30 maggio 2014
26 maggio 2014
Tsunami elettorale: Fabriano Italia solo andata
L’effetto Berlinguer, che tanto ha occupato la discussione pubblica durante la campagna elettorale, c’è stato ma al contrario di come lo immaginava la piazza grillina. Come ci fu nel 1976, quando dopo la grande avanzata delle amministrative dell’anno prima, i moderati fecero quadrato attorno alla Dc per fermare il Partito Comunista, dato da tutti con la vittoria in pugno. I dati nazionali, assai più rumorosi che allora, sono al netto di ogni ambiguità interpretativa: è uno tsunami di Renzi e del Pd che hanno mobilitato l’elettorato tradizionale dei democratici assorbendo, come un aspirapolvere, il consenso che fu montiano e di Scelta Civica, una parte del voto che lo scorso anno andò a Grillo e una quota di elettorato di destra convinto che per rifondare l’area liberale fosse necessario punirla passando per l’ordalìa renziana. il 40% di voti al Pd – che tutti immaginavamo in contesa al fotofinish col Movimento 5 Stelle – rappresenta un consenso talmente esagerato e brutale da restituire un contesto politico che da tripolare secco è diventato, di fatto, unipolare. E questo è un problema che riguarda non solo Renzi ma il sistema nella sua interezza, perché a una sinistra ormai solida e inquadrata attorno al Presidente del Consiglio, corrisponde una destra che magari esiste ancora sul piano elettorale ma che politicamente non ha più partiti egemoni, leader credibili e, peggio ancora, non esprime una visione della società e un’idea liberale da contrapporre al blairismo centrista di un Renzi lanciatissimo anche in Europa. Rifondare la destra è quindi un’urgenza politica, una sfida di buona rappresentanza e un cantiere di sistema. Diversamente Renzi, senza un’opposizione forte e strutturata, sarebbe inevitabilmente risucchiato dalla vertigine del successo e quindi da una quotidianità a corto di aspettative, perché il valore di un centravanti dipende non solo dal talento nella sua azione di attacco ma anche dalla solidità e dall'estro della difesa che incontra. In questo quadro di un'Italia renziana il Movimento Cinque Stelle ha fatto l’unica cosa che poteva fare: puntare a una vittoria eclatante, qui ed ora, per collocarsi strutturalmente al centro del sistema politico italiano e sbaragliare il competitor fiorentino. Per conseguire questo obiettivo ha bolscevizzato la campagna elettorale, dividendo artificialmente il sistema politico, e in parte anche la società, tra “noi e loro”, alimentando una tensione permanente nel linguaggio e nella presenza politica, per spingere gli italiani a compiere una scelta di campo d’impronta “quarantottesca” tra il cambiamento e la conservazione. Un gioco rischioso che pareva destinato a sancire la sicura vittoria del Movimento, ma che ha prodotto un effetto collaterale potentissimo su gran parte dell’elettorato, stimolandolo alla ricerca di un soggetto che più degli altri fosse in grado di trasmettere un’idea di stabilità e di prospettiva moderata. Gli italiani hanno compreso che si stava giocando una partita tra “uomini senza qualità” e alla fine hanno scelto di sostenere quello meno ansiogeno ed apocalittico, ossia Matteo Renzi. Il Movimento 5 Stelle ha volontariamente tenuto altissima l'asticella delle aspettative elettorali e per questo oggi appare come il grande sconfitto, anche se le urne consegnano ai grillini un risultato di tutto rispetto che farebbe la felicità di parecchie forze politiche ormai ridotte a cespugli. Ma da oggi gli sarà difficile mobilitare i cittadini attorno a slogan che sono parte integrante dell’identità pentastellata e che le urne hanno sonoramente sovvertito e ridimensionato. Il contraccolpo della sconfitta, su un movimento che ha concepito la propria presenza nella società italiana come una marcia trionfale, sarà difficile da gestire, sia dal punto di vista della psicologia collettiva dei militanti, sia sul versante dei livelli di fidelizzazione elettorale. E questo rende possibile anche una deriva settaria del movimento, che invece di riflettere autocriticamente sulle cause della propria sconfitta potrà avere la tentazione di leggere la sconfitta come l’effetto di una macchinazione esterna governata e orientata da poteri persuasivi e invisibili.
Il quadro nazionale esce sostanzialmente confermato anche a Fabriano. Il Pd arriva al 48%, aumentando di circa 22 punti percentuali rispetto all’anno scorso. Essendo elezioni europee non siamo di fronte a un consenso che possa essere meccanicamente attribuito alla Giunta Sagramola. Ma sarebbe comunque cieco e anche alquanto sciocco non riconoscere in questi numeri un rafforzamento politico della Giunta Sagramola e del principale partito che la sostiene. Quindi Sagramola chiuderà senza crisi e senza scosse il proprio mandato ed è bene che l’opposizione tutta se ne faccia una ragione. Il Movimento 5 Stelle perde circa sette punti rispetto alle politiche dello scorso anno quando si affermò come primo partito cittadino. Un risultato che ne ridimensiona le ambizioni, anche se ad oggi ha dimensioni che lo porterebbero al ballottaggio, ma comunque difficili da confermare nel 2017. Sparisce invece la destra cittadina che in sette anni è passata dal 49,9% delle comunali del 2007 al 16-18% di oggi. Sono dati di fatto che possono non piacere ma costituiscono il fondamento numerico di ogni possibile ripensamento. Stavolta sarà l’opposizione a dover cambiare verso. Diversamente c’è solo un “tutti a casa” silenzioso e mesto.
23 maggio 2014
Perchè domenica non voto e sono contento
Mi dichiaro senza diplomazie e senza paramenti: sono un elettore di mezzo ma non di centro, una genìa vezzeggiatissima nei sistemi maggioritari perchè oscillando sigilliamo vittorie e sconfitte, uno dei molti ma non troppi avvezzi al vagabondaggio elettorale inteso come movente primario, perchè prima
vengono le mie idee, i miei capricci e i miei tiraggi di culo e solo in seconda istanza la ricerca del soggetto più adatto a darne una rappresentazione politica non banale e non scontata. Di fatto - anche in ragione di questo sanissimo ed eccentrico vagare, che taluni superficialmente biasimano come riprova di visione ondivaga - ho smesso di votare sempre allo stesso modo nel 1996 perchè l'appartenenza è sempre e comunque liberticida, e sinceramente
non me ne sono mai pentito, perchè investire in un unico contenitore di emozioni politiche è tentazione che non può tentare chi ha conosciuto il tempo delle ideologie, coi suoi richiami pesantissimi e suoi grigi rituali. Le elezioni, infatti, servono per scegliere una
formula di governo, per giudicare una compagine in carica o rinnovare parlamenti pletorici come quelli sovranazionali. Per questo l'utilità del voto e del non voto è mutevole e cambia in base alle situazioni, al contesto, agli interessi, agli opportunismi e agli scenari che di volta in volta si vanno a determinare. Inoltre il votare, e si mettano l'anima in pace i milioni di concittadini sedotti dall'apriscatola, non serve per cambiare il mondo, dato che la palingenesi è un'aulica fregnaccia che alla nostra età
risulta non solo anagraficamente ottusa ma pure un tantino ridicola e pacchiana. Eppure, come tanti cittadini ed elettori, non sono
mai riuscito ad essere totalmente pragmatico e laico nelle
mie scelte politiche e spesso ho votato sull'onda di timori, furori e paure, di quel
budellame di istinti che è parte integrante dell'inganno politico ed elettorale. Ogni volta reattivo e vigile innanzi al medesimo eco scoglionante: vada per il voto utile, si scelga il
meno peggio, attenti a Berlusconi, attenti a Grillo, attenti ai fascisti,
attenti ai comunisti, arrivano i nostri, cambieremo il mondo, vinco io, vinci tu, vinciamo noi. Un repertorio che
si ripete e scavalla come un'onda e infinitamente concorre a replicare la
rumorosa e stancante gara in cui si gioca soltanto a chi piscia più lontano. Fin quando arriva il giorno della nausea abissale e decidi d'essere sordo a ogni appello e indifferente alle parole manomesse e smerciate come opportunità e mondo nuovo. E d’incanto
ti liberi dalla reclusione del senso di colpa, da quell'atavico civismo che vuole ogni buon cittadino alle urne col vestito della festa; ti
emancipi dal raggiro illiberale secondo il quale "chi non vota non può lamentarsi", come se la
sovranità popolare fosse vincolata e non invece assoluta e indivisibile, e ti
rendi conto che l’astensionismo non è la morta gora dei pavidi e degli ignavi
ma la zona franca di un'antica e prezzoliniana "congregazione degli apoti". Apoti in quanto gente che non la beve, che preferisce ammutinare per sottrarsi al
”tumulto delle forze in gioco per chiarire le idee, per far risaltare i valori,
per salvare sopra le lotte, un patrimonio ideale, perché possa tornare a dare
frutti nei tempi futuri” (Giuseppe Prezzolini). Sono sincero: ci sono mille ragioni per votare e altrettante per non farlo. Stavolta evito le urne perché non posso digerire una sinistra
ridotta al vestito vermiglio del Ministro Boschi e alle battute del suo principale; diserto perchè non posso consegnare l'illusione liberale a una destra di Dudù e tutù, di vestali, amazzoni, assistenti ed ereditiere; passo la mano perchè non amo gli invasati coi capelli grigi e i guru coi ricciolini, osannati da un alveare di militanti che sconfinano nel sacerdozio politico e tanto manichei quanto gli antichi cristiani prima del Concilio di Nicea: mi piacciono gli alberghi a cinque stelle, molto meno le forze politiche che si danno il voto da sole. Il problema, secondo il mio modestissimo sentire, è che la
malattia del sistema è purulenta e cronica ma la medicina, seppur scintillante e piazzaiola, è infernale e ansiogena quanto il male che pretende di sradicare.
E così, verdianamente, tendo a pensare che “questa o quella per me pari sono”. Senza essere il Duca di Mantova nel Rigoletto, ma soltanto un cittadino appartato di questa povera patria. Buone elezioni a tutti!
Quella lettera rivelatoria del sindacato al Prefetto
Domattina (oggi per chi legge), presso lo stabilimento del Maragone, si terrà una nuova assemblea sindacale degli operai della JP. I rappresentanti di Fiom, Fim e Uilm, con ogni probabilità, riferiranno sull'esito dell'incontro con il Prefetto di Ancona, a cui si erano rivolti per sollecitare un intervento nei confronti del Governo e dell'INPS. Obiettivo: sbloccare l'erogazione della cassa integrazione che l'istituto previdenziale tiene in mora dall'inizio dell'anno, nonostante il via libero sancito dal Ministero del Lavoro tramite specifico decreto di nullaosta al pagamento. Di fatto ci troviamo di fronte a una situazione assurda ma comunque tipicamente italiana, con un organo dello Stato che mette nero su bianco il prolungamento della cassa integrazione, un ente pubblico che si riserva di eseguire il pagamento e le organizzazione sindacali che per garantire l'esercizio di un diritto sono costrette a rivolgersi al Prefetto - rappresentante del Governo sul territorio - per sollecitare il Governo affinchè, a sua volta, solleciti nuovamente l'INPS. E fin qui siamo all'incertezza del diritto e al suo naufragio tra i mille rivoli delle procedure dello Stato. Ma c'è anche una fondamentale questione di sostanza che i mezzi di informazione, il sindacato e anche i lavoratori si guardano bene dall'affrontare. Nella lettera inviata dai sindacati al Prefetto c'è un passaggio interessante che vale la pena riportare: "Ad
oggi i 700 lavoratori non hanno ancora ricevuto l’integrazione
salariale della cassa integrazione e sono senza salario da gennaio 2014." In pratica le organizzazioni sindacali, ovvero le rappresentanze dei lavoratori e non certo un Simonetti qualsiasi, scrivono al Prefetto che sono 700 i lavoratori senza salario dall'inizio dell'anno; 700 lavoratori non remunerati che attendono lo sblocco della cassa integrazione. Tradotto nel linguaggio di tutti i giorni vuol dire che nessuno dei riassunti viene remunerato attraverso l'impiego nelle attività di produzione della JP. Le possibilità sono due: o le ore di produzione a rotazione determinano un monte ore irrisorio in ciscuno dei 700 lavoratori rendendo indispensabile la cassa integrazione o gli impianti della JP sono sostanzialmente fermi dall'inizio del 2014. In entrambi i casi il significato è chiarissimo: la JP come realtà dotata di continuità operativa e di un profilo produttivo certo esiste prevalentemente nella linea agit-prop del sindacato e come giustificativo per la richiesta del prolungamento della cassa integrazione. Fossi un lavoratore per comprendere a fondo la situazione proverei a fare ai sindacati un paio di domande, di quelle semplici e concrete: dall'inizio dell'anno alla fine di aprile ci sono stati 81 giorni lavorativi. E' possibile sapere il numero di giornate in cui gli stabilimenti della JP hanno funzionato regolarmente, ossia per otto ore lavorative? Ed è possibile sapere quanti lavoratori sono stati cumulativamente impiegati in quelle stesse giornate? Già questo dato, infatti, sarebbe sufficiente per comprendere il reale perimetro industriale dell'operazione JP ed è per certi versi divertente e anche ironico che a rivelarne la dimensione più plausibile sia stato, sicuramente senza volerlo, la lettera del sindacato al Prefetto in cui si parla di 700 lavoratori senza salario; un sindacato, non dimentichiamo mai, che ha sempre difeso a muso duro e in modo sostanzialmente conformista e acritico il contenuto e il valore industriale dell'operazione JP.
22 maggio 2014
Spigoli e tegole sul voto di domenica
Domenica si vota per il rinnovo del Parlamento Europeo.
Un appuntamento elettorale da sempre a bassa tensione, tradizionalmente dedicato
all'espressione più libera e genuina del voto d’opinione e senza vincoli di schieramento, di coalizione e di governo. Ed è proprio questo mix di “leggerezze” - mediamente emancipato da passioni politiche che di solito rasentano il calcistico - a farne il migliore osservatorio
degli umori politici profondi degli italiani rispetto all’azione del Governo in carica, al giudizio
sui partiti e a fenomeni politicamente rilevanti, come un astensionismo sempre più percepito e vissuto come scelta politicamente attiva e non più in termini di distacco assoluto e passivo dal governo della cosa pubblica.
Di contro il voto europeo viene ritenuto il meno adatto a restituire indicazioni di natura
locale, perché le elezioni amministrative – e in modo particolare le comunali – sono
da sempre condizionate da fenomeni che non consentono "leggerezze di scelta" come la personalizzazione del voto, la proliferazione
di liste civiche e liste civetta e e la prevalenza spesso asfissiante di pressioni e ricatti clientelari. Sarebbe quindi errato trarre dal voto di domenica sera
conclusioni affrettate e automatismi politici circa il livello di consenso e di tenuta della Giunta Sagramola, ma siccome non viviamo sulla luna un qualche effetto di
clima, relativo alla realtà fabrianese, è giusto e naturale aspettarselo e considerarlo.
La comparazione non può essere fatta con le elezioni europee del 2009, perché
il cambio di scenario politico - nell’ultimo quadriennio - è stato talmente profondo
e radicale da impedire qualsiasi confronto possibile tra prove elettorali ormai solo
formalmente riconducibili a una medesima tipologia. La tornata elettorale di
confronto più significativa sono le elezioni politiche del febbraio
2013; elezioni che avevano restituito alla città un vero e proprio terremoto politico e un inatteso cambio di leadership
politica, con il Movimento Cinque Stelle al 31,5%, ossia quasi cinque punti
avanti al Pd, inchiodato al 26,7. Un bipartitismo di fatto, con le due
principali forze politiche capaci di attrarre, in solido, qualcosa come il 60% dei voti, ovvero
10.500 voti in valore assoluto. A fianco di questi due colossi elettorali le Politiche delinearono anche l'esistenza di
altre due aree, elettoralmente e politicamente minori: una destra complessivamente attestata al 18% e un’area
montiana quantificabile attorno al 15%, all’interno della quale spiccava l’UDC ridotta al 4%, che è sempre troppo per un partito che ormai presenta dappertutto percentuali da prefisso telefonico.
La “sfida fabrianese” di queste elezioni europee è, quindi, inequivocabilmente
una e una sola: quella tra Movimento 5 Stelle e Partito Democratico. Se il PD ribalta la
forbice del 2013 e si ritrova primo partito cittadino, Sagramola può dormire
sonni tranquilli fino alla scadenza naturale del suo mandato. Se invece sarà il
Movimento 5 Stelle a vincere, confermando o aumentando i suoi voti, vorrà dire
che la Giunta Sagramola è, di fatto, un’amministrazione di minoranza, ossia formalmente
legittimata ma politicamente abusiva. E vorrà anche dire che il Movimento 5 Stelle avrà tutto l'interesse a cavalcare l'onda e a progettare una spallata contro Sagramola che, molto probabilmente, lo porterebbe a vincere eventuali elezioni comunali anticipate. A margine di queste considerazione c'è da dire che la crisi irreversibile dell’esperienza
montiana libera voti in uscita che, in parte, confluiranno sul Pd e in parte
andranno a vantaggio del Nuovo Centro Destra-Udc, una strana creatura
elettorale che a Fabriano è allo stesso tempo all’opposizione (la componente di Alfano) e al governo (l’Udc). Un’aggregazione formalmente unitaria che non
consentirà di spacchettare i voti tra le forzse che la compongono, menomando il giudizio complessivo sui nuovi equilibri locali che emergeranno dal voto. Inoltre ci sarà da valutare il risultato di
Forza Italia – partito che a Fabriano di fatto non esiste più – la cui diaspora
potrebbe riversarsi in parte anche sul Movimento Cinque Stelle che riesce
a intercettare quote "arrabbiate" dell’elettorato di destra. I
fattori da considerare sono, quindi, parecchi e sarà davvero interessante capire quali
effetti elettorali possa produrre il crollo di popolarità della Giunta
Sagramola, venutosi a determinare a partire dalla fine dello scorso anno quando la questione Tares determinò il punto di rottura politica tra
Sagramola e e i fabrianesi. Come si diceva all’inizio non si deve dimenticare che si vota
per l’Europa,a nche se alla fine non sembra. Ma non dimentichiamo neanche che chi vota per l’Europa guarda principalmente
al governo del proprio Paese e anche a quello della propria città. Può non
piacere questa moltiplicazione impropria di ambiti, ma da che mondo è mondo è
così. Che piaccia o meno e a chi governa e a chi gli suona il piffero.
20 maggio 2014
Tra disoccupazione di massa, suorine e fiction
La Confartigianato ha lanciato l’ennesimo
allarme sulla ininterrotta morìa di imprese artigiane nel territorio di
Fabriano e il Messaggero ha rilanciato la questione proponendo ai propri
lettori le cifre durissime della disoccupazione in città. Vale la pena
ripeterlo: stiamo parlando di un tasso di disoccupazione che coinvolge il 22%
della popolazione in età da lavoro e che è tuttora edulcorato, nella sua
dimensione quantitativa, da situazioni in bilico come quella della JP. Inutile
nascondere la realtà dei fatti: viviamo in condizioni occupazionali da profondo
Sud, con la differenza che rispetto a molte regioni meridionali non godiamo del
palliativo dei finanziamenti a pioggia e di quella propensione alla sopravvivenza
che è un requisito di psicologia collettiva fondamentale per restare a galla.
Purtroppo il combinato disposto di una classe politica apparsa sulla scena
senza militanza di base e senza tirocinio personale, di un sistema informativo
felice di rincorrere eventucci e sciocchezzuole e di una comunità depauperata d’orgoglio
e di energia ha generato un cortocircuito che spinge inesorabilmente verso l’implosione.
La crisi sta colpendo, senza soluzione di continuità, tutto il Paese ma è
impressionante come, in un quinquennio, questa città e questo territorio siano
passati da uno stile di benessere e di occupazione quasi scandinavo a una
mistura di negatività infinite quasi di sapore greco, dissolvendo senza colpo
ferire circa un miliardo di euro di fatturato riconducibile a una consolidata
produzione industriale. Ed è altrettanto incredibile, e per certi versi pure antropologicamente
inspiegabile, come alla velocità e ella violenza dell’implosione abbia
corrisposto un livello di reazione incomparabile con la portata della deflagrazione.
Paradossalmente era possibile fare di necessità virtù, trasformando la
profondità della crisi in un fattore critico di successo, come lo fu in passato
il modello dell’industrializzazione senza fratture e della piena occupazione. Fabriano
sintetizza, infatti, in modo straordinario la crisi dell’Italia, le sue fragili
ma persistenti illusioni di crescita infinita e la sua realtà presente,
costellata di umiliazioni produttive e di pezze al culo. Avremmo dovuto farci
simbolo e brand di questo strazio nazionale, per diventare una sorta di
laboratorio sociale ed economico di una ipotesi di ricostruzione in cui
convogliare attenzione, energie mediatiche e risorse produttive esterne. Invece
si è preferito fingere che c’era ancora abbastanza grasso per indossare il
vestito della festa e nascondere la realtà staccando a singhiozzo qualche
assegno di cassa integrazione lunga. Ci sono nel Paese imprese, neanche troppo
grandi o importanti, che hanno ristrutturato o chiuso i battenti e i lavoratori
coinvolti hanno fatto i numeri per accendere un riflettore, attrarre l’attenzione
dei media e ingigantire il peso della loro rabbia. A Fabriano è sparito un
gigante da 500 milioni di euro di fatturato e quasi non ce ne siamo accorti,
svanito come un peto nello spazio, coi lavoratori che evitavano di sfilare in
centro storico per non disturbare i commercianti. E la politica locale che ha
fatto? Ha creato un clima di aggregazione e di mobilitazione? No, la politica
locale ha abborracciato quattro rotatorie inutili per facilitare la mobilità di
una comunità che gira in macchina per ammazzare il tempo, uno spizzico di voucher
in città e un bella foraggiata di lavoretti nelle frazioni perché alla fine
quel che conta sono sempre quelle migliaia di votarelli. E per concludere la
farsa ospitiamo in città una fiction, appena cacciata da Modena perché costa un
botto e non porta un fico secco di ritorno economico. Ironia della sorte si
intitola “Che Dio ce la mandi buona”, ma è solo un titolo di contrappasso dato
che nessuno, oramai, gira più lo sguardo da queste parti. Nel primo film di
Nanni Moretti, Ecce Bombo del 1978, c’è una scena che si svolge in un bar.
Michele, il protagonista, grida contro il proprietario: “Bianchi e
neri sono tutti uguali? Ma che siamo in un film di Alberto Sordi?” Il
proprietario lo caccia dal locale e Michele rilancia: “Te lo meriti Alberto
Sordi!”. Ecco, è il caso di dirlo: ce la meritiamo questa politica locale e
questa situazione del menga.
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