Stamattina ho fatto un salto in piazza a vedere i lavoratori della Indesit. Così, giusto per respirare un po' di conflitto sociale, quanto meno dal punto di vista della scenografia e del colpo d'occhio. Non siamo abituati alle manifestazioni, ai tamburi, ai fumogeni, alle uova tirate contro le palazzine lucenti delle aziende e ai panini con la frittata consumati dopo una notte di viaggio in pullman. Non ci siamo abituati perchè a Fabriano, in principio fu l'undicesimo comandamento. Quello che, senza badare troppo al galateo, invitava ad occuparsi dei cazzi propri: affari, vantaggi, piccole raccomandazioni e tanto tanto leccaggio di culo in contropartita. Un familismo amorale radicato che consentiva una sola deroga, da esprimere in forma di pettegolezzo: ficcare il naso nelle faccende altrui ma solo per questioni di talamo e di soldi, amplificare le briciole per farne pagnotte cariche di dettagli, curiosità e aneddoti spesso al confine tra il verosimile e lo sciagurato. Poi di colpo è cambiata la scena. Incapaci di coltivare quella dote sottile ed elegante che è la riservatezza ci siamo affidati all'omertà. Un tempo, dopo aver faticato in fabbrica e raccolto i pomodori nell'orto, si sparlava del prossimo tuo e mai di te stesso. Oggi si mormora, si smadonna a voce bassa ma sempre con grande prudenza perchè il nemico ti ascolta. Altrochè se ti ascolta! Tacere è diventato un fatto politico che ha ucciso il linguaggio della politica: da una parte le parole ufficiali, vuote come un appartamento sfitto, ad uso e consumo di una rassicurante palude in cui tutto va bene e se casomai va male è meglio non dirlo sennò si spaventano i moderati; dall'altra un fitto sussurro di verità, di squarci di luce che emergono, di tanto in tanto, come dentro a un gigantesco confessionale. Fabriano pare sprofondata in un fiato sospeso che sembra prolungarsi come in attesa di una deflagrazione finale. Nel frattempo critichiamo la cassa integrazione ma non abbiamo le palle per dire che ci abbiamo fatto affari d'oro usandola per seminare il campo di famiglia. Così come facevano comodo la malattia per arare e le ferie per raccogliere. Ascoltiamo compiaciuti sanissimi appelli all'unità d'intenti di fronte alla crisi industriale ma non diciamo che chi delocalizza non può fregiarsi del titolo di capitano. Proviamo a inventarci momenti di altissima cultura ma senza rivelare il sospetto che tutto nasca da un bisogno concretissimo di spingerci a guardare altrove, per ballare sul mondo fingendo di non sapere che sono gli ultimi giorni di Pompei. Ci vantiamo di essere solidali e di aver accolto di tutto e di più ma senza l'onestà di riconoscere che siamo in troppi, che non c'è abbastanza polpa per sfamare bocche sempre più affamate ma sempre più pretenziose. Fabriano ha bisogno di lavoro ma anche di verità e per questo ha un dovere sociale da assolvere: ricominciare a farsi gli affari degli altri che poi sono quelli di ciascuno e quelli di tutti, capire che la logica poderale del contadino furbissimo e solo è niente di più che another brick in the wall. Così come "Tengo famiglia" non è più una virtù ma la più arcaica delle tentazioni. Gli operai venuti questa mattina da Torino, da Bergamo e dalla Campania erano certamente qui per difendere il loro lavoro, ma senza volerlo, coi loro corpi segnati dallo sconforto e dalla stanchezza, hanno incarnato un po' di mondo reale nel microcosmo chiuso delle nostre vite. La metamorfosi è cominciata: la città gentile somiglia sempre di più a Sheffield, decrepito centro minerario inglese nonchè sfondo tragicomico di quel bellissimo affresco sociale delineato nel film Full Monty. Anche qui disoccupati. Ma non organizzati. In mutande ma senza il coraggio di ballarci e di mostrare il culo. Non per vergogna. Solo per omertà. Ed è già una sconfitta.
15 giugno 2012
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