Il 12 agosto del 2012 pubblicai
un articolo su questo blog intitolato “Unifabriano: sotto il vestito niente”. Nel
post testualmente scrivevo:”Unifabriano
non è mai riuscita ad appassionarmi. L’ho sempre vista come un polo
universitario fittizio, un distaccamento concepito più in modalità clientelare
che accademica, una forzatura di qualità ridotta all’osso che mi ha sempre
suscitato un sentimento di rifiuto mescolato a un moto di solidarietà verso gli
studenti iscritti” Queste parole furono materiale infiammabile e - come
spesso accade da queste parti quando si toccano piccoli e grandi santuari - s’innescò
un polemica vivace sul ruolo e sulle prospettive di questa istituzione culturale
e formativa. Oggi il Resto del Carlino titola senza indugi: “Unifabriano
verso il fallimento”. Si tratta di una morte annunciata e a lungo
rimandata, ricorrendo a interventi tampone e a improvvisati e strumentalissimi polmoni d’acciaio.
Rimandare sperando che qualche dio provvederà, secondo i dettami di
un andreottismo sempre fascinoso, se inserito in una trama di grande potere, ma
assolutamente ridicolo se calato, su scala locale, in piccoli sistemi di
maneggi e traccheggi. Sagramola, contento
come una Pasqua anche se ufficialmente costernato, non ha perso tempo nel
dichiarare la resa. E per una volta il primo cittadino mi trova assolutamente concorde con il suo pensiero
quando afferma che il Comune non può indebitarsi per tenere in piedi
Unifabriano. Da questo punto di vista c’è un principio fondamentale che va osservato e cioè che si può anche ricorrere all’indebitamento pubblico
ma solo nella misura in cui esso è funzionale a una strategia di rilancio e a
precise garanzie di autosufficienza finanziaria e operativa dell’ente beneficiario.
Perché indebitare il Comune significa agire sulla fiscalità locale, ossia
mettere le mani nelle tasche dei cittadini. Ed è un’operazione che può essere
realizzata solo se si ha la certezza di una buona causa e di una chiara prospettiva.
Garanzie che Unifabriano non è in grado di fornire. Per una ragione semplice e
lapalissiana: l’Università di Fabriano non attira più. C’è stato un periodo in
cui Unifabriano ha potuto vantare un qualche successo, in corrispondenza con
il periodo d’oro della grande industria locale. I giovani si iscrivevano a
Unifabriano anche in virtù di una prossimità, fisica e intellettuale, con grandi
realtà della produzione metalmeccanica che erano in grado di assorbire e
impiegare figure provenienti da centrali formative locali. Non a caso erano
soci fondatori tutte le grandi realtà locali d’impresa: Indesit, Thermo Group,
Elica, Faber e Cartiere Miliani. Imprese che, in questo modo, avevano deciso di
agire su due versanti: rafforzare il profilo culturale del territorio e
ricevere in cambio buoni cervelli. Quando questo binomio virtuoso si è
interrotto le grandi imprese locali – complice anche una crisi che sollecita più tagli che azioni espansive – hanno deciso di
fare marcia indietro, chiudendo il rubinetto dei finanziamenti annuali
previsti. L’ultima a fare marcia indietro è stata la Fondazione Carifac, non più proprietaria di un istituto di credito ma soltanto soggetto titolare
di un cospicuo pacchetto di azioni di Veneto Banca, gruppo bancario in forte
perdita e sottoposto a un duro intervento della Vigilanza della Banca d’Italia
che ne ha azzerato il CDA. Ciò significa che la Fondazione non può più
permettersi quel ruolo di supplenza finanziaria e di gallina dalle uova d’oro, a cui aveva abituato i
fabrianesi, in quanto istituto che deve necessariamente razionalizzare l’impiego
delle risorse di cui dispone, evitando quella logica dei finanziamenti a
pioggia, a cazzo e per tutti che ne ha orientato per lungo tempo il
funzionamento e l’agire. Finanziare Unifabriano senza uno straccio di
prospettiva e solo per mantenere tre posti di lavoro sarebbe stato, infatti, il
peggiore dei finanziamenti a pioggia; una roba che avrebbe consumato il residuo
di credibilità di cui ancora la Fondazione dispone. Unifabriano non muore, quindi, per un
complotto ombroso o per l’insensibilità delle istituzioni ma soltanto perché ha perduto
la sua ragion d’essere. Una verità amara che non ha più senso occultare o
negare.
11 aprile 2014
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AMEN !!.... M.D.
RispondiEliminaTutti giù per terra!!!!
RispondiEliminaR.I.P
RispondiElimina"... La fondazione detiene un cospicuo numero di azioni di Veneto Banca..." . Banca Italia oltre ad aver azzerato il cda di Veneto Banca ha anche " consigliato" Veneto Banca di fondersi in un'altra banca più grande è più sana probabilmente la Popolare di Vicenza. Questo significa che una volta che Veneto Banca confluira' nella popolare di Vicenza o in un'altra banca, " il cospicuo numero di azioni " possedute dalla fondazione saranno poco meno di briciole. Stesso discorso per gli ex azionisti Carifac che hanno ceduto alle sirene ammaliatrici di chi ha caldeggiato la fusione di Carifac in Veneto Banca !
RispondiEliminanon possedendo azioni di Veneto Banca, non avendo parenti ivi occupati ed essendo correntista della Bnl dormo sonni tranquilli e faccio pasti regolari
RispondiEliminama di certo poni un fondatissimo problema di tutela del valore azionario
RispondiEliminaL'indesit se ne va ,l'antonio merloni sta esalando l'ultimo respiro,le cartiere bho chi lo sa,la quadrilatero e' ferma,la jp e' un mistero glorioso ecc.....
RispondiEliminaNeanche le elezioni europee stanno smuovendo i politici locali.
Mi sarei aspettato grandi proclami per accaparrarsi voti..
e' proprio finita !
Con i danni che hanno fatto negli ultimi 5 anni e' meglio che stanno zitti dentro casa questi caproni che abbiamo per "politici".
Eliminal'unico che non se n'è andato, o per lo meno che ha delocalizzato senza desertificare il territorio è stato Casoli. Ma non è stato mai stimato a livello cittadino, troppo eclettico, troppo poco metalmezzadro, troppo lontano dalla famiglia feudataria di Bellaluce.
RispondiEliminaMah...
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