Il potere dei Merloni è stato una cosa seria. Non solo perchè ha creato un modello produttivo e un'antropologia funzionale ai bisogni di stabilizzazione territoriale e sociale dell'industrializzazione senza fratture, ma anche perchè ha generato una stratificazione sociale compensativa rispetto ai limiti di mentalità dei fabrianesi.
La struttura sociale alimentata dal merlonismo è stata tipicamente piramidale: al vertice la Famiglia e poi, a scendere, i dirigenti e i quadri aziendali più prossimi, una schiera di liberi professionisti subalterni per cultura e portafogli, alcuni pezzi della classe dirigente democristiana - spesso decentrata dalle aziende di famiglia -, e infine i mitici capi e capetti formati e rodati, a ridosso delle linee di montaggio, al controllo produttivo e sociale.
Per concludere, alla base della piramide trovava spazio un ampio ceto operaio - nel caso fabrianese è inutilizzabile un approccio classista al ruolo dei colletti blu - naturalmente docile e "lavorato" fino a costituire una massa passiva di consenso sociale e politico.
Questo schema gerarchico - al di là del giudizio di merito e di valore che si può dare a una configurazione sociale interamente costruita attorno al monoprodotto - ha rappresentato un fondamento della vita cittadina e il presupposto di un equilibrio di lungo periodo.
Uno dei punti di forza del modello, sottostimato rispetto alle classiche chiavi di lettura economiciste, è stato la sua capacità di frenare - tenendolo a guinzaglio corto all'interno di uno schema rigido - un tratto fondante e deleterio della mentalità cittadina: la mediocrità invidiosa.
All'interno della gerarchizzazione merloniana, per dire, una qualsiasi carriera veloce suscitava ammirazione e non invidia perchè l'ascensore sociale si muoveva lungo le linee verticali di una piramide sociale accettata a tutti i livelli ed era governato da una "consolle" rigorosamente controllata dalla Famiglia dominante.
Il crepuscolo dell'epoca merloniana sta cancellando l'antica stratificazione sociale. Il risultato è una città afflosciata, in cui, come da una grotta carsica, sta riemergendo quella mediocrità invidiosa che costituisce l'ostacolo principale per una comunità chiamata a fare corpo per uscire collettivamente da una dimensione critica.
Il mediocre invidioso è un distruttore di talenti, detesta le differenze, adora il pensiero unico, accusa di protagonismo chiunque cerchi di fuoriuscire dalla melma, ricerca l'elemento losco in qualsiasi percorso di successo altrui, sogna un gregge senza pastore e senza pecore nere e se può infanga utilizzando soldi e talamo come classiche sorgenti d'infamia.
Il problema di Fabriano è che la gerarchizzazione merloniana ha funzionato fin quando il modello industriale ha vissuto sull'onda del successo, ma non ha scavato a fondo, non ha superato ma messo tra parentesi una mentalità che, adesso, sta riemergendo in tutta la sua geometrica potenza.
"Heri dicebamus". Benedetto Croce aveva commentato con queste parole la fine del fascismo. Per dire che si
ripartiva dal punto in cui il discorso era stato interrotto più di due decenni
prima. Forse vale anche per Fabriano: il ritorno sulla scena di una mentalità vecchia,
datata e controproducente ci riporta drammaticamente indietro nel tempo.
La differenza è che per Croce heri dicebamus era una promessa di futuro. Per noi é un balzo all'indietro che non ci possiamo permettere.