Fabrizio Moscè, straordinario indagatore della Fabriano sotterranea e del recupero del Ponte dell'Aera, mi ha ricordato su Facebook alcuni vecchi articoli che avevo scritto sul Giano. Ne ho ritrovato uno dell'inizio del 2008, pubblicato sulla rivista Type. Mi sembra ancora attuale e lo dedico a tutti gli amici che si stanno battendo per la vita del nostro fiume e della nostra città.
IL NOSTRO PICCOLO SPOON RIVER
Fermo immagine. In un’afosa notte d'estate. Nel punto in cui Via Mamiani finisce di costeggiare la Piazza del Mercato e si ritrova a lato di una vecchia chiesa. Un tempo magazzino di frutta e verdura. Oggi ritrovo di persone che pasteggiano. La piazza è vuota, come in uno scorcio ansiogeno di De Chirico. Un senso di immobilità turbato soltanto da una presenza che incombe: il Giano. Di notte non lo vedi. Ma è lì, con il suo inconfondibile sigillo. Se ne potrebbe descrivere il corso a occhi chiusi, con l’istinto e la sensibilità dei cani. Semplicemente annusando. E’ il trionfo del monosensoriale. E’ il naso che si fa bussola. Anche questa volta l’estate non ha avuto una colonna sonora. Ma una colonna infame sì: quella dell’olfatto maltrattato dal tanfo di un fiume dantescamente ridotto a cloaca del sangue e de la puzza. Settimane e settimane di odore insistente, di quelli che fanno sbalzare le soglie olfattive. Ma alla fine l’abitudine mette in circolo gli imperativi della sopportazione e si inizia a convivere con il fastidio: perché quella del Giano è un’emergenza a singhiozzo. Che va e viene. E’ una replica stanca, un dejà vu che si ripropone uguale a se stesso anno dopo anno. E paradossalmente – ma non troppo - il Giano inizia a vivere proprio quando è più evidente e presente l’odore della sua decadenza. Perché ci costringe a fare i conti con la sua presenza. Per il resto, di questo nostro piccolo Spoon River ci si ricorda solo di tanto in tanto: nei programmi elettorali che tutto promettono e tutto risanano, nelle notti d’estate o se qualcuno la fa finita saltando il Ponte della Stazione o quello della Canizza. E’ un intruso, un clandestino, un fantasma. Per tutti. Non ho mai ascoltato un fabrianese parlare del Giano con affetto. Eppure i provinciali sono anche un po’ gatti: amano le cose a volte più delle persone; se ne prendono cura, le difendono dal degrado che avanza. Per gli illuministi è senso civico. Per i romantici è tradizione, identità. D’accordo, è poco più che un torrente. Niente da spartire con i grandi fiumi intessuti di storie, di saghe, di generazioni che si rimpiazzano vivendo la riva quasi fosse un confine dello spirito: ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida scorta per avventura tra le petraie d’un greto. Eppure Fabriano un debito di riconoscenza dovrebbe averlo. Siamo pure noi figli – seppure allergici alla storia – di una civiltà dell’acqua: quella che alimentava le vecchie concerie; l’acqua che è servita a trasformare la carta – strana creatura d'Oriente – in uno straordinario veicolo di conoscenza e memoria; l’acqua che, combinata alla tecnologia meccanica, ha sottratto le donne alla schiavitù delle schiene piegate e dei panni lavati alla fonte fino a farsi prodotto di punta, business internazionale delle grandi aziende locali. La filigrana e la lavatrice. Ce ne siamo dimenticati ma nascono lì, nelle pietraie d’un greto, dove la modernità incrocia la tradizione. La politica ha rispolverato il tema come non faceva da anni. Ma è stato un grido nel deserto come lo sono sempre gli allarmi che non allarmano. Forse strumentale o forse no, non fa niente. Nessuno ha risposto. Perché i politici s’incagliano in un vizio antico: quella di prendersela con il termometro ignorando la malattia, rifiutando di indagarla e conoscerla per ciò che è davvero. Il problema, insomma, non è l’acqua calda che priva il fiume di vita. Non è la puzza. Non sono i coloranti che ne tinteggiano il corso. Il problema è a monte, come una sorgente: è il Giano dimenticato dai suoi cittadini. Per questo non serve a niente l’ambientalismo e il suo proporsi come tecnica che ignora l’immaginario, i sentimenti e il sentire della comunità. In molti dicono che il Giano è stato sacrificato a spietate esigenze produttive. C’è del vero. Ma è altrettanto vero che le esigenze produttive dilagano quando a non avere argini non è il fiume ma il senso comune. Il nostro Spoon River ha segnato a fondo la vita della città, il suo emergere dall’isolamento. Ma non ha inciso sulla cultura, sul modo in cui Fabriano rappresenta se stessa. Non esiste un’opera, un quadro, una poesia che abbia il fiume come scenario emotivo. Nessuno immagina o pretende un neoimpressionismo in salsa pedemontana, un Claude Monet riveduto e corretto in grado di restituire alla città la poetica dell’acqua, della luce e della natura che vive. Non abbiamo ninfee su cui soffermarci e non sarà un ponticello a lato del camposanto ad aprirci l’atmosfera incantata di una tela francese. Ma nonostante questo l’alternativa è lapidaria: o il Giano si fa largo nel cuore dei fabrianesi o è meglio cancellarlo dalle nostre mappe e murarlo lungo tutto il suo corso, come tra via Fontanelle e le Conce, consegnando una volta per tutte lo scettro ai topi che già lo infestano sovrani. Se vogliamo riprenderci il Giano dovrebbero fare un passo indietro tutti quelli che hanno pià di dieci anni. E non è un paradosso. Perché non si può amare a comando ciò che per anni ha ricevuto solo totali e gelide indifferenze. Per questo il destino del Giano è in mano ai bambini: perché vivono il tempo delle emozioni ed hanno la facoltà di amare senza il peso della sciatteria e del potere. E allora, affinché il nostro piccolo fiume viva di nuovo, occorre farlo entrare a scuola, per dare linfa a un’ "ecologia della mente" che si può sperimentare solo dove le sensibilità sono libere dal peso insostenibile e grigio della maturità. Abbiamo conosciuto un grande evento come la Mostra del Gentile. Sarebbe straordinario viverne un altro. Improvvisato dai bambini: disegni, racconti, poesie. La nostra Antologia di Spoon River. Una dichiarazione d’amore collettiva e infantile. Di quella che non portano voti ma alimentano il senso civico. Perché anche un fiume – come tutte le cose della natura - non lo abbiamo avuto in dono dai nostri padri ma soltanto in prestito dai nostri figli. E, prima o poi, è giusto restituirlo.
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