Marco Ottaviani è un uomo tutto in verticale che, se fosse vissuto in Spagna tra ‘500 e ‘600, avrebbe fatto la felicità e la fortuna di un pittore come El Greco, abituato a stirare al massimo le forme della sua sofferta e ombrosa ritrattistica. Magro d’una magrezza quasi interiore - e consumato da un’ansia sublimata nel linguaggio criptico, a sua volta insaporito da aromi di tabacco forte - Ottaviani è di sicuro il più enigmatico ed elitario dei politici fabrianesi. Eternamente agghindato di scuro può somigliare, al tempo stesso e senza destare scandalo o contrasto, a un monaco cistercense pronto alla crociata o a un ufficiale della Stasi dedito alla repressione del dissenso. Serio e quasi monumentale nonostante la vocazione al canto, capace di far cadere da un pero decorato d’oro anche le parole meno ispirate, incarna fisicamente l’idea che è il contenitore a fare il contenuto e non il contrario. Ed è anche questa la ragione del fascino che esercita su molti fabrianesi. Sarebbe quindi limitante – come fa qualcuno che ne invidia il cerebro grigio nero - ridurre il tutto alla professione medica, al pedigree democristiano del padre o alla dimestichezza coi corridoi e le curie. Cose che in provincia hanno il loro peso ma che non spiegano fino in fondo un certo suo magnetismo, che non è parentale ma personale. Se non fosse ortodossamente cristiano passerebbe per eretico, un Fra Dolcino senza coltelli trasferito, fuori tempo massimo, dalle valli frontaliere del Piemonte alle pedemontane appenniniche. Assieme, cinque anni fa, fondammo il Caffè che, alla fine, divenne una roba imbevibile a uso e consumo di piccole trame. Lui ne uscì alla grande, con la postura da zarino pronto all’investitura e una insopprimibile tendenza a ballare da solo. Di fondo Ottaviani ama fare il cazzo che gli pare (e questo gli fa onore), è incompatibile con logiche di coalizione e caratterialmente scontroso, nonostante le serate di gala e il codazzo benedicente di ammiratori. Mi ha incuriosito in modo particolare il simbolo elettorale, perché contiene un contrasto sfuggito ai più. Infatti c’è troppo colore per i suoi gusti e qualcosa che stona con quella magrezza via via più pasoliniana. La tecnologia, richiamata dal giovanilistico ed evocativo 3.0, è geneticamente ariosa, gioiosa, superficiale e un tantino fru fru. Esattamente il contrario di Ottaviani, che ultimamente somiglia sempre di più a un annegato appena sottratto ai fondali di un lago canadese. Per onorare la vecchia e spietata legge del contrappasso Marco lo Scuro ha candidato, come capolista, l’ottimo Sergio che di cognome, pensate un po’ il colmo, fa Solari! Ma gli è andata bene comunque perché il capolista è un ragazzo segnato dal nero di un’antica e pulsante fede missina. Insomma, il destino di Ottaviani è più cromatico che politico e poi il nero è traversale per definizione: non è un colore specifico ma di tutti assorbe la banda luminosa. Che è il sogno e il segno di Marco Ottaviani: una città che, scura nell’animo e nel volto, converge attorno al suo inflessibile e inappetente eremita. E alla fine, al di là dei colori, sceglieremo tra il digiuno ottavianeo, le pennette sagramolesche, i catering urbanici e la voglia matta e libertaria di mangiare a casa senza invitare nessuno. Tiè!
18 aprile 2012
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