31 marzo 2014

Il racconto di una beffa: Fabriano e le Grotte di Frasassi

Il Carlino ha messo a segno un bel colpo giornalistico, rivelando l’intenzione del Comune di Fabriano di acquisire una quota di minoranza delle azioni del Consorzio delle Grotte di Frasassi. L’ottimismo della volontà e i suoi superficiali spunti spingerebbero al plauso l’osservatore disattento e di “pensiero breve”. Ma i tanti che non esibiscono l’anello al naso e non amano legare l’asino dove vuole il padrone, hanno fondati motivi per dissentire e rimarcare l’uso sfacciatamente mediatico di questa operazione annuncio. Le Grotte di Frasassi sono aperte al pubblico da circa 40 anni e hanno vissuto una lunga stagione di turismo di massa (con più di dodici milioni di visitatori) che ha trasformato quel complesso ipogeo in una gallina dalle uova d’oro di cui hanno giustamente beneficiato il Comune di Genga e la comunità dei gengarini. Ma dopo 40 anni il ciclo di vita di quella forma turistica è entrato nella fase di maturità, perché il boom quantitativo è già avvenuto anni addietro ed è difficile immaginare un futuro prevalentemente incentrato su comitive e gite scolastiche indottrinate da guide che spacciano la stessa ministra senza il becco di un'innovazione del linguaggio, della narrazione e delle metafore. Il Comune di Fabriano, che un tempo snobbò le stalattiti perchè erano nulla rispetto ai cubetti di ghiaccio prodotti da un frigorifero, decide, con quattro decenni di ritardo, di investire su una esperienza di turismo maturo, ossia di investire il denaro dei fabrianesi impoveriti in un'esperienza turistica che per andare avanti ha bisogno di un profondo ripensamento strategico e di una radicale manutenzione concettuale. Sono consapevoli i politici fabrianesi di quanto siano determinanti questi elementi di criticità strategica? Conoscendoli piuttosto bene credo proprio di no e ho la certezza quasi matematica che per loro sia sufficiente poter evocare parole come sinergia, opportunità e rete per sentirsi in groppa all'onda giusta e serenamente procedere a quella che Gianrico Carofiglio, in uno splendido libro di qualche anno fa, ebbe a definire “manomissione delle parole”. Ma le parole svuotate non bastano. C’è anche un aspetto di natura economica, ovvero quanto costerebbe questa eventuale partecipazione e dove verrebbero reperite le risorse necessarie. I cittadini sanno bene che, nonostante le scontatissime rassicurazioni dell’assessore al Bilancio, le casse del Comune sono vuote. E sanno pure che per tenere in piedi una baracca inutile e improduttiva come il Comune ormai si ricorre sistematicamente al taglieggiamento fiscale e tributario delle desertificate tasche dei fabrianesi. Sarebbe quindi cosa buona e giusta che gli annunci a mezzo stampa stampa fossero accompagnati anche dalla parvenza di un progetto, da qualche dritta chiarificatrice sulle risorse necessarie per finanziare l’operazione e da un’ipotesi spannometrica di ritorno sugli investimenti di breve e di medio periodo. Invece nisba, perché l'idea stessa di una progettazione semiseria è estranea all'indole profonda dell’amministrazione e, alla fine, una locandina val bene una messa. Il sospetto che tutto si riduca a rimbalzo mediatico è nutrito anche da una considerazione di natira "societaria" e cioè che l’acquisizione di quote del Consorzio da parte del Comune di Fabriano pare di natura puramente compensativa, visto che “i fabrianesi” entrerebbero rilevando una parte delle quote della Provincia di Ancona, oppure l’intero pacchetto di quest’ultima, qualora le province venissero definitivamente cancellate dal sistema istituzionale italiano. E siamo arrivati a un primo snodo che merita rapido riassunto: il Comune di Fabriano, notoriamente sbancato, vuole entrare nel Consorzio delle Grotte di Frasassi in una fase di maturità dei flussi turistici e in posizione di assoluta minoranza, ovvero senza alcun potere decisionale e di indirizzo in merito alle scelte strategiche relative al futuro delle Grotte. E' questo sarebbe un grande affare e un investimento lungimirante? Per fortuna, sempre sul Resto del Carlino, ci ha pensato il Sindaco di Genga Medardoni a dare il colpo di grazia ai farfalloni del municipio dirimpettaio: ben venga Fabriano ma solo se l’ingresso avviene sulla base di alcuni parametri. Medardoni ne individua tre e sono di quelli che sgomberarano il campo da ogni fantasia: il primo è che la maggioranza delle quote resti in mano a Genga, ossia che il potere decisionale sia stabilmente e durevolmente esercitato dai gengarini che si guardano bene dal ritenersi scalabili. Il secondo paletto è che si attuino sinergie di territorio, che tradotto in “parla come mangi” significa che se Fabriano entra nel Consorzio delle Grotte bisognerà anche pensare a partecipazioni incrociate, con Genga che magari mette un bel piedone nel Museo della Carta. Medardoni non lo dice ma noi ci prendiamo la libertà di pensarlo. Ma il paletto più grosso e nodoso è il terzo, su cui Medardoni quasi glissa, proprio per dargli la forza lieve che sempre si addice alle tenatiche pesanti. Lo Statuto del Consorzio, infatti, prevede che i fondi prodotti dalla gestione del Consorzio siano investiti solo nel Comune di Genga per opere di complemento, infrastrutture viarie e servizi di vario tipo e natura. Ed è assai improbabile immaginare che in tempi di bilanci magri e di tagli alla spesa pubblica un piccolo Comune come quello di Genga possa privarsi a quella vera e propria un’assicurazione sulla vita che sono le Grotte di Frasassi. Di fatto Genga ha soltanto bisogno di rimpiazzare il partner di minoranza: fuori la Provincia e dentro Fabriano, ma a condizione che tutto resti come prima. Nelle decisioni da prendere, nel potere da esercitare e nei denari da investire. L’unico vantaggio per il socio di minoranza entrante sarebbe una poltrona nel consiglio di amministrazione del Consorzio, ossia una nomina politica aggiuntiva con cui accontentare qualche inquieto esponente della maggioranza che governa Fabriano. Diceva Lenin: “Gratta gratta il comunista e trovi il filisteo”. E aveva ragione da vendere.
    

30 marzo 2014

Se Maciste sgombera l'asilo occupato


Bartolomeo Pagano - Maciste.JPG 

La primavera è luce e risveglio. E in una giornata come questa, di caldo e di sole, si fa davvero cattiva cosa a scrivere di Sagramola. Mi ero ripromesso di ignorare lui e i suoi adepti, di non trattare più la mediocrità in cui sguazzano, di lasciarli sfangare tra delibere farlocche ed evidentissimi raggiri, di consegnarli alla guardia di dirigenti con la frusta in mano, di sorridere dei loro market sociali fondati su finti poveri e finte card, di sbattermene i maroni di tutto quel gigantesco e oneroso armamentario di cazzate che si ostinano a denominare politica e democrazia. Ma poi è arrivato il richiamo della foresta. Stamattina. Fresco fresco di edicola. Sagramola ha lasciato i panni dialoganti del Giancarlone - maschera fratacchiona che lo rende pure simpatico - per adottare i bicipiti muscolosi di Maciste, icona cinematografica della forza e della determinazione. Obiettivo: sgomberare l'asilo del Borgo occupato dal Centro Sociale. Chi ha la pazienza di andarsi a rileggere i post pubblicati nello scorso autunno troverà una narrazione dettagliata e spassosa degli altalenanti approcci del Maciste di Palazzo Chiavelli, un quadro completo delle grandi e piccole furberie che tengono in piedi l'edificio della menzogna politica, i microinteressi che lo legittimano e l'ìnestricabile intreccio proprietario annebbia il destino del locale occupato. La ridicola trama svelata dagli occupanti del centro sociale è la vera ragione dell'ordinanza di sgombero firmata da Maciste lo scorso autunno. Sagramola politicamente è uno che tratta su tutto e cede su tutto. Ma una condizione la pretende: che quel che accade in camera caritatis non venga reso pubblico. Invece il Fabbri apprendeva e raccontava, negoziava e e rivelava. E Sagramola se l'è segnata al dito, firmando un'ordinanza di sgombero decisamente ispirata da una rabbia trattenuta a stento e opinabile anche in punta di diritto. E' stato un insieme di circostanze esterne a bloccare il via libera all'operazione. Innanzitutto la protesta dei cittadini contro la Tares, che ha ridotto di parecchio il consenso alla giunta. E con il plauso in caduta libera è difficilissimo sostenere uno sgombero. Sagramola ha, quindi, preferito fare buon viso a cattiva sorte. Ha atteso e temporeggiato, cercando di individuare il momento buono, di sentire di nuovo una città percorsa da correnti calme e da animi meno cazzuti e più speranzosi. Lo scoperchiamento del Giano, da questo punto di vista, ha determinato un contesto propedeutico allo sgombero, perchè ha rapidamente spostato il focus dell'opinione pubblica cittadina su ponti, sponde e chiare, fresche e dolci acque. Stamattina, con la puntualità di un orologio svizzero, Giancarlone è diventato Maciste. Ma ha fatto il duro a metà, quasi invocando la soluzione più radicale- ossia lo sgombero - ma scaricandone il peso politico e morale sull'ultima parola che dovrebbe pronunciare il Prefetto. Sono passati mesi dall'occupazione dell'asilo ed è difficile cogliere ragioni di ordine pubblico e di degrado igienico sanitario da giustificare un abbandono forzato dell'edificio. E' invece vero il contrario: sono fiorite iniziative culturali e attività di socializzazione che hanno ricevuto il consenso dei giovani, dei cittadini e anche degli abitanti delle zone limitrofe. Qualche giorno fa sui social media sono apparse anche le foto dei lavori in corso per la realizzazione di un orto all'interno dello spazio occupato. Opera tradizionalmente ai confini della legalità. E gli occupanti sono stati così eversivi da sottoporre al Sindaco addirittura un progetto serio e responsabile (che ho avuto il piacere di leggere e approfondire) per l'utilizzo in economia e a fini culturali dello stabile; un progetto che prevede anche alcuni passaggi necessari per sanare e legalizzare l'occupazione. L'approccio "riformista" degli occupanti ha avuto un grandissimo merito e cioè quello di isolare le vere ragioni dello sgombero. Ragioni che non sono politiche ma d'orgoglio. Il Sindaco, infatti, spinge per il fuori tutti solo perchè non ha digerito quel che accadde nei giorni successivi all'occupazione, quando i giovani del Centro Sociale rivelavano alla stampa azioni e reazioni di un Giancarlone davvero poco adatto a gestire crisi che hanno bisogno di doti diplomatiche e relazionali di cui, purtroppo per noi, davvero non dispone.
    

29 marzo 2014

L'acqua del Giano e la grazia del movimento

Ho chiesto all'architetto Giampaolo Ballelli una riflessione sull'urbanistica fabrianese nel tempo del Giano scoperto. Ne è venuto fuori un delicato de profundis dell'urbanistica, un inno alla forza modellante dell'acqua e alla grazia del movimento. Da antologia (GPS)

Il Servizio Geologico degli Stati Uniti (USGS) ha identificato ben 16 parti del ciclo dell'acqua. Il ciclo dell'acqua è sempiterno. Senza non avremmo la vita sulla Terra. In omaggio a questo miracolo e al nostro fiume ho pensatpo e scritto un intervento circolare. Non ha inizio e non ha fine. Si può iniziare a leggere da qualunque punto per tornare alla partenza. L'urbanistica è morta. O quasi. Divorata da dentro, dalla sua stessa parte razionale, dalla sua passione per le leggi, dalla mania delle regole e la freddezza delle norme. L'urbanistica è ridotta a un povero vecchio, disegna lotti tutti uguali, strade tutte uguali, parcheggi tutti uguali. L’urbanistica è priva di senno, inetta nel pensare e ridotta a due sole dimensioni, incapace di ricordare ciò che era. Noi urbanisti siamo i responsabili della sua fine: mentalmente vecchi, impotenti o asserviti alle burocrazie. Per ritrovare l'arte di progettare lo spazio dell'uomo, lo spazio urbano, possiamo solo guardare alla città antica; come gli archeologi guardano alle passate civiltà. Nella città antica tutto è urbanistica, le piazze, le strade, i compatti fronti urbani, il progetto artistico dello spazio, le gerarchie dei volumi. Solo nella città vecchia ritroviamo lo spazio chiuso, misurato e rassicurante, contrapposto a quello aperto, infinito e misterioso. Nella città antica si entra e si cammina senza perdersi. L'uomo non cammina più, corre e si perde nelle anonime periferie. L'urbanistica generò la bellezza quando nella città antica realizzò lo spazio di relazione polivalente. Lo spazio di relazione polivalente non è un'invenzione moderna, le stesse cattedrali medioevali erano edifici polivalenti dove le persone, le comunità - oltre alla funzione religiosa, attività primaria - si recavano per le feste, per gli affari, per ogni genere di relazione. Un grande spazio chiuso ma permeabile, dove i cittadini entrano come nei fori romani o nelle piazze medioevali. Spazio chiuso da vari elementi di filtro che lo rendono accessibile e misurato. Lo spazio urbano non può essere aperto e sgranato, come in certe periferie, come in certe moderne piazze vuote. Deve essere un ambiente segnato da precisi confini, organizzato e articolato come un grande palazzo orizzontale. Nella città antica troviamo nette le categorie: dentro e fuori, aperto e chiuso, esposto e protetto. La natura resta fuori, come il giardino rimane fuori della casa. Non esistono boschi e prati ma orti e sempre circondati da mura. Non ci sono colline ma salite e terrazzamenti. In città lo spazio è protetto e misurato, è progettato per l’uomo. Fuori dalle mura rimane la natura selvaggia e incontaminata e quella antropizzata del contado agricolo. A questa regola solo un elemento naturale fa eccezione; il fiume. Il fiume unisce. È l'elemento fondamentale per costruire la sinergia tra la città, la campagna e la montagna. Perché il fiume, storicamente, ha costituito il grande motore di sviluppo del territorio. Il fiume è l'elemento di unione che attraversa ogni spazio, unisce mondi diversi, la terra con il cielo, l’ambiente incontaminato del bosco e della montagna, a quello contadino e collinare, fatto di filari e campi arati. Il fiume attraversa i campi, li irriga e fa crescere l'erba per il bestiame e quando penetra sotto le mura della città si trasforma nel quarto elemento. L’acqua, insieme al fuoco, alla terra e all'aria è fondamentale per tutte le arti: dai cartari ai fabbri, dai lanaioli ai conciatori, dai tintori ai ceramisti. Nel vallato cupo, l'acqua diventa forza motrice per i mulini, per le cartiere, per i magli. L'acqua è sempre in movimento, non solo quella del fiume. Anche quando la troviamo nella sua forma solida, il ghiaccio, si muove e si trasforma e modella il paesaggio. L’acqua scava e scopre la costituzione geologica e litografica del terreno. L’acqua mostra ai nostri occhi il disegno della roccia, frutto di una dinamica più antica, lenta e travagliata. L'acqua incava e il vuoto che ricava è parte del paesaggio, è spazio polivalente, è piazza naturale, è anfiteatro. Il vuoto non è mancanza. Il vuoto è fondamentale. Nel Taoismo e nel Buddismo troviamo una categoria che a noi occidentali spesso sfugge: Wu, il vuoto. Il senso del Wu si trova in vari libri tra i quali il Lieh-Tzu, il vero libro della sublime virtù del cavo e del vuoto, scritto tra il 200 e il 300 D.C. E il Tao Te Ching, il libro del Tao e della Virtù. Secondo questo ultimo il Wu è una delle singole parti, la più importante, la parte che non c'è. Uno dei fondatori del taoismo Zhuangzi (369-286 a.C.) dice: «Facile è vedere il vuoto del vaso, difficile ammettere che tale vuoto costituisce il vaso al pari del pieno». Se il bicchiere non avesse il vuoto come potrebbe assolvere alla sua funzione? Come potrebbe contenere l'acqua? Ed una volta riempito come potrebbe tornare ad essere utile se non lo vuotassimo di nuovo? Il Wu consente il movimento, la dinamicità, senza il vuoto il bicchiere non potrebbe assolvere alla sua funzione. Se l’acqua non scavasse come potrebbe nascere una valle, un ansa, una grotta o l’alveo del fiume? Senza vuoto come può scorrere l'acqua? È il vuoto che consente di svolgere la funzione del fiume. Il vuoto è ottenuto dallo scorrere dell’acqua. Il movimento è la caratteristica principale del fiume, il suo scorrere perenne trasmette il movimento alla roccia e al paesaggio. I grandi architetti italiani del Barocco nel progettare i palazzi, le facciate delle chiese, le ardite lanterne sulle cupole negarono staticità alla massa muraria e trasmisero alla pietra il movimento, bloccandolo come lo scatto di una foto blocca un animale in corsa. Allo stesso modo il fiume modella la roccia, trasmette alla massa il moto, la libra nello spazio. Le sponde del fiume trasmettono il moto alle case costruite sull'argine. A lungo il degrado e la tombatura del fiume ci hanno tolto la grazia del movimento, lasciandoci una sorda parte di città inspiegabilmente curva. Ora si vede di nuovo l’acqua. L’acqua è movimento e le sponde del fiume trasmettono di nuovo il moto al fronte delle case. L’acqua riqualifica i margini fluviali, dà una funzione al vuoto dell’alveo, stimola l’inserimento di nuove funzioni culturali, restituisce voglia di fruibilità agli spazi lungo le sponde del Giano. Spazi degradati e dimenticati lungo il fiume, che ora tornano importanti. Ora appare, in tutta la sua forza, il problema delle sponde, l'esigenza di avere un percorso pedonale, di collegare i possibili e diversi livelli del percorso lungo il fiume. Garantire accessibilità dall'ambito urbano e restituire alla città le relazioni con il fiume. La presenza dell'acqua non ci lascia indiffernti, calamita l'attenzione, sussurra, canta e urla. L'acqua è sempre in movimento. L'acqua è vita, nell'acequa vivono e si riproducono innumerevoli creature e ogni luogo ha la sua acqua. L'acqua assorbe il carattere di un luogo, della sua gente. L’acqua è genius loci, prende la natura di un territorio, la sua particolare composizione, la sua temperatura. L'acqua non ha colore perché assume ogni possibile colorazione del luogo che attraversa. Ogni luogo ha un acqua con un diverso colore. L'acqua del nostro territorio scorre sui calcari bianchi e le ghiaie rosa, riflette tutti i colori del blu e del celeste, le sfumature del verde smeraldo, la brillantezza del platino. La nostra acqua ha bisogno di un alveo bianco e di bianche sponde. Il Corten è un particolare acciaio che forma una patina di ruggine a protezione. Le lamine di Corten previste per le sponde del Giano saranno scure, di colore ruggine intenso, bagnate quasi nere. L'acqua sarà sempre scura, come inchiostro, come in certe regioni dove dominano le ardesie o le rocce ignee. Un acqua di colore scuro che non appartiene al nostro territorio. La ruggine non appartiene al nostro territorio. La ruggine è il nemico mortale del metallo, il cancro del duro lavoro dei fabbri. Fabriano, la città dei fabbri. Il Corten con la sua ruggine è un materiale alla moda e oggi la moda ha preso il sopravvento sull'architettura e sull'urbanistica. Questa ultima dovrebbe creare spazi di relazione con il fiume ma, al contrario, progetta, lungo le sponde, sedute che voltano le spalle al fiume, per non guardarlo, negando ogni relazione. L'urbanistica che non progetta spazi di relazione con il fiume al massimo può definirsi arredo urbano. L'urbanistica è morta. O quasi.

Giampaolo Ballelli
    

28 marzo 2014

La potatura "a cazzo di cane" di Viale Stelluti Scala



Chi legge questa pagina sa bene quanto l’autore detesti, e per nulla cordialmente, le cosiddette “critiche costruttive” e quanto le consideri una ribollita insipida e un vero toccasana per il potere. Già, perché criticare ma non troppo, e farlo con la timida certezza che il criticato ci convincerà sicuramente delle sue ragioni, è un solletichino che non disturba il manovratore ma anzi gli consente di fregiarsi di un pluralismo che invece detesta d'istinto e di ragione. Ogni potere – compreso quello analfabeta e demenziale della politica locale - alleva i suoi finti oppositori, i dissenzienti un tanto al tocco e gli spiriti magni liberissimi di fare e dire quel che la politica sollecita e consiglia. Il post di oggi, come tutti gli altri qui pubblicati, è di polemica pura e di limpido sventramento, perché ci sono cose che aizzano d'incanto l'emisfero viscerale e, in quanto tali, vanno raccontate senza sottoporle alla mediazione e al filtro di Minerva. Mi tolgo subito il sassolino dalle scarpe che, oggi, si fa domanda semplice e diretta: a chi cazzo è venuto in mente di potare in quel modo gli alberi di Viale Stelluti Scala? Me lo domando da alcuni giorni con la limpida ignoranza di un cittadino poco incline alle pratiche di giardinaggio ma titolare di quello stock minimo di cervello e di osservazione che consente di cogliere al volo i molti dettagli che emergono dalle cose. Attenzione: non stiamo parlando di due o tre pianticelle ma d'una trentina di alberi che nel periodo estivo – oltre a una piacevole ricaduta d’ombra – restituiscono un colpo d’occhio allegro e frondoso che abbellisce la percezione di quella porzione di spazio urbano. Ripeto, la potatura non è il mio orizzonte di riferimento ma considero sinceramente anomalo che si sia proceduto al taglio lineare di tutti gli alberi, ridotti a candelabri spogli che restituiscono la sensazione di una vegetazione attraversata dallo spietato livellamento di un incendio geometrico e pignolo. Dal poco che ciascuno sa ogni albero è una storia, perchè le piante vivono e interagiscono con l'ambiente. E di questo è consapevole e informato anche chi non ha in dotazione vocazioni botatiche e pollici verdi. Per questo ogni albero è meritevole di attenzione, di cura e di interventi specifici. Invece guardando Viale Stelluti Scala è come se i boscaioli addetti alla potatura avessero deciso di sbrigarsi, di segare rami e fronde senza troppi discernimenti botanici, perchè la manutenzione del verde è sempre meno un'arte e sempre più un lavoro orientato da robuste ragioni economiche che impongono di fare in fretta per conseguire la massima redditività possibile. La domanda da farsi è banale ma stringente e comparativa: se un cittadino assoldasse una società per potare gli alberi del suo parco privato e li ritrovasse tutti tagliati “a ceppo” siamo sicuri che salderebbe allegramente il conto? Personalmente non avrei da esibire alcuna allegria e li manderei allegramente a quel paese. Il problema è sempre lo stesso e cioè che tutto ciò che ricade nello spazio pubblico – dai servizi al cittadino fino alla potatura degli alberi -  è dominio assoluto del pressappochismo, della mancanza di cura e del fare le cose, il più possibile e per quanto possibile, a cazzo di cane. Navigando su Internet ho rintracciato alcune righe, dedicate dalla Scuola Agraria del Parco Monza alla formazione per la potatura degli alberi ornamentali, in cui si dice testualmente che i partecipanti si dedicheranno “allo studio delle nozioni dell’arboricoltura moderna, anatomia e fisiologia del sistema albero come strumenti cognitivi per la corretta pratica della potatura e per la gestione manutentiva dell’albero analizzato nella peculiarità dello scopo e nell’unicità dell’esemplare da curare”. Provate a leggere queste poche righe. Poi fate un salto in Viale Stelluti Scala e cercate un qualche barlume di corrispondenza tra l’unicità degli esemplari arborei e le pratiche da segheria seriale applicate a quella trentina di piante. Scriveva Dante nel XIII canto dell’Inferno: “Allor porsi la mano un poco avante e colsi un ramicel da un gran pruno; e 'l tronco suo gridò: Perché mi schiante? Da che fatto fu poi di sangue bruno, ricominciò a dir: «Perché mi scerpi? non hai tu spirto di pietade alcuno? Uomini fummo, e or siam fatti sterpi” Esattamente quel che meriterebbero certi potatori seriali pagati col denaro dei cittadini fabrianesi.
    

27 marzo 2014

Giano: le prospettive di un fiume dimenticato


 

Ho chiesto a Nico Bazzoli, fabrianese esperto di urbanistica e sociologia urbana, di scrivere un articolo/saggio sulle possibili prospettive di riqualificazione generate dallo scoperchiamento del Giano. Ve lo propongo integralmente (GPS)

Il rapporto uomo-ambiente naturale si è da sempre caratterizzato in base al periodo storico e di sviluppo economico che ha interessato un territorio. Se l'età medioevale si può definire in questi termini come un periodo in cui la natura era vista come forza magica e trascendente, con lo sviluppo dell'attività scientifica la natura ha cominciato ad essere considerata come un contesto di possibile dominio e sfruttamento su vasta scala. In questo senso l'economia a prevalenza industriale è stata in grado di utilizzare la natura allo scopo di generare plusvalore con delle modalità che non hanno precedenti nella storia umana. Nonostante la creazione di un benessere piuttosto diffuso le esternalità insite nel paradigma della crescita industriale hanno generato inquinamento, depauperamento delle risorse, cementificazione selvaggia e una scarsa attenzione alla qualità ambientale. Il passaggio ad un'economia postindustriale, cominciato nelle città globali all'inizio degli anni Settanta, obbliga a riconsiderare questo rapporto uomo ambiente che si sta configurando su basi diverse. L'ambiente naturale e artificiale infatti cominciano ad essere considerati da una prospettiva differente, che punta più alla valorizzazione (in chiave economica) che ad un semplice sfruttamento delle risorse. Esplicativa di questo passaggio è la diffusa sensibilità ambientale che si è andata a creare dagli anni Ottanta ad oggi, con una presa di coscienza sia a livello globale, nazionale e locale dei problemi generati dallo sfruttamento industriale. 

Il passaggio ad un'economia di tipo postindustriale è cominciato in Italia con modalità e tempistiche ben differenti da quelle degli altri paesi a sviluppo avanzato ed ha dato luogo ad una riconsiderazione del valore ambientale. Fabriano sta vivendo questo passaggio negli ultimi anni con un notevole ritardo rispetto alla media nazionale, e con una colpevole inconsapevolezza da parte della classe dirigente. La fine del paradigma industriale come volano di sviluppo si è abbattuto sulla nostra città senza che fossero state programmate le basi per un futuro sviluppo economico. La miopia che contraddistingue la classe dirigente locale si può evidenziare non soltanto nelle modalità di gestione di questo passaggio, ma anche dal retaggio culturale all'interno del quale affonda le sue radici. L'attuale amministrazione risulta infatti una mera espressione dell'epoca industriale; un periodo nel quale, come precedentemente indicato, il valore ambientale era sottomesso al funzionalismo industriale. 

Se volessimo analizzare attraverso questa chiave di lettura le vicende che stanno interessando i lavori attorno al fiume Giano, potremmo considerare come il dibattito sulla sua riapertura ruoti attorno a due paradigmi concettuali spesso divergenti. Da una parte troviamo un'amministrazione locale che intende provvedere alla sistemazione idrogeologica e fognaria per procedere ad un ritombamento del fiume (probabilmente aumentando la superficie di alcuni parcheggi), dall'altra assistiamo ad un fermento associazionistico che desidera una valorizzazione del fiume cittadino e una sua riscoperta. Queste differenti visioni si inscrivono in due modalità differenti di intendere il territorio ed il rapporto uomo-ambiente: il primo di stampo funzionalistico modernista, il secondo di tipo rivalutativo. Estremizzando si potrebbe dire che il fiume è visto dai primi come un problema da risolvere e dai secondi come una risorsa da valorizzare ed in questi mesi abbiamo assistito a vivaci discussioni tra esponenti di questi due diversi punti di vista. 

Dato l'inizio dei lavori di scopertura del fiume e l'incerta sorte a cui sarà destinato il corso d'acqua ritengo opportuno soffermarci su quelle che possono essere le implicazioni e i riflessi collettivi di tali lavori in corso. Partiamo da una premessa: il Giano non è soltanto il fiumiciattolo che attraversa la città di Fabriano, ma ne rappresenta storicamente il valore aggiunto che ha permesso lo sviluppo della tradizione artigianale e cartaria di questa città. Il fiume è stato utilizzato dai fabbri delle botteghe della piazza bassa per secoli ed è con il massiccio sviluppo industriale della cartiera che è divenuto una problematica. Infatti i liquidi di scarico della cartiera sversati a monte del centro storico ed i conseguenti problemi relativi all'inquinamento hanno portato alla tombatura del fiume. Un corso d'acqua che è stato per anni martoriato e nascosto alla cittadinanza per via del suo odore e dei suoi strani colori (ricordo giornate estive in cui era pieno di schiuma rosa). Oggi ci troviamo di fronte alla possibilità di rivalutare il suo ruolo, di bonificare le sue sponde e conferirgli di nuovo il valore storico-ambientale perso da tempo. Infatti la scopertura del fiume ed i lavori di sistemazione a cui è sottoposto rappresentano un'occasione di sviluppo che la nostra città non dovrebbe perdere. 

Da oltre trent'anni in tutta Europa si stanno sviluppando processi di valorizzazione dei corsi d'acqua che attraversano le città, proprio perchè essi sono passati dall'essere visti in chiave esclusivamente funzionale al sistema industriale all'essere percepiti come motori di rigenerazione di alcune aree. L'Inghilterra, paese che per primo ha conosciuto la crescita industriale ed il suo conseguente declino, può fungere da esempio: in città che hanno subito dei forti disinvestimenti postindustriali negli ultimi decenni oggi si stanno realizzando opere di sviluppo locale in chiave turistica. In questi contesti il fiume costituisce un ambiente privilegiato di intervento, attraverso la retorica architettonico-urbanistica dei waterfront. A New Castle ad esempio il Tyne è stato sottoposto a delle massicce opere di bonifica ed oggi sulle sue sponde stanno sorgendo nuove unità residenziali e prolificando attività commerciali prevalentemente orientate allo svago e all'intrattenimento, oltre che una rivalutazione del patrimonio storico che vi si affaccia. Esperienze come questa non sono limitate solo al caso inglese ma si sono diffuse in tutta Europa ed anche in Italia, sia in città marittime che interne, di grande, piccola e media dimensione. 

Dunque quali prospettive si presentano per Fabriano nel caso di una scopertura permanente del Giano? Nel rispondere ad una tale domanda mi sento di dover sottolineare come la semplice scopertura del fiume non costituisca un intervento di valorizzazione dell'area. La scopertura del Giano infatti andrebbe seguita da una serie di interventi che dovrebbero riguardare la riqualificazione edilizia delle sue sponde per migliorarne l'aspetto estetico e funzionale, con la creazione di percorsi pedonali. Solo in questo modo si può provvedere alla valorizzazione del patrimonio storico che tocca le sue sponde, come il Ponte dell'Aèra. Le potenzialità di un tale intervento sono molteplici se si riuscisse ad intercettare i contributi europei per la costruzione dei parchi fluviali. 

L'area sottoposta ad intervento potrebbe infatti estendersi a monte e a valle del centro storico, creando un parco fluviale che parta dalle vecchie cartiere, prosegua sotto il ponte della Canizza, nel centro storico e si dirami fino alle aree sotto l'ospedale Profili e al ponte della Stazione. In questo modo si provvederebbe alla sistemazione di aree della città lasciate all'incuria per anni. L'idea del parco fluviale potrebbe costituire anche una risorsa turistica con lo sviluppo di percorsi naturalistici, storici e ciclabili da integrare agli esistenti. A questo si aggiungono le potenzialità che il miglioramento estetico può dare all'insediamento di attività ricettive e ludico-ricreative e alla potenziale propulsione che si potrebbe dare ad una delle aree immobiliari più depresse della città, in termine di crescita dei valori degli immobili. Inoltre si potrebbero dedicare diversi spazi, oggi sottoposti all'incuria, ad esperienze di agricoltura urbana di cui si sente sempre più la necessità. 

La realizzazione di un tale ambizioso progetto non può che realizzarsi tramite una governance degli attori interessati che coinvolga da un lato l'amministrazione pubblica e dall'altro le associazioni ed i comitati del territorio. Potrebbe costituire una prima esperienza di progettazione partecipata per Fabriano, attraverso la quale l'interessamento di molti cittadini alla scopertura del fiume potrebbe concretizzarsi in un'opera di più ampio respiro. Logicamente ci troviamo nel piano delle possibilità: si tratta di interventi che possono vedere la luce solo grazie ad una decisa volontà politica, ed il ruolo dei cittadini nella guida di questo processo è di centrale importanza sia in termini di indirizzo che di realizzazione. Garantire alla nostra città una riqualificazione ambientale e una rivalorizzazione storica degne di tal nome passa necessariamente per una presa di coscienza. 

Se questa sembra essere avvenuta grazie al Comitato alla Scoperta del Giano, a Fabriano Storica, all'associazione Hypogeum e ai tanti abitanti che stanno spingendo in tal senso, quel che sembra mancare è la volontà dell'amministrazione nell'impegnarsi in tal senso. Una scarsità di visione in prospettiva che ha sempre caratterizzato l'attuale giunta, ma che può smentirsi nell'implementazione di un ambizioso progetto del genere, sopratutto in considerazione dell'assensa di rischio esondazione del fiume (un rischio costituito più dalla tombatura stessa che dalla portata del corso d'acqua). Forse ciò di cui questa città ha veramente più bisogno è lo slegarsi dal paradigma di crescita che l'ha caratterizzata per decenni, affacciandosi ad una nuova idea di sviluppo che ha sempre meno a che fare con la produzione industriale e sempre più con lo sviluppo di servizi, cultura e un nuovo rapporto uomo-ambiente. 

Nico Bazzoli
    

26 marzo 2014

Un fiume di droga nella città creativa


 

La notizia del concittadino salvato presso la stazione ferroviaria da una overdose di eroina ha destato, in città, allarme e preoccupazione. Quasi fossimo in presenza di un fenomeno inedito, di una devianza estranea allo spirito e alla natura dei fabrianesi. Purtroppo non è così e Fabriano - come la gran parte della provincia italiana - è ricca di tossici irrredenti, di consumatori mimetizzati, di eroinomani che ci hanno rimesso la pelle, di neofiti che non sanno il rischio che corrono, di cannaroli che considerano il "fumo" un dono liberale e pannelliano e di parecchi consumatori - e neanche troppo occasionali - di cocaina, perchè pare che sniffare sia requisito minimo per essere avanti e cool. La droga, per intenderci, girava negli anni delle vacche grasse e continua a girare in questo tempo di giumente magre. A riprova che la retorica del disagio, frutto della crisi economica, la si può serenamente lasciare ai sociologi della sinistra al caviale. La differenza con il passato è che una volta esisteva una linea di demarcazione piuttosto netta tra l'universo dei tossicodipendenti e quello delle persone estranee alle dipendenze. E i fabrianesi della mia generazione ricorderanno bene come tale divisione si declinasse anche i termini spaziali e come ci fosse, addirittura, una zona del Giardini Margherita stabilmente presidiata dai tossicodipendenti da cui ci si teneva a debita distanza. Il problema di oggi è che è enormemente aumentato il livello di tolleranza sociale nei confronti del consumo occasionale di "fumo" e di cocaina. Esperienze ritenute quasi normali nel mondo degli adulti e quindi in grado di precipitare in forma di senso comune tra le generazioni più giovani e meno attrezzate a livello psicologico ed esperienziale. Nei giorni passati, tanto per dire, le forze dell'ordine sono state impegnate ina una vasta operazione antidroga, sviluppata anche attraverso il ricorso ad unità cinofile. Si tratta di attività repressive di fondamentale importanza perchè rompono il conformismo diffuso e la tolleranza sociale verso l'uso di sostanze stupefacenti, riproponendo l'idea della sanzione come deterrente naturale per una società che educa i suoi figli proprio a partire dal binomio premio-punizione. Invece nei social network - luogo in cui ormai si formano i giudizi e si consolidano le opinioni - c'è stata una vera e propria levata di scudi, quasi che la devianza e il rischio risiedano nei controlli di polizia e di carabinieri e non invece nel consumo di droga. E su questo tema va sgomberato il campo da un gigantesco equivoco - che si presenta come fatto implicito ogniqualvolta le forze dell'ordine agiscono per reprimere il fenomeno -  e cioè che fumare, sniffare o bucarsi sia una manifestazione di libertà individuale, messa costantemente a rischio dal braccio secolare dello Stato e delle azioni delle forze di polizia. Se si vuole arginare il fenomeno è, invece, necessario attribuire un ruolo centrale all'azione repressiva, perchè per colpire lo spaccio di stupefacenti bisogna prosciugare il mercato e gli utilizzatori. Perchè è il mercato che produce il traffico, ed è la domanda che genera l'offerta, come accade in tutti i settori in espansione. Quindi invece di scandalizzarsi per il ricorso ai cani antidroga sarebbe bene indignarsi con chi ne censura l'uso, con i genitori che ritengono impossibile che il figlio prediletto sia uno strafatto, con i cittadini che teorizzano la libertà di spararsi missili al corpo e al cervello e con una politica che fa gli occhi a piagne ma, di fondo, se ne sbatte i maroni. Il consumo di droga non può essere azzerato. Neanche combinando la repressione più efficiente e la prevenzione più efficace. Ma può essere "governato" e riportato al di sotto dei livelli di guardia, utilizzando con intelligenza e costanza repressione e sanzioni. Non è forse giunto il momento di dircelo con chiarezza?
    

25 marzo 2014

Il destino del Liceo Classico nella città dell'Unesco

Ricordiamo, a chi se ne fosse incautamente dimenticato, che a Fabriano - caso più unico che raro nel Belpaese - è stata riconosciuta la qualifica di città creativa dell'Unesco. Personalmente questa nomina mi è sempre sembrata una forzatura nominale, un'etichetta sul nulla, il tentativo nobilitato e maldestro di tenere in ordine una stanza sporca occultando la polvere sotto il tappeto e sotto i mobili. Per aver assunto questa posizione critica ho ricevuto, da più parti, l'accusa di nichilismo e disfattismo, manco avessi plaudito alla disfatta di Caporetto o profanato il Monte Grappa. Ma anche i critici più severi, a un certo punto, devono prendere atto dei fatti e di quel che concretamente accade. E quindi, pur confermando per intero l'armamentario critico iniziale, prendo atto che Fabriano è città creativa dell'Unesco. Penso che ciò possa significare molte cose: tutelare i beni artistici e architettonici; promuovere la conoscenza che è alla base della creatività; proteggere la bellezza e il decoro urbano; riservare alla cultura scientifica e umanistica un posto d'onore in una città prevalentemente sedotta dalla tecnica e dalle sue connessioni con i processi produttivi. Penso anche che una città creativa dell'Unesco abbia pure il dovere e la missione di tutelare la formazione delle sue generazioni più giovani. E sono altresì convinto che i cittadini della città creativa debbano indignarsi coralmente nello scoprire che forse il Liceo Francesco Stelluti il prossimo anno non avrà iscritti a sufficienza per formare una classe legata all'indirizzo classico. Speriamo che sia solo una chiacchiera dal sen fuggita ma se fosse vero vorrebbe dire che nella città creativa è destinata a venir meno l'unica vera centrale formativa di cultura e di visione umanistica, il luogo didattico in cui veniva forgiato quel poco di classe dirigente di cui questa città ha potuto disporre pur in presenza di una dinastia di potere di tipo rinascimentale che gradiva poco l'autonomia culturale dei suoi cittadini. Sarebbe del tutto inutile e ozioso ricercare e rincorrere le ragioni di questa storica sconfitta della scuola e della cultura cittadina, perché certi disastri fioriscono dal concorso di mille circostanze e dall’azione distruttiva di molte mani. Quel che resta come dato inoppugnabile è che, dopo mezzo secolo, i giovani fabrianesi che voglio intraprendere studi classici dovranno affrontare i sacrifici di un nuovo pendolarismo umanistico in direzione di Jesi o di Camerino. Certo, nessuno può imporre a un giovane uscito dalle medie di scegliere il Liceo Classico perchè significherebbe mutilare vocazioni e comprimere tendenze che vanno invece rispettate. Ma è comunque emblematico che una comunità in crisi, che si compiace di molte chiacchiere e di nuovi distintivi internazionali non si ponga neanche il problema di fare i conti con una vena umanistica inaridita e prosciugata e con le conseguenze che ciò determinerà sul valore complessivo della cultura dei suoi cittadini. Fabriano non ha mai brillato per vocazione culturale e per sensibilità umanistica, sentimenti e passioni da fannulloni poco propensi a fatigà. Eppure, nonostante la pressione della fabbrica e la seduzione di un lavoro da scimmie ammaestrate, un barlume di umanesimo era rimasto in piedi, così come resistevano all'usura del tempo l'orgoglio e il pregiudizio che il liceo classico fosse la scuola che "dava il metodo e apriva il cervello". Gli indicatori che restituiscono lo stato di salute di una comunità possono essere tanti e di solito sono quelli economici e sociali a colpire maggiormente l’attenzione. Eppure sarebbe un errore clamoroso considerare la questione del liceo classico come un fuoco fatuo e un segnale minore della crisi. Per ora - e forse non a caso - nessuno si è mobilitato, nessuno ha raccolto firme, nessuno si è strappato le vesti per questa ennesima parete che si sbriciola. In questo Fabriano somiglia a Pompei, dove ormai ogni muro che cade è solo una riga in più nella contabilità del disastro. La prima volta è scandalo poi sopraggiunge l’assuefazione. Fabriano città indifferente dell'Unesco.