30 aprile 2012

L'Antica Coglioneria del Corso


Se qualcuno pensava che mi fossi tacitato o tolto dalle balle per improvviso inaridimento della vena critica può mettersi l'anima in pace. Eccomi qua dopo due giorni di buona vita. Vivo e vegeto per una nuova puntata del Muppet Show fabrianese. Oggi parliamo di manifesti. Per la precisione del manifesto sulle "solite facce" prodotto da per nulla anonimi committenti. Lo dico subito a scanso di equivoci: quel manifesto è un concentrato glaciale di coglioneria, un bidone mediatico che dovrebbe essere proposto, come case history al contrario, in tutte le facoltà di Scienze Politiche. L'Antica Coglioneria del Corso ha, infatti, sfornato tre coglionate in sei per due. La prima coglioneria è di natura mediatica, perchè la grafica del manifesto propone le "solite facce" democristiane in un modo che ricorda i volti di alcuni grandi presidenti americani scolpiti nella roccia del monte Rushmore. In questo modo il favoloso mondo della DC non viene azzannato senza pietà ma monumentalizzato e restituito quasi in forma di mito. Che è l'esatto contrario di quel che avevano in mente gli ideatori, che soltanto per questo si dovrebbero vergognare un po' e nascondersi a gambe levate. La seconda coglioneria riguarda l'incompletezza del messaggio, ossia la sua limitata credibilità. Già, perchè nella galleria del democristianesimo - passato, presente e futuro - è stato sbianchettata la faccia di un pezzo da novanta: quella di Claudio Biondi. Un dinosauro di antico pelo che avrebbe meritato un posto d'onore nella galleria del regime; depennato, in perfetto stile sovietico, perchè poco funzionale al discorso e alla polemica degli ideatori del manifesto. E sapete perchè? Semplice, facile e banale perchè Tutanklaudion Biondi appoggia Urbani che, essendo Papa della Religione Pagana di Sè Stesso, oltre a sognarsi in fascia tricolore da cinque anni, dispensa pure indulgenze plenarie agli adepti peccatori. E quindi: resta di di stucco è un Barbatrucco! Di colpo Biondi è tornato lindo, pinto e capellone! Ma la vera coglioneria in forma di boomerang è la terza. Ed è di natura politico-sentimentale. Infatti nel manifesto lenzuolo è ritratto anche Angelo Tini. Chi conosce le relazioni tra i politici fabrianesi penso possa comprendere il mio stupore, dato che quello tra Urbani e Tini è stato amore politico a prima vista. Una passione durata cinque anni. Cinque anni in cui Tini è stato il vero e unico Mentore di Urbani. Cinque anni in cui Angelino da San Donato ha allevato, nutrito e imboccato Urbanetto da Nebbiano su ogni dettaglio e piega del bilancio comunale. Urbani&Tini: una premiata ditta, con Angelino a dettare la linea e Urbanetto a eseguire con dedizione, ostinazione e capa tosta. Insomma un sodalizio quasi parentale. Fraterno e per certi versi gemellare. Come Graziani e Pulici, come Castore e Polluce, come Totò e Peppino. Uniti dal vincolo indissolubile del far pulci ai bilanci del Barbuto Calante e dell'Elfo Boldrini. Ma poi l'amore è finito. Senza preavviso. Senza neanche una lettera d'addio. Tini con il cuore a destra e la poltrona a sinistra. Urbani con il cuore non si sa dove e la poltrona saldamente disposta sotto il proprio culo. Fino alla vendetta postuma del manifesto, dove l'amato e implorato Tini viene inserito nella grande galleria del regime biancofiore, come un reprobo messo all'indice da una improvvisa e amara furia dantesca. Per questo il manifesto sulle "solite facce" è un grido di dolore, un atto estremo di gelosia, una espressione morbosa di un tradimento che addolora la mente e il cuore del Prescelto Berlusconiano: "Amor, ch'a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m'abbandona". Sarebbe stato più carino scriverci "ci eravamo tanto amati" perchè di fronte ai cuori sanguinanti e agli amori traditi ci saremmo tolti il cappello con rispetto ed empatia. Invece questo manifesto, in forma di lenzuolo, appare agli occhi di tutti per quello che è: un'esca buona per gli smemorati e convincente per i coglioni. E chi lo ha ideato dovrebbe fare solo due cose: dedicarsi all'agricoltura e prendere le distanze dalla sua solita faccia.
    

27 aprile 2012

Mario Knonos, l'Ugolino con la paglia...lunga

Alle Europee del 2009 l’IDV a Fabriano superò il 10%. Un risultato importante ma terribilmente volatile. Consolidarlo avrebbe richiesto un’azione politica arroventata, uno slancio da guerrieri etruschi, e un atteggiamento “un piede dentro e uno fuori” da classica forza di lotta e di governo. Ma il leader assoluto dell’IDV fabrianese, Mario Paglialunga non ha il fisico da incursore: mingherlino, con le spalle strette e lo sguardi di tre quarti. Il contrario del soldato etrusco, del legionario romano o dello spartano alle Termopili per intenderci. In più, risucchiato dall’ambizione e dal desiderio di primato, si è comportato come Kronos, divorando uno a uno i suoi figli, precedentemente blanditi e posizionati a fare i segretari dell’IDV, a condizione che non gli rompessero quei maroni che alla fine gli hanno rotto tutti. In questo modo il partito dipietrista è diventato un’appendice dell’assessore. Sicuramente tra i più attivi della giunta Sorci, ma altrettanto certamente schiacciato su un’esperienza d’insuccesso come la raccolta differenziata dei rifiuti. Per certi versi lo zarismo di Paglialunga ha qualcosa di comprensibile e di umano. Le sue vecchie vicende personali e politiche lo avevano messo fuori gioco di brutto e so per certo che non avrebbe scommesso su un suo rientro in scena, manco se glielo avessero annunciato a Medjugorie. Alla fine, contro ogni pronostico, ce l’ha fatta ma col tempo si è cucito addosso il “complesso dell’edificio”, il rifiuto di chi ha costruito qualcosa di mollare l’osso e staccarsi dalla sua creatura. Ma il consenso, come è naturale, va e viene ed è condizionato da mille circostanze. Paglialunga, invece, era convinto che la rabbia del ceto medio riflessivo sarebbe confluita da sola nel partito di Tonino il Molisano, con la stessa naturalezza con cui i fiumi abbracciano il mare. E che questo movimento d’opinione avrebbe pure offerto una sorta di copertura ideologica a una concezione del potere sinceramente più mastelliana che dipietrista. L’operazione ha funzionato fin quando l’IDV si è trovata di fronte al bivio: fare il salto mortale mollando tutti o covare l’ovetto al Pd e all’UDC. Scegliendo di fare la Gallina Bianca l’Italia dei Valori è stata inglobata – come la gocciolina d’acqua Lete – nell’asse PD – UDC: c’è nessuno!!!? C’è nessuno!!!!!? Ma nessuno rispose. Con la camicia di forza dell’Obitorio Marche addosso e la fine della Giunta Sorci l’IDV è, quindi, sparita dalla scena. E qui si innesta un altro problema per i dipietristi e cioè l’irruzione sulla scena del Movimento 5 Stelle. Il mercato politico ed elettorale è lo stesso ma la differenza è che il 5 Stelle non ha vincoli di coalizione e si può muovere come una nave corsara mentre l’IDV è costretta a conciliare la fedeltà all’Obitorio col desiderio di rispolverare la propria identità più radicale e movimentista. E non è un caso che dopo la mancata presentazione della lista della Lega Nord – altro elettorato geneticamente attratto dalla protesta – Mario Kronos, in precedenza relativamente non ostile alla Lega, sia stato il più rapido di tutti a insinuare porcherie e tradimenti consumati dal sottoscritto. Per fregare consensi e voti della Lega. Puttanate talmente plateali da averlo spinto a chiedermi ufficialmente scusa sulla mia bacheca di Facebook ma comunque utili, a parer suo, per trovare orecchie disponibili nell’elettorato leghista. Fra pochi giorni vedremo come andrà a finire e chi la spunterà in questa guerra tra IDV e movimento di Grillo. Finora lo scontro è a bassa intensità e si riduce a qualche scaramuccia virtuale, ma tutto lascia credere che prima del voto i morti careggeranno i feriti, come si dice a Fabriano. E temo che stavolta Mario Kronos dovrà mangiarsi il gomito invece che la testa dei suoi segretari come un Conte Ugolino senza pace e riposo. Col rischio concreto di trovarsi col cerino in mano. Pardon, con la paglia lunga. E rovente.
    

26 aprile 2012

Sonia Ruggeri e io: gentilezze e punti di vista

Caro Gian Pietro,
avendoti avuto come allievo, so benissimo che sei una persona intelligente e riesci molto bene a capire quando bisogna dire basta. E tu, come me, anche se in situazioni e modi diversi, hai detto basta.
Io non mi sono rinchiusa, né mi rinchiuderò a vita privata; anzi continuerò, secondo il mio stile, a lavorare per la città con più determinazione ed entusiasmo di prima. Per il momento sto cercando di portare a termine importanti progetti per i quali ho operato in questi anni; in futuro, poi, cercherò di fare squadra con donne e uomini che siano al di fuori di certe attuali logiche di partito, così lontane dai bisogni veri dei cittadini e che assolutamente non mi appartengono, né mai mi sono appartenute. E’ vero che la Politica, con la P maiuscola, è indispensabile, se si vuole governare bene un Paese o una città, ma quella dei nostri attuali partiti spesso non è vera Politica, è quasi sempre ricerca di consensi; per questo la Politica va rifondata; questa è la vera sfida del futuro ed è per vincere questa sfida che ora desidero lavorare, proprio perché voglio bene alla mia città e al mio Paese. Ti lancio una provocazione: “ perché non ti unisci a me e a tantissime altre persone, per dimostrare concretamente che è possibile tornare a fare Politica con la P maiuscola; per dimostrare concretamente che è possibile volare alto, fare squadra nel pianificare e condividere con i cittadini le scelte e i progetti?
Un caro saluto
Sonia Ruggeri

Gentilissima Professoressa Ruggeri,
uso il Lei perché resta la mia docente di letteratura italiana e perché sono un ragazzo all’antica e il tu rivolto alle signore con cui non si ha sufficiente confidenza mi sa sempre di cameratismo sciatto. Detto questo vorrei ringraziarla di cuore per le buone parole che ha usato nei miei confronti, per la stima – totalmente ricambiata - che da esse traspare e per la provocazione che mi lancia. Diversamente da lei sono un uomo di partito a ventiquattro carati, un semplice militante della Lega Nord che non vede e non desidera altro approdo. Men che meno azioni trasversali o anche solo vagamente civiche. Le mie dimissioni da segretario cittadino del partito non sono state un grido di dolore contro la cattiva politica ma soltanto un’assunzione di responsabilità integrale rispetto a quanto accaduto con la vicenda della lista per le comunali. E questo è un fatto che resta scolpito nella mia vita politica e personale e che, per il momento, non ammette ripensamenti, deroghe o deviazioni. Ovviamente guardo con simpatia tutto quel che si muove in città e ogni soggetto che mette al centro del proprio agire quel principio della speranza, che un visionario marxista come Ernst Bloch individuava come elemento distintivo nella vita dell’animale uomo. Non tanto per me, misantropo impenitente, quanto per i miei figli che, come piccoli navigatori, rappresentano la mia bussola e la mia lente d’ingrandimento quotidiane. Purtroppo, cara Sonia, la politica, come tutte le cose umane, non consente l’uso delle maiuscole perché siamo soltanto rami storti e tali dobbiamo restare se non vogliamo attentare all’ordine naturale delle cose. Lei ha ricoperto un ruolo di responsabilità politica e amministrativa ed è giusto e importante che a esso dia la giusta continuità. Io sono solo un cadetto di Guascogna che si diverte a sparare qualche freccia virtuale da una finestra aperta sul futuro. E, per ora, questo è il mio unico impegno possibile e immaginabile. Anche se molti, disabituati alla libertà e all’ironia, già mi vedono in mare aperto a cercare qualche nuova isola da colonizzare, dimenticando che faccio parte della “razza di chi rimane a terra”.
Mille grazie
Gian Pietro Simonetti
    

La notte dei Lupi Silvani risuona di Ululati Urbani

Lupi incorona Urbani, strilla la locandina del Messaggero di oggi. Come se ci fosse clamore in un alto esponente del Pdl che viene a sostenere il berluscone locale. Ma forse la notizia c’è ed è più sottile. Urbani, come un secchione senza pupe, ha studiato da candidato sindaco per cinque anni; ha costruito con volontà d’artista l’immagine di esterno prestato alla politica solo per le sue virtù d’impresa; ha diffuso la versione di una candidatura desiderata ardentemente dal popolo più che dal suo partito; ha profuso impegno a piene mani per spostare ogni attenzione sulle liste civiche invece che sul Pdl; ha messo in piedi una operazione come Made in Fabriano orientata ad occultarne concretamente il profilo di uomo di parte e di partito. Uno smarcamento costante, un gioco astuto di gambe, alla Lionel Messi, per far credere che, alla fine, fosse il Pdl a capitolare su Urbani e non Urbani a essere un candidato di un partito incapace di costruire alleanze. Un mezzo capolavoro di antipolitica, insomma. Poi, come scrivevo qualche giorno fa, arriva il bimbo e dice che il re è nudo. Arriva Lupi e lo incorona candidato del Pdl, ossia uomo di Berlusconi nelle terre dei Chiavelli. Una finzione quinquennale naufragata in una sera d’aprile. Chi vota Urbani vota Berlusconi e fine dei giochi e dei giochetti. La seconda notizia gustosa riguarda Silvano D’Innocenzo. Qualche giorno fa aveva pubblicato su Facebook l’invito per la cena elettorale di ieri sera. Titolo: “Presentazione del Consigliere Comunale Silvano D’Innocenzo”. Sottotitolo in carattere minore: interverranno Maurizio Lupi, Francesco Casoli, Giacomo Bugaro. Ulteriore sottotitolo: interverrà il candidato Sindaco Urbano Urbani. Insomma, era tutto pronto affinché fosse la notte dei Lupi Silvani e invece si sentirono solo gli ululati urbani. Stamattina, con stile intenerito e crepuscolare, D’Innocenzo ha commentato, sempre su Facebook: “Qualche tempo fa scrissi che la mia città e la mia famiglia mi coccolavano, ieri ne ho avuto un'ulteriore riprova. 500 grazie alla mia Fabriano!”. Ma quali coccole Silvà! Ieri sera sono volate scoppole! Ma insomma, dopo aver passato gli ultimi anni a fare il dissidente perpetuo, dopo aver impedito l’elezione di Urbani alle regionali sostenendo Bugaro, dopo aver dichiarato guerra a chiunque fosse in odore di urbanismo e casolismo arriva la notte degli Oscar e ti fai fottere la scena da Urbani!? Una vera beffa, un feroce contrappasso: entrare come un Innocenzo I° e uscire luogotenente, ritrovarsi un re di maggio senza corona e senza scorta. In questo momento, lo confesso, mi diverte pure pensare alle mille volte in cui, col ghigno sarcastico, D’Innocenzo andava a contar balle sostenendo che io e la Lega eravamo i più accesi e fedeli sostenitori di Urbani. Il tempo ha fatto giustizia di molte puttanate, grazie a Dio, e oggi neanche una magia del Mago Silvan potrebbe salvare D’Innocenzo dalla sua inevitabile e triste subalternità. Silv Sala Bim!
    

25 aprile 2012

Le profezie del Coccetto di San Marino

Ogni gita ha il suo souvenir e il coccetto ricordo da riportare a casa. Mi ricordo che, tanti anni fa, andavano di moda certe statuette - di cani, di gatti, di rocche del Titano - che cambiavano colore a seconda del tempo. Blu col tempo buono e rosa con la bassa pressione o viceversa. Ho ricordato questa cosa ascoltando il discorso di Sorci, al monumento del Partigiano ai Giardini Pubblici, per la commemorazione del 25 aprile. Un intervento scritto, inframezzato da pause silenti per il cambio pagina, tutto concentrato sull'idea di collaborazione come virtù civica per uscire dalla crisi. Evidentemente Sorci, come il coccetto di San Marino, stava cambiando colore: da nuvoloso spinto all'azzurro primavera. Più che un caso un indizio, una profezia di "clima ", un input di metereologia politica inviato ai tanti candidati e candidatini presenti e improvvisamente rapiti da spirito resistenziale e partigiano. Un Sorci senza mimetica garibaldina, tutto grisaglia e buonsenso. Una novità assoluta per un uomo di sangue e arena come il Barbuto, tanto che da settimane ne annunciavo la discesa nei fondali, l'azione da sommergibile in cerca di tordi da silurare. Mentre scorrevano le sue parole, e tutti facevano bella ciao alla libertà ritrovata, ho percepito una drammatica conferma dell'inciucione che ci stanno preparando nelle cucine della Grande Coalizione, un inno alla gioia della Balena Urbamola, un appello a dire di sì al pugno di ferro in guanto di velluto dei poteri forti. Il richiamo all'unità d'intenti, alla collaborazione tra diversi, alle relazioni costruttive e bla bla e bla bla è la nuova frontiera del conformismo in cui pretendono di farci annegare, per meglio completare l'opera di cannibalismo della comunità fabrianese. E se vuoi fottere chi dissente aggiungi un posto a tavola, fallo sentire amato e riverito, assorbigli ogni disobbedienza, uccidi il vitello grasso e ricordagli che gli vuoi bene. In poche parole richiamalo al dovere della condivisione e dell'unità. La Sibilla Barbuta, anche detto il coccetto di San Marino, ha parlato. La strada migliore per chi si oppone a questo nuovo Termidoro è ascoltarlo, prendere nota e riflettere. E poi decidere di fare esattamente il contrario. Con spirito giacobino e senza straccetti in umido.
    

24 aprile 2012

La Balena Urbamola e l'Achab coraggioso

Oggi, con un amico del giro della politica, si parlava della strana e sospetta convergenza di scelte e atteggiamenti tra Urbani e Sagramola: unità di accenti, di rinunce, di timori, di pressione bassa, di disarmo bilaterale. C’è un asfissiante odore di gemellaggio in questo micio micio bau bau, in questo silenzio dei non innocenti. Sembrano i cani quando si riconoscono annusandosi il culo. E la prova del magheggio è l’improvvisa uscita di Ottaviani, che oggi ha iniziato a rifilare sberle non casuali ai due Vatussi. Ma c’è un’altra specularità non formale tra i due, un pomiciamento squisitamente politico: sia Urbani che Sagramola hanno puntato più sulle liste civiche che sui partiti di riferimento. Ci può stare che lo abbiano fatto per mettersi al riparo dall’onda dell’antipolitica. Ma non convince fino in fondo. La sensazione è che abbiano puntato a dissanguare i partiti di riferimento - a vantaggio delle liste civiche – per dare maggiore libertà di manovra alla costruzione di un grande centro senza identità e funzionale al mantenimento dello status quo. Il disegno dei poteri forti, a tutti i livelli, è quello di tagliare le ali e costruire un raggruppamento moderato che garantisca la continuità e sia agevolato da sigle ed eletti malleabili e senza appartenenze. Perché è più facile mescolare Cresci Fabriano con la lista Urbani Sindaco che trovare l’amalgama tra gli eletti di Pd e Pdl. Anche perché le liste civiche sono piene di gente che non capisce una mazza di politica e quindi facilmente modellabili dal battito di mani di chi suona la fine della ricreazione. Se ci pensiamo bene, e a costo di essere ripetitivi, la vera partita non è tra centro destra e centro sinistra, o tra Urbani e Sagramola, ma tra Urbamola e tutto il resto. Il vero Laboratorio Marche non era l’alleanza tra il Pd e gli zombi dell’Udc ma un accordo scaltro e di prospettiva dei poteri forti locali. E oggi ha mangiato la foglia pure Ottaviani. Questo significa che la massa critica che si oppone ai poteri forti sta crescendo, quanto meno dal punto di vista numerico, anche se resta politicamente divisa e distante. Sta nascendo una nuova Balena bianca e azzurra. Grande e vorace. Serve un Capitano Achab, un eroe tragico, capace di combattere fino in fondo questo nuovo mostro dei fondali fabrianesi. Se c’è batta un colpo. Senza timori e in tutta fretta.
    

23 aprile 2012

Se la politica è merda...magnate de meno!

Questa campagna elettorale passerà alla storia come la più noiosa del dopoguerra, una natura morta d’autore. Le vecchie campagne a “ferro e fuoco” sono pezzi d’archeologia: strade tappezzate di santini, di foglietti, di lettere alle famiglie, di volantini incandescenti. E intorno alla carta, che girava e rigirava di mano in mano, l’afrore ascellare dei militanti e dei candidati: ogni voto una trincea da conquistare, ogni parola al passante una probabilità di consenso in più, ogni avversario un pericolo da azzannare e combattere con una mano di pelo sullo stomaco. E poi le polemiche a mezzo stampa, i sarcasmi studiati, i colpi sotto la cintura al limite della querela, lo studio ossessivo dell’avversario, dei suoi vizi, delle sue debolezze e dei suoi scheletri nell’armadio. Insomma sangue e sudore sparati dal ventilatore. E poi, la sera, bevute tra avversari, nottate infinite a scagnarare e un gioco di sensazioni che sembrava trascinare tutto e tutti in una sorta di orgia collettiva del consenso e della democrazia. Girare la città e pensare alla politica in questi giorni smuove emozioni quanto un gregge di pecore che attraversa la strada: plance elettorali mezzo abbandonate, manifesti con faccioni spenti da 2 novembre, candidati che si avvicinano carichi di stupoto (lo stupido filosofico in format civitanovese), slogan da rinnovo del mandato condominiale, sindaci in pectore che si evitano per evitare di mostrare il fianco. Proprio come diceva un’anziana signora al figlio un po’ tarato che andava dalla fidanzata: non farti vedere troppo e troppo a lungo perché più ti vedono e più si vedono i difetti. Ecco siamo arrivati esattamente a questo e a confronto il match Carmenati - Sorci del 2007 fu una guerra punica vera. Mi ricordo la sera del loro confronto televisivo prima del ballottaggio: facce tese che si guardavano in cagnesco, Carmenati gonfio come un oste di Certaldo, Sorci scazzato itterico con la mano imprigionata in un continuo sobbalzo. Una partita vera, tesa, furente. Sono passati cinque anni e sembra di stare al Ballo delle Debuttanti: tutto galateo, palle mosce stile febbre alta, intelligenze a chilometro zero e programmi che somigliano ai consigli di Frate Indovino sulla coltivazione della patata gialla. E, ovviamente, manco uno straccio di comizio, con quel palchetto sempre vuoto avanti a Palazzo Chiavelli, giusto per ricordare ai distratti che ci sono le elezioni. Il comizio, un tempo, distingueva il politico vero dal moscecone, l’oratore dall’imbranato, quello con la stoffa dall’ultimo arrivato, il passionale dall’ometto destinato a sparire. Ci sono mille aneddoti sui comizi. Anche a Fabriano, dove si racconta che un oratore comunista locale, preso dalla foga, chiuse la sua performance gridando: “Costruiremo il socialismo dovesse costarci montagne di ossa e fiumi di sangue”. Adesso ossa e sangue sono spariti e abbondano pennette, arrosti misti e caraffe di vinello scadente. Già perché la campagna elettorale è diventata una fiera della ristorazione collettiva, con le idee che invece di passare dal cervello attraversano il cavo orale, arrivano nella pancia ed escono dal culo. E poi ci si lamenta se arriva qualcuno e dice che la politica è solo merda!!!
    

Ciao Luca

Nome omen dicevano i latini. Il nome è un destino, è il segno di ciò che si è. Luca Animobono aveva un animo buono, gentile, tollerante. Era un fabrianese, uno di noi, un albacinello col sorriso. E’ stato sufficiente un istante per spegnerlo. Un istante in una di quelle poche giornata di riposo che si possono permettere i giornalisti. Ci eravamo sentiti al telefono circa un mese fa, per cose di politica ma preferisco ricordarlo giovane studente di ragioneria, mio coetaneo, quando assisteva a qualche nostra accesa discussione politica. Roba da ragazzi un po’ esaltati ed estranei ad altri divertimenti più consoni all’età. Lui rimaneva un passo indietro, a guardarci, con un sorriso a metà tra il compiaciuto e lo stupito. Come se le nostre parole fossero troppe e troppo accese. Sapeva farlo con gentilezza, senza pregiudizio e con quel filo di timidezza che invece di allontanare avvicina e rassicura. Da giornalista ha continuato ad essere il ragazzo di Albacina che conoscevamo. Coi suoi articoli essenziali e piani, con il rispetto per i fatti e le persone e il gusto di descrivere e raccontare senza indulgere al colore e all’eccesso. Se ne è andato senza dire nulla. In punta di piedi come era nella sua natura. Ma troppo presto per aver visto e vissuto abbastanza. Ovunque tu sia in questo momento, Luca dall’animo buono, spero ci siano sempre una penna, un foglio bianco e un sorriso.
    

Sidonia del Piano, la Zia Ballerina nel rogo della cultura

Sidonia Ruggeri, detta Sonia, è stata la vittima predestinata di questa stagione di declino della città e delle sua classe dirigente. Vittima non tanto e non solo delle primarie democratiche, quanto di un ambiente politico che, per tradizione e consuetudine, disprezza le buone maniere, la cultura profonda e l’approccio umanistico. E sfiga volle che Sidonia Ruggeri sia laureata, sia stata docente universitaria e assessore alla cultura per diversi anni. In più, difetto gravissimo, quando parla e scrive non saccheggia e non stupra la lingua italiana. Insomma, quanto basta per essere considerata eretica da un ambiente di maschi semianalfabeti e misogini. Niente a che vedere, ovviamente, con la triste sorte di Giovanna D’Arco: prima di tutto perché la pulzella d’Orleans preferiva la spada al libro, poi per la giovane età dell’eroina di Francia e infine per il nome da ballerina sexy della Ruggeri, che, preso così, sembrerebbe scatenare fiamme d’altra natura rispetto ai fuochi di purificazione. Insomma, più che Giovanna d’Arco una Sidonia del Piano, una Zia distinta e dabbene in questo crepuscolo della fabrianesità. Quando i compagni di partito le hanno acceso il rogo attorno ho pensato che la politica sia solo una scienza triste e scarsa: governata dai disvalori, dai soldi in mano a burini scemi, da realtà rovesciate in cui, come tra le streghe del Macbeth, il bello è brutto e il brutto è bello. Con approccio colto ma molto molto incazzato Sidonia, la Zia Ballerina, ha mandato a quel paese i suoi carnefici e si è rinchiusa a vita privata. Sono scelte che meritano il rispetto ma non il plauso perché fanno soltanto il gioco degli analfabeti che sognano bocche chiuse, code tra le gambe e asini di successo. Per questo, cara Sidonia d’Arco, è importante che ci ripensi. Esca dalla nuova clausura in cui si è volontariamente murata. La tentazione di mollare è forte e magari prevalente. Sono il primo a riconoscerlo perché, per motivi diversi, queste elezioni sono state per entrambi noi, cara Sidonia, una spettacolare e ardente fregatura. Ma ci faccia un pensierino all’idea del ritorno in groppa, quanto meno per bonificare la lingua e le parole, e scongiurare il rischio di trovarsi circondati da bocche di governo capaci di dire solo “se avrei”, “a me mi” e “o fatto”. Molli i libri sul comodino e impugni la spada, per una volta. Gli analfabeti non fanno prigionieri e spingono tutti a diventare come loro. Si salvi chi può. E - come direbbe Totò o qualche candidato sindaco - noi può.
    

22 aprile 2012

Il mesto congedo dei Due Vegliardi

Queste elezioni comunali saranno ricordate, oltre che per l’esercito di candidati al consiglio comunale, pure per lo sparuto gruppo dei desaparecidos, dei non ricandidati e di quelli che hanno fatto perdere le proprie tracce. Ce ne sono destra e a sinistra, ma solo alcuni meritano un’attenzione, per via dei precedenti e dell’abilità con cui sono sopravvissuti al ciclo delle stagioni politiche. Tra questi mi piace ricordare i Due Vegliardi, vere e proprie Salamandre uscite indenni da ogni fuoco. Ne parlo con affetto perché sono sempre stati in mezzo come il pomodoro, eternamente in lizza e in pole position fin dalla notte dei tempi.

Prendete Roberto Bellucci da Ciaramella. Gambe lunghissime, spalle strette e un po’ incurvate, cranio piccolo, voce tonante e manone a badile. Insomma un democristiano senza la fisiognomica democristiana, un trattore a cingoli più disposto al conflitto che alla conciliazione. Se non ricordo male diventa consigliere comunale nel 1976, quando ogni mattina andavo all’Allegretto con il grembiulino blu e il fiocco bianco. Una carriera senza tregua: assessore, consigliere comunale, assessore alla Comunità Montana, consigliere provinciale. Ha sempre usato il corpo per fare politica, giocando la parte dell’intimidatore, abbinata a un cervello indubbiamente fino e a un altrettanto lampante crudeltà d’approccio. Con Sorci giocavano al Gatto e la Volpe: Bellucci a sbregare e Sorci a ricucire. Nel 1995 fu uno dei protagonisti del salasso viventiano ma, nonostante le medaglia al valore, non è riuscito a coronare il sogno di questi ultimi anni: tornare a fare l’assessore. Un po’ per divieto sorciano, un po’ per la piega presa dall’Obitorio Marche. La sua sconfitta non è politica ma anagrafica. Per questo nutriamo seri dubbi sul suo passo indietro, che difficilmente si consumerà nel buen ritiro della Ciaramella. Ma per quanto si possa sbattere, Babbo Tempo scorre e avanza indifferente: tic tac tic tac tic tac.


Seconda Salamandra. Giuseppe Mingarelli detto Peppe, classe 1936. Vecchio ferroviere bolscevico, capocuoco eccelso di indimenticabili Feste de l’Unità, epuratore di ogni fronda interna, artefice di un processo nei miei confronti ai probiviri dell’allora Pds, quando mi incolpò di troppa libertà di parola e di lesa maestà nei confronti del Partito. Nel 1998 incrocia Francesco Santini sulla via di Damasco e si converte alla moderazione, aprendo, da assessore ai lavori pubblici, la sua fase ascendente, ribattezzata “calce e martello”, in onore all’inedito mix di ideologia e cementificazione di cui fu interprete e protagonista. Minuto di statura, un po’ tarchiato, di pelle scura e capello nero imbrillantinato, somiglia a un ballerino di Buenos Aires - al netto di rosa rossa in bocca - e col new look diventa Presidente del Consiglio Comunale, inanellando una gaffe dietro l’altra e scambiando un incarico di garanzia per una postazione da pubblico ministero. Lascia la politica per dedicarsi a una nuova causa: la banca di credito cooperativo. O meglio la vanga come direbbero i fabrianesi più fedeli al nostro cantilenante idioma. Per lui si apre una nuova stagione: Falce e Sportello. In questo allineandosi all’agenda di Lisbona che suggerisce azioni e provvedimenti di invecchiamento attivo.


Insomma, massimo rispetto e affetto per i Due Vegliardi, ma anche in politica bisognerebbe mettere un limite di età. Non dico i 50 anni della leggenda neroniana ma a 60, almeno politicamente, si dovrebbe fare un salto ai giardinetti piuttosto che alla sezione del partito. Bellucci e Mingarelli hanno sforato di molto, ma alla fine hanno mollato l’osso. E già questa è una finestra aperta sul futuro.
    

Superata quota mille: ogni accesso una zona franca e un calcio in culo

Oggi vorrei ringraziare tutti quelli che sono venuti e che vengono a leggere il mio blog che ha ampiamente superato le mille visite, con duecento accessi al giorno negli ultimi tre. Mi permetto una confessione: ho aperto questa pagina per dare uno schiaffo a chi diceva che ero morto, finito, sputtanato e che sarei dovuto tornare a casa ad avvitare lampadine. Poi però ho capito che, oltre a una sana rivalsa, poteva svolgere anche un'altra funzione: raccontare il declino di una comunità attraverso le maschere laide della sua classe politica e lo sforzo difficile di chi si oppone e vorrebbe risalire la china. E in un istante mi sono passate avanti diverse facce e molti sorrisi sardonici. Ho pensato alle fiatelle dei politici che somigliano a una fogna di Calcutta dopo il passaggio dei Monsoni. E mi son detto: questi cani spelacchiati travestiti da leoni resistono anche allo zero assoluto. Resistono a tutto tranne che a una risata, vanno fuori di testa per un nomignolo e uno sfottimento, per una battuta, per un tocco di penna che ne testimoni la miseria d'animo e di cuore. Vorrebbero replicarmi ma non lo fanno perchè li appendo al filo del bucato. Vorrebbero zittirmi ma non ci riescono perchè faccio il cazzo che mi pare. Vorrebbero comprarmi ma non possono perchè si compra la fedeltà mai la libertà e l'intelligenza. E questo, allo stato attuale, è il piccolissimo contributo che posso dare al cambiamento della mia città. Chi mi legge non fa contento me ma rifila un calcio in culo a chi pensa che Fabriano sia il suo scendiletto e la sua sputacchiera. Ricordatevelo e grazie di cuore!
    

21 aprile 2012

Urbamola, il candidato vatusso che teme l’alligalli

Il pallino di un confronto tra i candidati a Sindaco Maurizio Benvenuto lo coltivava da tempo. Lo so per certo, perché mi chiese il numero del candidato leghista assai prima del nostro default di lista. E non c’era il minimo dubbio che sarebbe riuscito a far ballare l’alligalli ai candidati. In fondo basta scrutarne le fattezze e la postura per coglierne la tigna: sguardo minaccioso da toro da combattimento, baffo di ferro che ne registra le variazioni d’umore, capelli scuri da eterno ragazzo e il corpo proteso provocatoriamente in avanti, come di chi si prepara a un alterco o a una disfida. Senza volerlo Baffo di Ferro ha ottenuto l’obiettivo e il colpaccio. Con una fava due piccioni. E se prima erano in sette a ballare l’alligalli adesso sono in cinque a ballare l’alligalli. Già perché solo cinque candidati su sette si sono presentati al Cinema Montini per il confronto con la cittadinanza. Allora uno pensa che abbiano disertato i candidati delle liste minori che, magari, devono correre più degli altri per compensare limiti di struttura e organizzazione e quindi non hanno tempo per starsene seduti. Noooooooooo! Manco per idea! Erano assenti proprio i due che non ti aspetti, i Vatussi che ogni due passi fanno sei metri: Urbani e Sagramola. Vista la fuga sarà meglio congedarli da Vatussi perché, da stasera, somigliano assai di più a due Gamberoni che retrocedono avanzando e avanzano retrocedendo. Già, perché la sensazione è che abbiano concordato l’assenza, quasi per sminuire l’evento e retrocederlo a serie cadetta. E basta questo ad avvalorare l’appello di stamattina dell’ultracomunista Venturelli a non votarli. Attenti a quei due, verrebbe da dire parafrasando una celebre serie televisiva. Diciamocelo, oggi 21 aprile dell'Anno del Signore 2012 è apparso sulla scena un nuovo candidato Sindaco, il frutto di una fusione fredda, l'effetto collaterale di un esperimento di genetica politica: Urbamola. Un candidato trasversale, bicefalo, centrista, tutto pappa e ciccia, versione locale della formula montiana. Un candidato unico che merita una risposta elettorale repubblicana: chiunque ma non loro. Condivido e sottoscrivo. Anche alla luce delle motivazioni che li hanno spinti a disertare. Urbani perché Baffo di Ferro ha un contenzioso col Comune. Come se il Benvy – uomo di potere navigato e scaltro - li avesse invitati a parlare segretamente di quello e a esporsi in materia. Sagramola, pare, perché partecipa solo se partecipano tutti e se tutti si siedono vicini vicini e caldi caldi. Quasi che le elezioni fossero una rassicurante coperta di Linus e non una lotta sanguinosa per il potere. Fatto sta che hanno dato buca ma nella buca rischiano di inciamparci di brutto. Tanto di cappello quindi a tutti gli altri. Che saranno anche piccoli ma di certo cresceranno. In barba a quelli che per viltà e scacaccio fecero il gran rifiuto.
    

Io, gli altri e il 5 Stelle

Ieri mattina brusco scambio di messaggi con uno dei candidati a Sindaco. Ci siamo rinfacciati alcune cose e chiariti su equivoci pregressi. Insomma, tutto bene madama Dorè! Mi ha fatto pensare soltanto un passaggio del primo sms ricevuto da lui: "Dai, adesso vai con Grillo, così ridiamo". Mi ha fatto pensare perché - conoscendo la miseria umana, morale e intellettuale della classe politica fabrianese - ci ho rivisto il solito, oliatissimo meccanismo del discredito personale e, con ogni probabilità, il segno di un pettegolezzo politico che sta prendendo corpo in città circa le mie intenzioni attuali e future. Colgo quindi l'occasione per stappare le orecchie a qualcuno e mettere i necessari puntini sulle i.
1. Sono iscritto alla Lega Nord dal 2008 e dal 2009 sono socio militante del movimento.
2. Il mio punto di riferimento politico non è Beppe Grillo ma Roberto Maroni e spero che con la sua guida la Lega Nord possa uscire dal pantano in cui è caduta.
3. Tutto quel che dico lo dico da uomo libero e da leghista convinto

Detto questo veniamo al Movimento 5 Stelle.
Diversamente da altri spero che il Movimento 5 Stelle abbia successo e metta radici perché coinvolge e aggrega persone che possono dare molto alla città e alla politica.
Diversamente da altri non mi aggrappo a un divieto di accesso o di sosta per sputtanare un movimento da cui si dovrebbe dissentire politicamente e non stupidamente.
Diversamente da altri non diffamo Joselito Arcioni che ho avuto modo di conoscere e apprezzare come persona mite e rispettosa.
Diversamente da altri non temo il furore messianico di Sergio Romagnoli con cui mi confronto da tempo e senza reciproche finzioni.
Diversamente da altri penso che l’antipolitica sia un’azione di legittima difesa contro la cattiva politica e non me la sono mai presa col termometro quando avevo la febbre.
Diversamente da altri ho i coglioni pieni di mediatori, calmieratori e insabbiatori. Preferisco mille volte la santa ingenuità di chi vuole partecipare, discutere e contare.
Diversamente da altri non spero che il 5 Stelle faccia passi falsi. Anzi spero che dopo l’ebbrezza elettorale siano capaci di resistere alla stanchezza e al rompete le righe.
Diversamente da altri mi prendo la libertà di rompergli i coglioni se faranno cose che non mi piacciono e di plaudirli se sapranno rappresentare bene gli interessi dei cittadini
Diversamente da altri mi rallegro quando l’offerta politica si amplia e mi dispiace se si impoverisce.
Diversamente da altri preferisco chi liberamente si aggrega e dà calore alla politica piuttosto che chi costringe le persone ad aggregarsi usando come un’ascia il ricatto del lavoro.

E adesso cari politici col cazzo moscio dite, fate e brigate pure. Anche alle mie spalle. Tanto un vaffanculo, come ben sapete, non l’ho mai negato a nessuno
    

20 aprile 2012

Tutanklaudion, l'eterno ritorno del Faraone Bianco

E’ una campagna elettorale senza emozioni e senza erezioni. Barzotta fuori e dentro. Slogan elettorali da ludo parrocchiale, senza anima, scopiazzati altrove e utilizzati almeno mille volte in ogni latitudine. E se per caso ti ritrovi in mano il santino di qualche candidato ti viene subito da fare le condoglianze ai familiari per il lutto irreparabile. Non fiori ma opere di bene. Ma anche con la bonaccia c’è sempre un'increspatura da gustare, qualche Lazzaro risorgente che regala un sussulto, una mummia bendata cui la sorte ha dato le chiavi che aprono a un sorriso. Oggi, tanto per dire, mi è caduto lo sguardo sul Corriere Adriatico. Foto di Claudio Biondi e titolo degno di un foglio satirico: “Le Grandi Opere sono merito mio”. Mi sono sbellicato da solo e senza bisogno di solletico indotto dall'esterno. Cosa che accade solo in due circostanze: per sopraggiunta malattia mentale o per genuino sollazzo. Nel mio caso presumo sia sollazzo ma non ho certezze in proposito. Claudio Biondi è stato, di certo, un indimenticabile Assessore ai Lavori Pubblici, un genio delle pavimentazioni costose e dei marciapiedi modello Babilonia, un solerte asfaltatore di buche, sempre col camion di breccia pronto all’uso e la battuta affabulante da scavezzacollo che la sa lunga. Ma sinceramente di lui non si ricordano visioni urbanistiche da faraone egizio, pianificazioni particolarmente alate o indelebili impronte architettoniche in stile Brunelleschi. Men che meno grandi opere, che Fabriano non ha mai visto neanche in cartolina e che di certo non sarebbero mai potute nascere dall’attivismo bertoldesco di Claudio Scoccimarro (suo nomignolo storico ma tuttora di incerta origine). Immaginate quindi che spettacolo immaginifico pensarlo conciato da Faraone che ordina e comanda la costruzione di dighe sul Giano, sfingi in Piazza Bassa, piramidi alla Serraloggia e fontane regali al Piano! Un Claudio Biondi trasformato d’incanto in Tutanklaudion, che attraversa la città col suo carro decorato di geroglifici, di isidi e osiridi; i capelli color mogano - pericolosamente sensibili agli aliti di vento e a improvvise ed esilaranti verticalizzazioni - e gli occhi da divo scolpiti da un passaggio secco e spietato di eyeliner. Basterebbe questo colpo d’occhio virtuale a risolvere definitivamente il caso ma lo spettacolo vero è che Tutanklaudion se ne fotte alla grandissima di tutto e tutti. Fondamentalmente è uno che fa della sconfitta un fiore all’occhiello; anzi un bianco fiore vista la sua storica democristianeria: uno dei pochi colonnelli del merlonismo a non essere sbarcato nell’UDC o nel Pd; capace di soccombere per una minchiata di voti al suo gemello Sorci; presidente in maglione arancio (sti maglioni che palle…) del Fabriano basket con la testa in serie A1 e il culo in serie D; sfidante senza speranza del Prescelto alle primarie del Pdl, affrontate e archiviate con teatrale sconfitta. E oggi autoproclamato Faraone Bianco di una città che si consegna ai Sette Nani. Ma diciamocelo forte e chiaro: sempre meglio Faraone Bianco che Biancaneve! Tutanklaudion ti preghiamo di non asfaltarci pure le favole. Lasciaci vivere felici e contenti. Come in un racconto a lieto fine
    

Mastro Sandrone da Santa Maria, ti arrivano i voti o se ne van via?

Raccontano le leggende locali che Mastro Marino, il fabbro mite, dispensò consigli e bontà fino a pacificare due fratelli, l’un contro l’altro armati tra Poio e Castelvecchio, e alla fine nacque Fabriano. E’ una favoletta senza pathos che non addormenterebbe manco un bimbo stremato dalla stanchezza, l’archetipo di una democristianeria originaria che mi ha reso sempre antipatica sta cazzo d’incudine con l’omino che martella, con sotto il culo un ponticello. Ma non tutti i Mastri vengono per nuocere. Ce ne è uno a cui sono affezionato. Quando lo vedo mi fa pensare a Mastro Titta da Senigallia, il celebre esecutore di sentenze capitali per nomina papale che, ogni volta che c’era da mozzare una testa, indossava una splendido mantello scarlatto. E’ lui, proprio lui: Mastro Sandrone da Santa Maria. Al secolo Sandro Romani, Assessore ai Lavori Pubblici messo in quarantena dal cerchio magico demouddiccino. Mi fa pensare a Mastro Titta perché ha qualche piatto freddo da consumare, una rabbia tenuta a freno da robuste pareti, un desiderio impetuoso di lame affilate e di voti da riversare lontano dagli occhi e lontano da cuore. Con Mastro Sandrone da Santa Maria ho un’antica consuetudine. Da quando, nel 1994, mi dimisi da consigliere comunale in dissenso con l’allora Pds. Il primo dei non eletti era proprio Romani, che già aveva sbandierato la vocazione rifondarola, e mi dimisi proprio perché subentrava lui. Giusto per fare un dispetto al mio ex partito e togliergli un consigliere comunale, per intenderci. Da quel giorno Mastro Sandrone ha divorato rotaie come una locomotiva istancabile: sopracciglione Amazzonia Style eternamente aggrottate, stazza da campione di sumo appesantito da un eccesso di pappardelle, look da salumiere di Norcia coi coltelli arrotati di fresco e qualche ombra di sangue sul camice bianco. Comincia a sgomitare con la lista “Ricostruiamo Fabriano” o giù di lì; poi nel 2002 si distingue come ispiratore di un’altra lista civica di sinistra, per contrastare l’alba dei Sorci Verdi; nel 2007 torna nelle sante grazie del potere e dà man forte alla riedizione del Santissimo Barbuto diventando vicesindaco e assessore ai lavori pubblici. Ma è nel 2012 che pianifica la mossa del cavallo e scarta di lato, per vendicarsi della gran rimpatriata bianca: fa entrare il mite Paoletti nel giro delle primarie del Pd, poi lo fa uscire indignato dalla porta democratica e, ancora, rientrare serafico da candidato sindaco della sinistra infuriata, convinto di avere il Sel in una mano e le palle di Sagramola nell’altra. Una partita di giro in cui sbaglia a fare i conti. Il Sel se lo piglia Rossi e le palle di Sagramola migrano verso altre falangi comunque strette e stringenti. Ma Mastro Sandrone da Santa Maria non demorde: organizza l’ennesima lista civica, intestata a Paoletti, e provvede alla riesumazione del simbolo di Rifondazione Comunista, che riposava in pace da anni. Un capolavoro a metà, dimezzato dalla fretta, dalle gatte presciolose e dalla voglia comprensibile ma scivolosa di sferrare un gancio destro all’Obitorio Marche. Il risultato è che la sinistra che non appoggia Sagrestamola si è divisa in tre parti: governativi, trotskisti e antagonisti. Della serie: come buttare nel cesso un 10% di voti e trasformare il consenso in prefisso telefonico. Ma un colpaccio Sandrone lo mette comunque a segno: candidare Barbara Imperiale, la Dolores Ibarruri della vertenza Ardo, una delle poche che ha lottato e inveito invece di usare la cassa integrazione per portare a pisciare i cani ai Monticelli. Basterà? Non credo. Nel frattempo, in attesa degli eventi elettorali, Mastro Sandrone da Santa Maria è diventato di colpo più silenzioso, lo sguardo lievemente obliquo e il fiato sospeso di fronte a una scommessa che può riservargli la polvere o l’altare. La sentenza finale s’avvicina e ha pure indossato il mantello scarlatto, perché anche il rischio ha bisogno di uno stile adeguato al momento. Ci piacerebbe essere profeti o figli di profeti per rispondere già ora a una sola domanda: Mastro Sandrone da Santa Maria ti arrivano i voti o se ne van via?
    

18 aprile 2012

Più magri e più sani col monaco Ottaviani

Marco Ottaviani è un uomo tutto in verticale che, se fosse vissuto in Spagna tra ‘500 e ‘600, avrebbe fatto la felicità e la fortuna di un pittore come El Greco, abituato a stirare al massimo le forme della sua sofferta e ombrosa ritrattistica. Magro d’una magrezza quasi interiore - e consumato da un’ansia sublimata nel linguaggio criptico, a sua volta insaporito da aromi di tabacco forte - Ottaviani è di sicuro il più enigmatico ed elitario dei politici fabrianesi. Eternamente agghindato di scuro può somigliare, al tempo stesso e senza destare scandalo o contrasto, a un monaco cistercense pronto alla crociata o a un ufficiale della Stasi dedito alla repressione del dissenso. Serio e quasi monumentale nonostante la vocazione al canto, capace di far cadere da un pero decorato d’oro anche le parole meno ispirate, incarna fisicamente l’idea che è il contenitore a fare il contenuto e non il contrario. Ed è anche questa la ragione del fascino che esercita su molti fabrianesi. Sarebbe quindi limitante – come fa qualcuno che ne invidia il cerebro grigio nero - ridurre il tutto alla professione medica, al pedigree democristiano del padre o alla dimestichezza coi corridoi e le curie. Cose che in provincia hanno il loro peso ma che non spiegano fino in fondo un certo suo magnetismo, che non è parentale ma personale. Se non fosse ortodossamente cristiano passerebbe per eretico, un Fra Dolcino senza coltelli trasferito, fuori tempo massimo, dalle valli frontaliere del Piemonte alle pedemontane appenniniche. Assieme, cinque anni fa, fondammo il Caffè che, alla fine, divenne una roba imbevibile a uso e consumo di piccole trame. Lui ne uscì alla grande, con la postura da zarino pronto all’investitura e una insopprimibile tendenza a ballare da solo. Di fondo Ottaviani ama fare il cazzo che gli pare (e questo gli fa onore), è incompatibile con logiche di coalizione e caratterialmente scontroso, nonostante le serate di gala e il codazzo benedicente di ammiratori. Mi ha incuriosito in modo particolare il simbolo elettorale, perché contiene un contrasto sfuggito ai più. Infatti c’è troppo colore per i suoi gusti e qualcosa che stona con quella magrezza via via più pasoliniana. La tecnologia, richiamata dal giovanilistico ed evocativo 3.0, è geneticamente ariosa, gioiosa, superficiale e un tantino fru fru. Esattamente il contrario di Ottaviani, che ultimamente somiglia sempre di più a un annegato appena sottratto ai fondali di un lago canadese. Per onorare la vecchia e spietata legge del contrappasso Marco lo Scuro ha candidato, come capolista, l’ottimo Sergio che di cognome, pensate un po’ il colmo, fa Solari! Ma gli è andata bene comunque perché il capolista è un ragazzo segnato dal nero di un’antica e pulsante fede missina. Insomma, il destino di Ottaviani è più cromatico che politico e poi il nero è traversale per definizione: non è un colore specifico ma di tutti assorbe la banda luminosa. Che è il sogno e il segno di Marco Ottaviani: una città che, scura nell’animo e nel volto, converge attorno al suo inflessibile e inappetente eremita. E alla fine, al di là dei colori, sceglieremo tra il digiuno ottavianeo, le pennette sagramolesche, i catering urbanici e la voglia matta e libertaria di mangiare a casa senza invitare nessuno. Tiè!
    

Sorci verdi fritti alla fermata dell'autobus

Mentre tutti si preparano alla roulette elettorale - come fosse la notte di San Silvestro, con tanto di abiti nuovi, tovaglie fresche di bucato e forchette pronte a nuovi assalti – un pensiero di saluto insolente credo vada dedicato a Roberto Sorci, che dopo dieci anni molla a malincuore l’osso. E’ difficile riassumere la sua opera di amministratore locale, saltando di palo in frasca in poche righe. Sicuramente sarà rivalutato dalla comparazione con il successore. Chiunque esso sia. Personalmente ho sempre visto la politica coi toni michelangioleschi dei corpi in tensione e della fisiognomica lombrosiana. Somatizzare la politica perchè, seguendo Nietzsche, “vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza”. Sorci è stato una rappresentazione corporea della fabrianesità: tendenza amministratore di condominio che sussurra a pochi centimetri dalla narice; eternamente sorridente e socievole ma con predisposizione all’incupimento permaloso e vendicativo, che molto si addice agli egocentrici di provincia; di visione ombelicale, sostenuta da uno stock di capelli svolazzanti da genialone apparente e barba da profezia incompiuta e rimandata. Strafottente e poliedrico: scarpe gialle su grisaglia, cravatte cromaticamente spinte e contrastanti con una logorrea inceppata e carica di subordinate che si mangiano le principali, depistano l’interlocutore e lo spingono dritto dritto all’emicrania. Ci sono mille aneddoti dei Sorci verdi che ci ha fatto vedere. Prima da sgomitatore e poi da sindaco: le superbollette telefoniche per avvelenare i pozzi della politica; i presunti e mai dimostrati giri in altalena dalle parti di Via Dante, il viaggio assieme ad Antonio Merloni a Londra per recuperare una predella del Polittico di Valleromita di Gentile da Fabriano, forse confuso col polanco nostrano di Valleremita; i discorsi castristi alle commemorazioni del 25 aprile; le feste sikh col turbante arancione; l’invenzione dei cinesi che si consultavano con lui – Sor Ci Min - per decidere sulla Ardo; e le mille e mille alzate di ingegno che ne hanno scandito la presenza sulla scena politica. Lo confesso: con Sorci mi sono sempre divertito da morire. Rompergli i coglioni è stato un diletto favoloso: gli ho affibbiato decine di nomignoli, l’ho combattuto più per il gusto dannunziano dell’invettiva che non per approfondita disamina di atti e scelte, l’ho provocato per farne uscire l’indole da cattivo nascosta dal gesto ridanciano. Ma quando una persona suscita attenzione e sfottimento vuol dire che trasmette qualcosa. Se penso a Ottaviani, a Urbani o a Sagramola mi rendo conto che non hanno nulla che possa scatenarmi il dileggio, l’invettiva o l’azione dispettosa. I Sorci verdi non li vedremo più e mancano pochi giorni per la fermata dell’autobus al capolinea. Lo ammetto, mi dispiace. Ma adesso si aprono nuovi orizzonti sul futuro che forse, per una volta, ci vedranno dalla stessa parte della barricata, a coltivare qualche supercazzola prematurata di cui questa città, promessa sposa di politici incolori, avrà sicuramente bisogno. E lo scappellamento non sarà solo a destra, ma pure a sinistra e al centro.
    

17 aprile 2012

Emanuelino, il putto SEL_lerino

Fabriano è un borgo piccino picciò. La gente taglia, cuce e mette in posa. E parla di gran culo e pessimo cuore. Mi hanno raccontato che qualche giorno fa, Emanuele Rossi, il Putto SEL_lerino, mi ha alzato il cartellino rosso, corredato di immancabile erre confindustriale: "Simonetti non deve più pavlave e apvive bocca". Pensavo fosse il titolo della sua nuova canzone per lo Zecchino d'Ovo ma siccome l'Antoniano di Bologna è un po' lontano l'ho presa sul sevio! Ma solo per qualche istante! E sono scoppiato a ridere per una sorta di improvviso solletico all'altezza del culo. Non a caso la bocca parla quando il culo brucia. E al Putto evidentemente scotta al limite delle ragadi. Ma dico...lo avete presente Emanuele Rossi? Un putto rinascimentale più adatto alla Camera degli Sposi del grande Andrea Mantegna che alla lotta politica: crine biondo da bambino Barilla, spalle da goniometro tirato al massimo, occhietti nascosti da montatura a la pagè, quattro peli in faccia modello pubertà inceppata e i tratti da furetto in cerca di topolini. Pensate quindi cosa mi abbiano pututo suscitare le sue parole. Roba da far trombetta col culo come avrebbe detto il ghibellin fuggiasco. Ma attenti a non sottovalutarlo perchè non è propriamente un gatto preso. Basti pensare a come ha fottuto il SEL alla vecchia guardia vendoliana. Cose di tutti i giorni ma che ben descrivono l'istinto di un ex ragazzo che ha fatto propri tutti i vizi della vecchia politica che tanto aspramente critica e maledice. Uno che, a dar retta al vecchio Sorci, si fa portare la colazione in camera alle dieci di mattina. Si desti Emanuelino, il lattino è pronto e il Putto è servito! Meglio del Nesquik la scelta del simbolo per le Comunali. SEL per il Bene Comune: più Pampers per tutti! Uèèèèèè. Uèèèèèè.
    

16 aprile 2012

Giancarlone Pastinbianco e le pennette al dente nella notte triste

Nella piovosa notte di venerdì la città è stata scossa dalle parole roventi di Beppe Grillo, un urlatore senza moderazione che sta a Fabriano come Giampiero Galeazzi alla danza classica. Nel frattempo – come da resoconto del Messaggero -, nei dintorni delle plance elettorali, un uomo; un candidato zitto e chiotto trascorre le ore attaccando manifesti di propaganda. Una notte umida e triste tra colla, scope e secchi, trascorsa assieme a buoni amici richiamati alle antiche opre della politica. E dopo tanta fatica low profile tutti a Casa Sagramola per un piatto di pennette calde in amicizia. Niente a che vedere, ovviamente, con i pasti leghisti a base di ossi di maiale e culatte d’orso. Altro mondo. Altre storie. Da osservatore dispettoso mi sono immaginato la scena: clima da refettorio, sommessa preghiera prima del pasto e poco vino, liquido demoniaco e peccaminoso. Uno scampolo di ascesi cattolica fatto di pennette in bianco e olio buono, una grattata di cacio ma non troppo e tante domande senza risposta: glia famo? Gna famo? Vincemo? Perdemo? Pareggiamo? Congettura sbagliata perchè a Casa Sagramola dicono non si sia vista pasta in bianco ma urticanti penne all’arrabbiata! Roba da estremisti, da ribellione arteriosa, da scatenamento dell’ormone del consenso politico. Ma forse c’è qualcosa di politicamente compensativo nel menù serale del candidato democratico, il desiderio di una scossa che lo rianimi da questa anemia iniziale. Giancarlone Pastinbianco ha bisogno di aromi e spezie, di un sogno piccante che duri almeno il tempo della campagna elettorale. Il navajo Joselito promette feroci cacce al bisonte partitico; Ottaviani dispensa giovanilismo I Phone; Urbani una monarchia populista “made in me medesimo”. E Sagramola? C’è dell’altro oltre alla colla in amicizia e le pennette al dente? Dicono che Giancarlone, nelle sue uscite pubbliche, si rivolga di frequente agli ultimi della società. Ma, notoriamente, gli ultimi saranno i primi solo nell’aldilà. E forse è il caso che ne tenga conto visto che si vota a Fabriano e non nella Valle di Giosafat. Amen
    

14 aprile 2012

Minchionne Style per il Migliore dei Brachetti

La prima volta che ho visto in azione Urbano Urbani correva l'anno 2007. Erano passati pochi giorni dal primo turno delle comunali. Carmenati era avanti di un'incollatura su un Sorci ammaccato dal voto ma sempre tignoso come un mulo. Fatti due conti Budino aveva raschiato completamente il barile e già erano in corso i tradimenti dei forchettoni bianchi. Sulla vittoria di Carmenati non avrebbe scommesso nessuno, manco un drogato di videopoker con le pezze al culo per debiti di gioco. Nessuno tranne uno: Urbano Urbani. Me lo ricordo nella sede dell'UDC a Santa Maria in una sera di primavera. Sette o otto giorni prima del ballottaggio. Seduto a un tavolo, con un grande foglio ricamato di righe e spazi, a dare ordini tassativi come un generale tedesco nel bunker di Berlino. E intorno le occhiate smarrite della vecchia guardia politica, a metà tra l'appenato e l'inorridito di fronte a tanto volontarismo da ultimo arrivato ma da primo della classe. Non lo avevo mai visto prima e mi venne spontanea una domanda: "ma chi cazzo è sto fenomeno"? Ma subito mi resi conto che quel parvenu non sarebbe sparito nel gran tonfo carmenatesco. Non per capacità politiche, tuttora ignote anche agli osservatori più indulgenti, ma perchè divorato da un narcisismo che, se avesse un filo di tette, lo spingerebbe anche a fare l'annunciatrice televisiva (Enzo Biagi docet). Nell'autunno 2007 gli dedicai un articolo sull'Azione, chiamandolo Papa Urbano, per via del cambio repentino di rotta che lo stava trasformando da generale prussiano in ecumenico pastore d'anime e di voti. Cambi di rotta senza cambiamento, perchè Urbani è un Arturo Brachetti che passa da un profilo all'altro, da un vestito all'altro, senza lasciare mai una scia di decisione amara, di mutazione profonda, di notte dell'Innominato che risolve dilemmi interiori. Piuttosto ti lascia dentro una persistente sensazione di matrioska, come se per conoscerne la natura più profonda fosse necessario cercare un'identità dentro l'altra, fino a giungere a un minuscolo del tutto indecifrabile e forse irrilevante. Oggi è un candidato sindaco con le scarpe chiodate, che ha ottenuto quel che desiderava, con trasporto manifestamente erotico, da cinque anni: essere il numero uno, vedersi con la fascia tricolore a prescindere dai numeri e dal voto, poter dire ho vinto perchè sono il Re Sole di Nebbiano. E vincere anche perdendo, spacciando la gran bufala della fabbrica che non si può lasciare. E se non ci fossero le favole antiche, la volpe e l'uva, qualcuno ci crederebbe pure alle panzane del Migliore. Un Migliore in maglioncino d'ordinanza, per l'ennesimo travestimento emulativo: presentarsi come il Marchionne locale, il capitano d'industria che prende per mano il volgo disperso che nome non ha e gli martella i coglioni sull'incudine di Made in Fabriano. Ma come diceva mio nonno è illusorio farla sotto la neve sperando di nascondere il misfatto, perchè prima o poi la neve si scioglie e restituisce quel che non si doveva vedere. Basta un solo istante a fare di Marchionne un Minchionne e trovare un bimbo che grida: mamma il re è nudo!
    

13 aprile 2012

La notte di Josi, navajo buono che non finirà nelle riserve

“Questa o quella per me pari sono” avrebbe cantato, stasera al Teatro Gentile, il Duca di Mantova del Rigoletto verdiano. Ma, causa improvviso annullamento della compagnia di Baltimora, non udiremo i gorgheggi del conte di Ceprano, del cavaliere Marullo e del cortigiano Borsa. “Bufera sul Sindaco” scrivono i giornali, ma dopo averlo visto stamattina, zampettante e gattesco, parlare di bufera sembra quantomeno eccessivo. Chi di certo gode dello schiaffo al melodramma è il Movimento 5 Stelle che stasera, rigolettianamente, ospita Sparafucile, il Beppe Grillo nazionale che solo con la sua presenza e i suoi furori sposterà almeno un punto e mezzo di percentuale a favore della lista stellata. Bisogna dirlo: questi ragazzi del 5 Stelle oltre a essere disinibiti e accorti hanno pure un gran culo. Si prenderanno i voti dei leghisti orfani del loro simbolo; voti che non andranno a Urbani manco se resuscita da Roma antica lo chef Apicio, perché la protesta cerca altra protesta e non s’imborsa con libagioni da armatore di Pozzuoli. In più con abilità da navigatissimi hanno piazzato Sparafucile proprio nel momento d’avvio della campagna elettorale, quando l’onda d’urto del vaffanculo grillesco si abbatterà su candidati ancora intenti a trovare il fotoritocco giusto e un altro campanile fallico vicino a cui farsi ritrarre. In più, cosa non di poco conto, hanno un candidato sindaco che anche fisicamente riassume l’anomalia del Movimento 5 Stelle: Joselito Arcioni. Nome tropicale, da bodega cubana, cognome da accoltellatore pisano e tratti somatici da indiano navajo. Se penso ad altri candidati mi cadono le noci ai piedi: in abito talare, conformisticamente calvi, con lievi alettoni di crine sui lati, le voci pensose di chi non ha mai incontrato un pensiero che sia uno e il fare benedicente che tanto si adatta a una città di omertosi leccaculo. E’ anche per queste ragioni, puramente mediatiche, che il Movimento 5 Stelle farà il pieno. Una cosa è certa: se il movimento 5 Stelle saprà tenere in vita l’entusiasmo di questa fase di stato nascente, anche quando sopraggiungerà la naturale depressione post voto, un fattore di nuova politica metterà radici in città. Altrimenti, come spesso accade, gli indiani dovranno rinchiudersi nelle riserve a bere “acqua di fuoco” e a consumarsi di rimpianti. Ma siamo sicuri che Josi, il navajo buono, non si farà trascinare sul fondo del Sand Creek. O quanto meno lo speriamo. Augh!
    

12 aprile 2012

I bruciori del giovane Werther





Negli ultimi giorni è riapparso un antico fenomeno autobiografico: l’acidità di stomaco. Complice la faccenda delle liste alle comunali, e mie conseguenti dimissioni dal segretariato leghista locale, ho percepito di colpo la familiare, seppur dimenticata, risalita d’acido cloridrico. Memore dei miei trascorsi leninisti mi sono inoltrato la ferrigna domanda del grande bolscevico: Che fare?


Что делать?
Portare il cane a pisciare nel giardinetto pubblico? Nooooo. Sono troppo giovane! Aggregarmi a qualche sodalizio buddista per ritrovare le ragioni di uno spirito incrinato dalle polemiche? Noooo, troppo beat. Fondare col sindaco uscente Sorci una congrega di sommozzatori dediti al boicottaggio dei nuovi eletti? Gustoso ma scontato!



Come al solito le risposte efficaci ai grandi dilemmi si nascondono nelle credenze della cucina. Eccola la polvere redentrice!!! Il bicarbonato di sodio! Il Sale della Provvidenza: bianchissimo, quasi nevoso, che lascia in bocca un retrogusto di mare, di pesce, di cane incimurrito. Si fa largo in natura grazie a un legame chimico debolissimo e un idrogeno sempre pronto alla diaspora che lo rende irriverente, bistrattato ed estraneo agli ottetti perfetti da gas inerte. C’è chi lo usa per il pediluvio, chi per disinfettare frutta e verdura, chi come additivo per ricette.



Provate invece a scioglierne un cucchiaio in acqua, possibilmente senza limone per insaporirlo perché sennò a digerire è il bicchiere. Mescolatelo bene, turatevi il naso e ingozzate. Pochi istanti e le mille bollicine assiepate saranno pronte a spandersi nella forma fantozziana del rutto. Il bicarbonato è poliedrico: serve per sopravvivere ai cacacazzo, agli stronzi, alle lingue fecali, alla vita difficile e alle delusioni della politica. Tutti fenomeni che alterano i succhi gastrici. Fa comodo pure per sopportare Monti e ho detto tutto.



Insomma è l'unica Cosa Bianca che non rende moderati. Non fa Casini e tira fuori umori e rumori viscerali. Questa pagina sarà il mio bicarbonato virtuale, la forma scritta di un flato esistenziale, estetico e politico che, dopo quattro anni di parole meditate, consegno al volto inorridito di chi mi voleva nell'armadio dei cani. I'm sorry: non sono cane ma gatto e cavallo. E ho molte vite. Quindi, bicarbonati, citrati e acidità a piene mani. Un rutto libero per tutti. Un rutto libero che libera tutti.