiEliminaNegli ultimi tempi hai alzato il livello dei tuoi interventi. Abbiamo bisogno di queste letture generali. Sei un punto di riferimento per un sacco di gente. Te lo dico da dentro la fabbrica.
RispondiEliminaC'e rimasto solo Casoli di vero imprenditore , speriamo resti qui.
RispondiEliminaBeh, a sentir chi ci lavora vicino sembra che il ritorno in azienda dopo l'esperienza politica stia portando qualche problema di tipo organizzativo. Mi spiego meglio: Casoli dovrebbe limitarsi a dare la vision e determinare la mission aziendale ... è molto bravo a fare questo ... ha giuste ambizioni ed è un grande motivatore ... ma dovrebbe lasciare la gestione operativa dell'azienda ai manager senza entrare nei dettagli ... altrimenti diventa un altro Antò ...
EliminaAh ah ah ah ah
EliminaConcordo ..analisi precisa e completa
RispondiEliminaContinua ad esternare i tuoi pensieri
Ti seguo sempre
Complimenti, un'analisi molto profonda e lucida; speriamo serva di stimolo per iniziare una generale riflessione collettiva che investa non solo l'aspetto industriale economico ma anche quello politico e sociale ad esso strettamente collegato.
EliminaDa non fabrianese....é con profondo piacere che l intelletto sta abbattendo l omertà merloniana.
RispondiEliminaForse tra una generazione forse mia figlia potrà cambiare Favrià e il favriané!
Ce ne vorranno 4 o 5 di generazioni
EliminaBravo Simonetti è un articolo che archivia il passato con rispetto.
RispondiEliminaVi ringrazio per le belle cose che mi avete scritto ma il problema assillante è come ricostruire la nostra comunità su nuove basi. Dovremo scervellarci tutti senza primogenitura e con grande umiltà. Ci sono grandi e piccoli imprenditori che possono fare molto.
RispondiEliminaVi ringrazio per le belle cose che mi avete scritto ma il problema assillante è come ricostruire la nostra comunità su nuove basi. Dovremo scervellarci tutti senza primogenitura e con grande umiltà. Ci sono grandi e piccoli imprenditori che possono fare molto.
RispondiEliminaIl tuo articolo è linkato dappertutto! Hai interpretato i sentimenti di tantissime persone. Non ti conosco di persona ma ti ringrazio. Antonio
RispondiEliminaBravo. Una visione diversa e meno ossequiosa di quanto leggiamo sulle principali testate giornalistiche . È stato cunomunque un grande imprenditore
RispondiEliminaE' proprio vero che non c'è niente di meglio di uno che critica lealmente. Ho apprezzato tantissimo questo articolo
RispondiEliminaQuesto articolo sta facendo il giro del web...lo trovo condiviso ovunque!
RispondiEliminaColgo l'occasione per ringraziare i 155 lettori che hanno condiviso il post è i 3.500 lettori di queste poche ore. Credo di aver interpretato un sentimento comune e ne sono felice come fabrianese rme come commentatore.
RispondiEliminaSimonetti te sei un personaggio particolare ma sei una risorsa di questa città. È ora che se lo mettano in testa
RispondiEliminaSimonetti te sei un personaggio particolare ma sei una risorsa di questa città. È ora che se lo mettano in testa
RispondiEliminaQuello quello che mi sfugge dell'"antimerlonismo", se così possiamo definirlo, è il dare la colpa ai Merloni della diffusione di benessere senza cultura e la tendenza al mono prodotto. Esse sono state a mio modo di vedere frutto della sazietà di generazioni che non hanno colto il rischio futuro. Di questo però non se ne può dare la colpa ai Merloni che hanno sviluppato i relativi business nei propri interessi (come è giusto che sia aggiungerei)ma che non erano in alcun modo moralmente tenuti a fornire alternative al loro modello. Stava ai fabrianesi semmai diversificare; ma si sa: quando tutto sembra andar bene per tutti è più difficile fare stecca sul coro e prendere una strada differente.
RispondiEliminaIo non do colpe di niente a nessuno. I fabrianesi hanno fatto la loro parte ma non dimentichiamo che i Merloni hanno dominato la città economicamente, socialmente e politicamente. Se li valutiamo solo come dinastia industriale limitiamo il campo visivo. La loro è stata una Signoria. Riconoscerne i tratti storici non vuol dire puntare il dito contro qualcuono
EliminaSperiamo che sta città si riprende
RispondiEliminaTi manca il dono della sintesi, Caro Simonetti. Personalmente penso che sia stato un grande uomo ed un imprenditore impareggiabile.
RispondiEliminaCondivido pienamente! Non sempre d'accordo con lui, ma sicuramente era un fabrianese capace, di rare e nobili qualità.
EliminaChi è industriale, nei beni di largo consumo, può diventere ricco solo distribuendo molta più ricchezza.
Anche ammettendo una dominazione merloniana, questa ha avuto il suo picco alla fine degli anni 80. Negli anni seguenti è continuata la dominazione da parte di altri attori. Bisognerebben nominarli tutti nello stesso post, ma come ospite in questo blog, non mi permetto tanto...
Che dire di quelli che riescono a rispettare due giorni di silenzio elettorale e non sono altrettanto osservanti, con due giorni di lutto.
Certa gente forse venderebbe la madre, per 10 lettori e 2 condivisioni in più...
Ti riferisci ai grilletti?
EliminaChe ci vuoi fare. C'è chi spiega e che pontifica. Il pontificare ha bisogno di sintesi e su questo sei sicuramente più bravo di me
RispondiEliminaGuardate cosa ha fatto questo signore, classe 1920, che vanta una fabbrichetta che fattura 900 milioni di euro, www.fondazionegolinelli.it ... ci fanno credere che Fabriano è la città del fare ... ho sempre avuto l'impressione che sia la città del farsi i ..... propri, purtroppo. E non me ne vogliano quei pochi che con onestà intellettuale si sono e si impegnano ancora. E fra questi ultimi è giusto inserire anche i Merloni, perché è troppo facile buttare il bambino con l'acqua sporca e sputare sul piatto dove si è mangiati. Perché nel bene e nel male, anche chi non ha lavorato direttamente per loro, ne ha guadagnato da loro. Solo i giovani potranno rifondare questa città malata, ben sapendo che potrà essere una cittadina a misura dei suoi 30 mila abitanti. Il guaio è che i vecchi soloni ancora non vogliono mollare la presa.
RispondiElimina