31 luglio 2017

Il fabrianese devoto al dio Parcheggio

Lo ammetto: le cosiddette “riforme a costo zero” sono una mia ossessione, le considero uno strumento interessante per cambiare la città senza svenarsi col mantra del "non c'è i soldi". 

Le riforma e costo zero aiutano a migliorare l'esistente, danno all'occhio la sua parte e fanno sentire il cittadino in uno spazio più bello. 

Quel che è sfuggito, fino ad ora, ai decisori politici è che il principale servizio che un’amministrazione deve assicurare ai suoi cittadini è legato al decoro, alla bellezza e alla conservazione delle cose e dei luoghi. Azioni che, in alcune circostanze, possono essere realizzate combinando costi sostenibili ed elevato valore aggiunto. 

Gli ultimi dieci anni, invece, sono stati un’epopea dell’abbandono, un trionfo del rattoppo, un continuo ricoprire crepe che si aprivano nel corpo della città fino a formare una rea mistura, di degrado urbano e di rammendo senza bussola, sempre più estesa e sempre meno reversibile. 

La manutenzione, in questo senso, non ha ragion d'essere come intervento di routine ma rappresenta un altro modo di vedere le cose: è il superamento del richiamo dantesco al “guarda e passa”, è cambiare la scena aggirando il vincolo finanziario, intervenire innestando il senso estetico sulla volontà politica. 

Riformare é ridare forma e, a Fabriano, lo spazio urbano più bisognoso di nuova forma è il centro storico, la città vecchia marginalizzata da crimini urbanistici che hanno spinto verso la periferia il cuore pulsante della città. 

Il nodo da sciogliere intra-muros, il tema su cui si misurano le differenze tra i riformatori e gli immobilisti, riguarda la circolazione automobilistica e le ipotesi di pedonalizzazione ma a monte c'è dell'altro: lo stravolgimento urbanistico ed estetico prodotto dall’assoluta predominanza dei parcheggi

Siamo di fronte a un diritto di sosta vissuto come una prerogativa regale, un dio delle piccole cose assoluto e insindacabile, l'unica vera linea di demarcazione per il fabrianese tra l'esercizio della libertà e la negazione dei diritti umani. 

Insomma, non è più l’occhio a volere la sua parte ma il culo, la comodità più spinta, la vantaggiosa prossimità all’uscio di casa, il particulare sedentario che si fa clava e feticcio. 

C’è effettivamente qualcosa di patologico nel modo in cui i fabrianesi concepiscono il parcheggiare nel centro cittadino. Via Zobicco - lunga, diritta e ricavata tra i Giardini Margherita e le vecchie mura - è imbruttita da un cordone permanente di vetture, allontanate solo dalle riprese della fiction sulle monachelle e dal rischio di rimozione del venerdì mattina. 

Idem per Piazza Quintino Sella, dove ogni centimetro disponibile è stato assegnato alla sacra esigenza di sosta e fermata. Per non parlare di Piazza Partigiani, col grande albero che introduce delicatamente ai Vicoli del Piano circondato da auto infilzate a tutti i costi grazie a manovre effettuate con maestria d'orefice. 

E che dire della suggestiva Piazza Amedeo di Savoia - gioiellino a imbuto che converge a lato della Cattedrale, lastricata di strisce blu e di automobili -, di San Benedetto, brutalizzata da alberi che andrebbero trapiantati altrove e dal solito parcheggio funzionale ai quattro gatti della sosta infinita. 

Ma il culmine e la sintesi visiva di come la deificazione del parcheggio sia al servizio del cattivo gusto é rappresentata dalla piazzetta di San Niccolò, un tempo segnata da quattro aiuole a discesa essenziali e lineari e oggi ridotta al grottesco, come in un dipinto di Bosch, da 12 posti auto e 4 bidoni della differenziata

Scampoli estetici della città medievale - ce ne sarebbero tantissimi altri meritevoli di altrettante citazioni indignate - destinati dal fabrianese anaffettivo e funzionale a una bruttezza intesa come tendenza a modificare lo spazio, le sue vocazioni e la sua tradizione in nome di un'utilità quotidiana assolutamente spicciola e sedentaria.

Aveva, quindi, ragione lo scrittore colombiano Nicolás Gómez Dávila nel dire che “la bruttezza di un oggetto è la condizione preliminare del suo moltiplicarsi su scala industriale”. 

Ed è per questo che la linea divisoria tra cambiamento e conservazione passa anche dalla destinazione d'uso di queste piazze e piazzette. Restituirle a uno sguardo incantato è politica della bellezza declinata nella realtà.
    

19 luglio 2017

La politica, il sampietrino e l'erba alta

Negli anni passati i cittadini fabrianesi si sono trovati, in diverse circostanze, a comportarsi come Renzo Tramaglino nei Promessi Sposi: partire accesi e belligeranti e poi placarsi davanti al latinorum dei Don Abbondio di Palazzo Chiavelli.

Il "calmante" dispensato al popolo bizzoso era di un genere assai efficace: impedimenti tutto abbastanza verosimili, rinforzati da sistematici richiami alla microlingua amministrativa, ovvero al latinorum della dittatura burocratica.

La rigidità del bilancio, la proliferazione della spesa corrente, il Patto di Stabilità, il gioco dei residui attivi, i danni erariali sono stati rimandi di sistema accorati ed efficaci che, come una goccia cinese, hanno finito per convincere anche i cittadini più riottosi che ci fosse davvero poco da fare.

In poco tempo molti fabrianesi hanno cominciato a pensare che la funzione di un'amministrazione comunale fosse meramente esecutiva e notarile, ovvero acefala e privata all'origine di quelle libertà d'azione e di scelta che dovrebbero essere requisiti fondamentali dell'esercizio della volontà politica.

Questo appiattimento indotto dall'alto ha prodotto una duplice conseguenza: da un lato ha pompato nelle vene della comunità locale dosi cavalline di arrendevole fatalismo; dall'altro ha spinto a credere che qualsiasi provvedimento fosse sempre il frutto di una necessità e sempre irreversibile nelle sue conseguenze.

L'appiattimento indotto è stato ribattezzato realismo e molti hanno creduto che nella teorizzazione dell'immobilismo dovuto a vincoli insormontabili risiedesse una sorta di sguardo più lucido e disincantato da esibire con orgoglio ai sognatori urlanti.

In realtà, come sosteneva Einstein, "tutti sanno che una cosa è impossibile da realizzare finché arriva uno sprovveduto che non lo sa e la inventa".

La sfida della nuova amministrazione comunale sarà, appunto, essere sprovveduti, fare quel che sembrava impossibile, dimostrando che impossibile non era e non è.

Il desiderio di cambiamento, inequivocabilmente impostosi col voto dello scorso giugno, si è rapidamente declinato in due scuole di pensiero: da una parte gli assertori del "poco e bene", figli situazionisti dell'appiattimento indotto, tuttora convinti che la politica altro non sia che ordinaria amministrazione; dall'altra quella parte di cittadini che, per mille e sacrosante ragioni, vogliono chiudere con un passato ridotto a fardello e senza l'appiglio della famigerata formula del rinnovamento nella continuità.

I minimalisti del "poco e bene" si riconoscono al volo: le loro doglianze si limitano al sampietrino rotto, alla siepe ridondante, alla comunicazione di inizio lavori, all'erba alta e alla carta per terra. Il Sindaco, per loro, è un amministratore di condominio in fascia tricolore, un occhiuto smistatore di manutentori.

Poi ci sono quelli del cambio radicale, gli inappagati convinti che la politica debba prevalere sulla burocrazia, che il bilancio sia uno strumento al servizio di un disegno strategico e che l'urbanistica sia un veicolo essenziale per riscrivere il destino di una comunità e il suo modo di stare insieme.

La passata amministrazione faceva poco e male e, senza mediazione alcuna, considerava gli inappagati soggetti petulanti e ingenui. La nuova amministrazione non può scegliere tra minimalisti e inappagati perchè il suo largo consenso taglia trasversalmente le due categorie.

La Giunta dovrà fare il "poco e bene" e, nello stesso tempo, tenere sempre desta la rottura col passato. Per questo le due partite più complicate per Santarelli saranno più politiche che amministrative: la gestione del consenso e la costruzione di alleanze.

Una sfida nuova e difficile anche per le minoranze che, diversamente dal passato, non possono più accontetarsi di fare un'opposizione senza politica, limitata al pelo e contropelo su determine e delibere. Nulla sarà più come prima. Conviene capirlo. Senza nostalgie e senza rivalse.
    

4 luglio 2017

Il Consiglio che verrà

I giornali locali, al netto di molte fantasie e diverse supposizioni, rilanciano da qualche giorno la possibilità che il Movimento 5 Stelle sia disponibile a votare un esponente della minoranza come Presidente del Consiglio Comunale.

Non ci sono dichiarazioni ufficiali in tal senso e, di solito, le ricostruzioni di retroscena non coincidono con le reali posizioni grilline. Resta il fatto che l'ipotesi è suggestiva e politicamente interessante perchè mai, fino ad ora, i vincitori delle elezioni comunali hanno rinunciato allo spoil system sulla Presidenza del civico consesso.

Il Presidente del Consiglio Comunale, nei precedenti mandati amministrativi, si è sempre caratterizzato come figura politica, pienamente inserita nelle dinamiche "distributive" di maggioranza, più sensibile, per default, alle esigenze di governo che non al ruolo di garanzia richiesto dalla carica e dai poteri previsti dalla norma e dallo Statuto.

Se il Movimento 5 Stelle dovesse aprire a un Presidente espresso dalla minoranza si farebbe interprete di un atto politico di rottura rispetto al passato e di unità prospettica del Consiglio Comunale inteso come sede e fulcro della rappresentanza politica dei fabrianesi.

In questo caso si getterebbero le "basi climatiche" di questo mandato amministrativo, con una maggioranza aperta al confronto e un'opposizione costretta dall'apertura a cambiare pelle e atteggiamento. 

Il risultato sarebbe una vera e propria riforma di sistema rispetto al passato: una maggioranza che non cade nella tentazione arrogante dell'autosufficienza e una minoranza che non si rinchiude in uno sconfittismo rumoroso e rancoroso.

Se fosse questa l'intenzione politica dei grillini si porrebbe la questione del "come" e del "chi", ovvero il metodo e il soggetto. la questione del metodo è decisiva perchè se è vero che non può essere il 5 Stelle a scegliere il Presidente indicato dalla minoranza è altrettanto vero che un Presidente ostile ai grillini sarebbe inconcepibile e intollerabile proprio nell'ottica di un recupero del ruolo di garanzia connesso a questa figura.

La soluzione potrebbe essere quella di chiedere alla minoranza di indicare una terna di nomi e poi sottoscrivere un accordo serio, trasparente, pubblico e di sistema su una personalità che possa garantire l'intero Consiglio e la sua dialettica che, non dimentichiamolo mai, è sempre il risultato insindacabile della volontà popolare.

La gestione politica del "come" e del "chi", ovviamente, lascia scoperto un altro versante e cioè quello del "se" perchè avere un Presidente espresso dalla minoranza comporta un rischio politico e operativo.

Ma qui entra in gioco la linea di governo che caratterizzerà la nuova amministrazione: se Santarelli vuole procedere spedito come un treno - con poche mediazioni politiche - un Presidente espresso dalla minoranza potrebbe rappresentare un potenziale nodo critico; se, invece, la scommessa dei grillini vuole essere inclusiva, basata sul consenso e sulla ricostruzione di un clima unitario e collaborativo allora l'azzardo può diventare una grande opportunità.

Un fatto è certo: stavolta la scelta del Presidente del Consiglio Comunale non sarà di routine, una casella a disposizione di un appetito da soddisfare ma un primo segnale politico di quali saranno l'approccio e il taglio di questa Giunta Santarelli.