Lo ammetto: le cosiddette “riforme a costo zero” sono una mia ossessione, le considero uno strumento interessante per cambiare la città senza svenarsi col mantra del "non c'è i soldi".
Le riforma e costo zero aiutano a migliorare l'esistente, danno all'occhio la sua parte e fanno sentire il cittadino in uno spazio più bello.
Quel che è sfuggito, fino ad ora, ai decisori politici è che il principale servizio che un’amministrazione deve assicurare ai suoi cittadini è legato al decoro, alla bellezza e alla conservazione delle cose e dei luoghi. Azioni che, in alcune circostanze, possono essere realizzate combinando costi sostenibili ed elevato valore aggiunto.
Gli ultimi dieci anni, invece, sono stati un’epopea dell’abbandono, un trionfo del rattoppo, un continuo ricoprire crepe che si aprivano nel corpo della città fino a formare una rea mistura, di degrado urbano e di rammendo senza bussola, sempre più estesa e sempre meno reversibile.
La manutenzione, in questo senso, non ha ragion d'essere come intervento di routine ma rappresenta un altro modo di vedere le cose: è il superamento del richiamo dantesco al “guarda e passa”, è cambiare la scena aggirando il vincolo finanziario, intervenire innestando il senso estetico sulla volontà politica.
Riformare é ridare forma e, a Fabriano, lo spazio urbano più bisognoso di nuova forma è il centro storico, la città vecchia marginalizzata da crimini urbanistici che hanno spinto verso la periferia il cuore pulsante della città.
Il nodo da sciogliere intra-muros, il tema su cui si misurano le differenze tra i riformatori e gli immobilisti, riguarda la circolazione automobilistica e le ipotesi di pedonalizzazione ma a monte c'è dell'altro: lo stravolgimento urbanistico ed estetico prodotto dall’assoluta predominanza dei parcheggi.
Siamo di fronte a un diritto di sosta vissuto come una prerogativa regale, un dio delle piccole cose assoluto e insindacabile, l'unica vera linea di demarcazione per il fabrianese tra l'esercizio della libertà e la negazione dei diritti umani.
Insomma, non è più l’occhio a volere la sua parte ma il culo, la comodità più spinta, la vantaggiosa prossimità all’uscio di casa, il particulare sedentario che si fa clava e feticcio.
C’è effettivamente qualcosa di patologico nel modo in cui i fabrianesi concepiscono il parcheggiare nel centro cittadino. Via Zobicco - lunga, diritta e ricavata tra i Giardini Margherita e le vecchie mura - è imbruttita da un cordone permanente di vetture, allontanate solo dalle riprese della fiction sulle monachelle e dal rischio di rimozione del venerdì mattina.
Idem per Piazza Quintino Sella, dove ogni centimetro disponibile è stato assegnato alla sacra esigenza di sosta e fermata. Per non parlare di Piazza Partigiani, col grande albero che introduce delicatamente ai Vicoli del Piano circondato da auto infilzate a tutti i costi grazie a manovre effettuate con maestria d'orefice.
E che dire della suggestiva Piazza Amedeo di Savoia - gioiellino a imbuto che converge a lato della Cattedrale, lastricata di strisce blu e di automobili -, di San Benedetto, brutalizzata da alberi che andrebbero trapiantati altrove e dal solito parcheggio funzionale ai quattro gatti della sosta infinita.
Ma il culmine e la sintesi visiva di come la deificazione del parcheggio sia al servizio del cattivo gusto é rappresentata dalla piazzetta di San Niccolò, un tempo segnata da quattro aiuole a discesa essenziali e lineari e oggi ridotta al grottesco, come in un dipinto di Bosch, da 12 posti auto e 4 bidoni della differenziata.
Scampoli estetici della città medievale - ce ne sarebbero tantissimi altri meritevoli di altrettante citazioni indignate - destinati dal fabrianese anaffettivo e funzionale a una bruttezza intesa come tendenza a modificare lo spazio, le sue vocazioni e la sua tradizione in nome di un'utilità quotidiana assolutamente spicciola e sedentaria.
Aveva, quindi, ragione lo scrittore colombiano Nicolás Gómez Dávila nel dire che “la bruttezza di un oggetto è la condizione preliminare del suo moltiplicarsi su scala industriale”.
Ed è per questo che la linea divisoria tra cambiamento e conservazione passa anche dalla destinazione d'uso di queste piazze e piazzette. Restituirle a uno sguardo incantato è politica della bellezza declinata nella realtà.
Le riforma e costo zero aiutano a migliorare l'esistente, danno all'occhio la sua parte e fanno sentire il cittadino in uno spazio più bello.
Quel che è sfuggito, fino ad ora, ai decisori politici è che il principale servizio che un’amministrazione deve assicurare ai suoi cittadini è legato al decoro, alla bellezza e alla conservazione delle cose e dei luoghi. Azioni che, in alcune circostanze, possono essere realizzate combinando costi sostenibili ed elevato valore aggiunto.
Gli ultimi dieci anni, invece, sono stati un’epopea dell’abbandono, un trionfo del rattoppo, un continuo ricoprire crepe che si aprivano nel corpo della città fino a formare una rea mistura, di degrado urbano e di rammendo senza bussola, sempre più estesa e sempre meno reversibile.
La manutenzione, in questo senso, non ha ragion d'essere come intervento di routine ma rappresenta un altro modo di vedere le cose: è il superamento del richiamo dantesco al “guarda e passa”, è cambiare la scena aggirando il vincolo finanziario, intervenire innestando il senso estetico sulla volontà politica.
Riformare é ridare forma e, a Fabriano, lo spazio urbano più bisognoso di nuova forma è il centro storico, la città vecchia marginalizzata da crimini urbanistici che hanno spinto verso la periferia il cuore pulsante della città.
Il nodo da sciogliere intra-muros, il tema su cui si misurano le differenze tra i riformatori e gli immobilisti, riguarda la circolazione automobilistica e le ipotesi di pedonalizzazione ma a monte c'è dell'altro: lo stravolgimento urbanistico ed estetico prodotto dall’assoluta predominanza dei parcheggi.
Siamo di fronte a un diritto di sosta vissuto come una prerogativa regale, un dio delle piccole cose assoluto e insindacabile, l'unica vera linea di demarcazione per il fabrianese tra l'esercizio della libertà e la negazione dei diritti umani.
Insomma, non è più l’occhio a volere la sua parte ma il culo, la comodità più spinta, la vantaggiosa prossimità all’uscio di casa, il particulare sedentario che si fa clava e feticcio.
C’è effettivamente qualcosa di patologico nel modo in cui i fabrianesi concepiscono il parcheggiare nel centro cittadino. Via Zobicco - lunga, diritta e ricavata tra i Giardini Margherita e le vecchie mura - è imbruttita da un cordone permanente di vetture, allontanate solo dalle riprese della fiction sulle monachelle e dal rischio di rimozione del venerdì mattina.
Idem per Piazza Quintino Sella, dove ogni centimetro disponibile è stato assegnato alla sacra esigenza di sosta e fermata. Per non parlare di Piazza Partigiani, col grande albero che introduce delicatamente ai Vicoli del Piano circondato da auto infilzate a tutti i costi grazie a manovre effettuate con maestria d'orefice.
E che dire della suggestiva Piazza Amedeo di Savoia - gioiellino a imbuto che converge a lato della Cattedrale, lastricata di strisce blu e di automobili -, di San Benedetto, brutalizzata da alberi che andrebbero trapiantati altrove e dal solito parcheggio funzionale ai quattro gatti della sosta infinita.
Ma il culmine e la sintesi visiva di come la deificazione del parcheggio sia al servizio del cattivo gusto é rappresentata dalla piazzetta di San Niccolò, un tempo segnata da quattro aiuole a discesa essenziali e lineari e oggi ridotta al grottesco, come in un dipinto di Bosch, da 12 posti auto e 4 bidoni della differenziata.
Scampoli estetici della città medievale - ce ne sarebbero tantissimi altri meritevoli di altrettante citazioni indignate - destinati dal fabrianese anaffettivo e funzionale a una bruttezza intesa come tendenza a modificare lo spazio, le sue vocazioni e la sua tradizione in nome di un'utilità quotidiana assolutamente spicciola e sedentaria.
Aveva, quindi, ragione lo scrittore colombiano Nicolás Gómez Dávila nel dire che “la bruttezza di un oggetto è la condizione preliminare del suo moltiplicarsi su scala industriale”.
Ed è per questo che la linea divisoria tra cambiamento e conservazione passa anche dalla destinazione d'uso di queste piazze e piazzette. Restituirle a uno sguardo incantato è politica della bellezza declinata nella realtà.