30 giugno 2013

Le pagelle della settimana


Giancarlo Sagramola voto 3
Invece di amministrare scrive una filippica contro l’autore di questo blog, colpevole di un’opinione a lui non gradita sul caso Tecnowind, dimenticando che un Sindaco non polemizza con privati cittadini. Giudizio critico: rancoroso!
Maria Paola Merloni voto 4
Continua il suo silenzio sul caso Indesit. Ma se è comprensibile come azionista è intollerabile come parlamentare che rappresenta l’intera nazione. E fino a prova contraria Fabriano è ancora Italia. Giudizio critico: vanitoso!
Gianmario Spacca voto 5
Sul caso Indesit si muove senza sosta per favorire una soluzione che salvi la città, il territorio e la sua carriera politica. Un attivismo frenato di colpo da Fratelli d’Italia che lo accusa di avere un conflitto di interessi sul caso Indesit Giudizio critico: affondato!
Angelo Tini voto 6
E’ il grande artefice della vendita di immobili di proprietà comunale tra cui spiccano i circa 400 mila euro richiesto per l’acquisto del Bar Centrale! Una pioggia di cifre, senza alcun contatto con la situazione economica della città. Giudizio critico: giocherellone!
Franco Silvestrini voto 7
Aggredito da due giovani fabrianesi che cercano di rapinarlo riesce, nonostante i colpi subiti, ad allarmare il vicinato e poi a riconoscere i giovani aggressori, prontamente arrestati dalla Polizia di Stato. Giudizi critico: eroico!
Stefano Balestra voto 8
Da decano degli operai Indesit prende la parola prima della Sfida del Maglio, nella serata conclusiva del Palio di San Giovanni Battista, per chiedere alla città di essere solidale con i lavoratori della Indesit. Giudizio critico: Emblematico!
    

29 giugno 2013

L'onore di Squinzi e le parole ritrovate



Nei giorni passati ci si è molto interrogati sul silenzio di Confindustria sulla vertenza Indesit. E in molti hanno interpretato la posizione defilata dell'associazione degli imprenditori come una sorta di peccato di omissione rispetto alla drammatica situazione economica e occupazionale del nostro territorio. In realtà era assai difficile - se non impossibile - per la Confindustria regionale, e più ancora per quella della provincia di Ancona, assumere una posizione di esplicito dissenso o rimarcare una netta presa di distanza dal principale gruppo industriale marchigiano: sia in quanto soggetto che si presume versi una consistente quota associativa sia perchè Andrea Merloni è stato scelto per affiancare, col ruolo di Vicepresidente, il neopresidente di Confindustria Ancona Claudio Schiavoni. Insomma, pretendere che Confindustria aprisse il fuoco sul più importante dei suoi associati era un po' come chiedere alla Fiom di abbandonare i lavoratori Indesit al loro destino. Ma ieri ad Ancona è arrivato Giorgio Squinzi, il Presidente nazionale di Confindustria. Squinzi è un imprenditore del nord, attento ai problemi della produzione e agli effetti deflagranti di una questione occupazionale e sociale sempre più grave e irrisolta. Con le sue parole, pronunciate in occasione dell'assemblea dei soci di Confindustria, Squinzi ha, in qualche modo, tolto dall'imbarazzo i suoi sodali marchigiani sulla questione Indesit. Lo ha fatto calibrando i toni e scegliendo la via diplomatica del dire lasciando intendere: "Spero si possano trovare soluzioni che non danneggino i lavoratori e che non distruggano l'occupazione nel nostro Paese." Sono parole sicuramente morbide e levigate ma si focalizzano sulla centralità del lavoro e dei lavoratori e non certo sulle economie di produzione a cui fa appello il management Indesit per giustificare le proprie scelte. Una soluzione della vertenza Indesit che non distrugga l'occupazione nel nostro Paese - ossia a Fabriano e a Teverola -  può esistere solo se viene rimesso in discussione il tema degli esuberi, perchè ogni lavoratore computato come "di troppo" nei processi produttivi è oggettivamente un frammento di distruzione del lavoro che si attua nel nostro Paese. Ciò significa che Confindustria, al massimo livello, non condivide la linea dura dell'azienda, il ricorso alla serrata, l'indisponibilità a trattare sugli esuberi e l'obiettivo sempre più dichiarato di delocalizzare lasciando alla collettività e agli ammortizzatori sociali la sepoltura dei morti e la cura dei feriti. Si tratta di un pronunciamento politico di grande rilievo che, fino ad ora, non sembra essere stato colto dagli osservatori e dai diversi soggetti coinvolti nella vertenza Indesit. Più di questo, realisticamente, da Confindustria non si poteva pretendere anche perchè uno Squinzi vestito da Landini o col fervore di un Cremaschi sarebbe apparso assai poco credibile, sia per i suoi associati che per la controparte. Non a caso si viene riconosciuti come interlocutori forti e affidabili quando si ascoltano gli altri restando se stessi e non quando si gioca a compiacere la controparte, magari fingendo di averne fatto propri i sentimenti e le posizioni.
    

Tecnowind: patacche e pepite

E' proprio vero che ogni giorno ha la sua croce. Dopo la serrata parziale proclamata ieri da Indesit, oggi torna prepotentemente sulla scena l'affaire Tecnowind. Un caso ritenuto mezzo risolto un paio di settimane fa quando Sindaco e Assessore alle attività produttive convinsero le banche a riattivare le linee di credito a breve, necessarie per smobilizzare il fatturato e far circolare liquidità in azienda. L'operazione venne strombazzata ai quattro venti come testimonianza concreta dei poteri magici della politica e abbiamo ancora davanti agli occhi l'immagine deamicisiana e strappalacrime del primo cittadino che scende tra i lavoratori ad annunciare il lieto fine. Purtroppo la situazione di Tecnowind era assai più drammatica di quel che lasciavano intendere i barbatrucchi e le corone d'alloro e, proprio in queste ore, si scopre che l'azienda non ha ancora presentato al Tribunale la documentazione necessaria per l'accesso al concordato preventivo e per attivare lo sblocco della liquidità. I trionfatori di due settimane fa stamattina dichiarano di essere stupiti e di non riuscire a comprendere le ragioni di questo ritardo. In verità il problema del ritardo si comprende benissimo perchè a mancare non è la fotocopia di un atto o una marca da bollo ma il Piano industriale, ossia il documento di indirizzo strategico sulla cui base procedere al concordato preventivo e all'eventuale sblocco della liquidità. Perchè i debiti verso i fornitori non si possono congelare per sport, così come è improbabile che le banche sblocchino la liquidità soltanto perchè ammaliate dalla barba di Sagramola. Ma perchè non c'è un piano Industriale? Il motivo è semplice: il Fondo proprietario della Tecnowind è in liquidazione. E una proprietà in liquidazione è difficile che possa presentare un Piano Industriale. E la valutazione del Piano Industriale non è un corollario o un'attività di complemento ma un'azione propedeutica all'accettazione stessa del concordato preventivo da parte del Tribunale. Questo significa che la situazione ritorna esattamente al punto in cui era due settimane fa: per produrre servono materie prime, per comperare le materie prime occorre liquidità, anche se derivante da crediti smobilizzati. Ragion per cui se vuoi produrre devi pagare le materie prime in contanti perchè nessuno "regala credito" ad aziende in gravi difficoltà, e quindi sei hai soldi le compri altrimenti nisba e ti accontenti di una produzione a singhiozzo. Ma se produci a singhiozzo perdi mercato, perchè i clienti hanno bisogno di continuità negli approvvigionamenti e non di forniture una tantum. La prossima volta quindi sarebbe il caso che i politici, prima di vestirsi da re taumaturghi, acquisiscano qualche informazione in più, evitando di vendere patacche per pepite d'oro.
    

28 giugno 2013

Gatti selvaggi e rappresaglie

La Indesit delle relazioni industriali costruttive, dei dieci piani di morbidezza, delle scelte ponderate e concertate è sparita stamattina con la decisione di chiudere gli stabilimenti di Melano e Albacina. Ufficialmente si tratta di una scelta dovuta a un problema di approvvigionamenti generati dagli scioperi a gatto selvaggio di questi giorni. In realtà si gioca sulle mille pieghe della lingua italiana che, essendo come la pelle dei coglioni, consente di denominare difficoltà di approvvigionamento delle linee produttive ciò che si configura come un vero e proprio lock-out, una serrata non apertamente dichiarata e riconosciuta. I sindacati, in un comunicato congiunto, hanno parlato di comportamento antisindacale dell'azienda. Si tratta di una posizione solo formalmente dura ma necessaria per coprire mediaticamente il nuovo scenario e pianificare una risposta efficace. In realtà, e i sindacati lo sanno benissimo, non siamo di fronte a un semplice comportamento antisindacale, ma a un vero atto ostile, scioccante e inatteso, che spazza via - come una folata di tramontana chiarificatrice - la prima fase di questa vertenza, basata su un conflitto a bassa tensione, su scaramucce sostanzialmente componibili. Il vertice della Indesit, con l'intuito animalesco e sopraffino di chi si gioca una partita strategica che deve soltanto essere portata a termine e vinta, ha compreso appieno che con gli scioperi a gatto selvaggio si concludeva la parabola del buon metalmezzadro conciliante e che il conflitto avrebbe compiuto un salto di qualità totalmente inedito per il nostro territorio. E consapevoli che chi picchia per primo picchia due volte hanno deciso di affondare repentinamente la lama nel burro, confidando sull'effetto spiazzante della mossa a sorpresa e sulla convinzione che uno scontro al calor bianco possa mettere a repentaglio la tenuta sindacale, fiaccare la volontà di lotta dei lavoratori e disarticolare l'azione unitaria delle maestranze. Fortunatamente, come scrissi qualche giorno fa, la componente campana e casertana dei lavoratori Indesit è sul piede di guerra e ha subito promesso un salto di qualità nel livello della protesta. In questa Guernica sociale, di cui la guerra dei nervi è componente fondamentale, sarà decisiva la posizione dei colletti bianchi che, in una eventuale radicalizzazione dello scontro, rischiano di trovarsi in mezzo, come vasi di coccio tra i vasi di ferro. Ma sarà centrale anche la tenuta dell'unità sindacale che è l'unico, vero argine al rompete le righe dei lavoratori. E l'effetto formicaio impazzito, il tutti a casa, l'8 settembre di Albacina e Melano è ciò che trasformerebbe la delocalizzazione Indesit in una marcia trionfale e e l'approdo in Polonia uno sbarco in Normandia. In gioco, a questo punto, c'è una scelta difficile: o si contratta o si occupano fabbriche e uffici. Tertium non datur. E non ci saranno prigionieri. Oggi siamo tutti Fiom, Fim e Uilm. Ma per favore, fate mettere in soffitta quella terribile t-shirt.
    

Il paternalismo e la resa in una maglia sola

“Una t-shirt con la foto di Vittorio Merloni e la scritta “ci manchi”. Stamani alcuni lavoratori si sono presentati vestiti così ai cancelli delle fabbriche di Melano e Albacina, dando il cambio ai colleghi che avevano partecipato ai presidi notturni.“. Ho appreso questa notizia dai siti on line che trattano la vertenza Indesit e da un dispaccio dell'Ansa. Giusto ieri mi è capitato di scrivere del tentativo di creare una distinzione artificiale, ideologica e profondamente autoassolutoria tra Merloni buoni e Merloni cattivi, per la semplice ragione che è stato il merlonismo come modello industriale e come cultura del comando a dare a questa città un’illusione temporanea di ricchezza, con già innestato il dispositivo dell’autodistruzione e della povertà prossima ventura. E Vittorio Merloni è stato uno dei principali protagonisti di questa storia industriale e non una figura marginale o dissenziente da trasformare in nuova icona del movimento operaio locale. Dire che Vittorio Merloni è “uno di noi” significa, infatti, ritornare a Menenio Agrippa, ai patrizi e plebei uniti, all'idea paternalista dell'azienda che si fa rifugio e famiglia. E’ vero che in questa città non è mai esistita una linea di demarcazione netta tra capitale e lavoro, ma che il lavoro, tirato per la giacchetta, ingaggi una lotta senza quartiere contro il capitale nomade e delocalizzatore utilizzando i volti del capitale stesso come vessillo delle proprie ragioni, è una dichiarazione di resa culturale che è tanto clamorosa quanto difficile da comprendere e giustificare, specie in un momento in cui si rompono trattative e l’azienda rivendica, uno per uno, i 1.425 esuberi pianificati. D’altro canto non risulta che gli operai della Fiat indossassero t-shirt con stampata l’immagine di Gianni Agnelli quando Marchionne ed Elkann davano vita a Fabbrica Italia e ipotizzavano un nuovo asse Belgrado-Detroit. E gli operai della Fiat sono da sempre la punta di diamante dei metalmeccanici italiani e i soggetti a cui fare riferimento comparativo nelle lotte e nelle vertenze. In generale il movimento dei lavoratori ha sempre avuto i suoi simboli e le sue bandiere, i numi tutelari, gli eroi e le vittime da cui trarre ispirazione, energia e appartenenza. Molti di questi eroi sono stati rimossi e dimenticati, ma non avremmo mai immaginato che il senso di una lotta operaia avrebbe assunto le sembianze e la fisiognomica della controparte padronale. C’è davvero più FaVriano in questa t-shirt che in mille elaboratissime e sofisticate filosofie.
    

E lucean le stelle....


Foto: Mi scuso per l'insolenza ed il disturbo, ma lei è sempre molto attento alle difficoltà degli ultimi e dei più soli
questa volta si parla dei lavoratori fabrianesi
e del territorio limitrofo
che sa bene
esser massacrati
dalla precedente ed attuale incombente
minaccia
al loro lavoro
ho organizzato
con l'ufficio cultura della diocesi di Fabriano
di cui sono Direttore
una fiaccolata
di preghiera a sostegno di queste parsone
le chiedo aiuto 
nella divulgazione dell'iniziativa e nella solidarietà del gesto
la ringrazio sentitamente
don Andrea Simone

Lunedì 1 luglio alle ore 21, da Piazza del Comune, prenderà il via una fiaccolata per il lavoro - promossa dalla Parrocchia di Melano, dalla Diocesi e dalla Pastorale per il Lavoro - che si concluderà presso lo stabilimento di Melano. Personalmente ho avuto il piacere di collaborare a questa iniziativa che ha l'obiettivo di alimentare una sensibilità solidale della città rispetto ai drammatici problemi del lavoro che stiamo vivendo. E' stato questo, fino ad ora il vero tallone d'Achille, perché nonostante limiti e incertezze l'azione sindacale si è sviluppata in modo forte e creativo. E' invece mancata la città, che non è riuscita a farsi cuore pulsante, retrovia vivo di un impegno a difesa del lavoro che ha bisogno di oltrepassare i cancelli delle fabbriche e germogliare quasi casa per casa. Ma sarebbe del tutto idealistico immaginare una Fabriano in cui ogni cittadino, autonomamente, diventa partecipe e solidale, perché l'inerzia delle cose è una zavorra condizionante e la cura del "particulare" un richiamo forte e primario. Ecco allora che servono stimoli esterni che possano catalizzare l'attenzione e la partecipazione. E nel vuoto assoluto della politica locale - che  attraverso i partiti avrebbe dovuto esprimere ben altra qualità della rappresentanza - l'unico soggetto capace di farsi comunità, di trovare un luogo comune estraneo ai limiti e alle faziosità dell'appartenenza politica e di immaginare una partecipazione non divisiva è la Chiesa. Si tratta di una constatazione fotografica, di una Polaroid puramente laica che va oltre il giudizio sul fare e sull'essere del cattolicesimo e della sua organizzazione terrena. La fiaccolata è, infatti, una manifestazione fortemente simbolica e altamente unificante, fondata sui segni e sul significato della luce. La luce, per i credenti, incarna l'appello al chiarore della verità e alla potenza del Creatore affinché ispiri la coscienza e le scelte di chi, con le sue decisioni, può distruggere le vite e il destino degli altri. Per noi laici la luce è il lume settecentesco della ragione, il "chiaro e distinto" cartesiano, la capacità di modificare la combinazione delle cose attraverso il supporto di una razionalità in grado di progettare e proporre soluzioni a tutela del lavoro e dei lavoratori. La luce è, per tutti, la vita che si oppone all'istinto di morte, al thanatos freudiano che accompagna certe decisioni scellerate e certi Piani di Salvaguardia. Ma da buon laico mi è sorto naturalmente un dubbio: questa fiaccolata serve a qualcosa o è soltanto una testimonianza destinata a disperdersi rapidamente? Non serve nel senso utilitaristico del termine, perché non sarà il chiarore di poche o molte candele a modificare i contenuti del Piano o a cambiare le certezze lautamente remunerate dei manager Indesit. Ma questa fiaccolata è, sicuramente, un segno di speranza e di fiducia nella comunità, in noi stessi e nel futuro. Per una volta proviamo a essere fabrianesi e a dimenticarci di tutto il resto. E' solo un auspicio e una speranza ma, come diceva il filosofo marxista Ernst Bloch, l'uomo è innanzitutto un animale che spera. E la speranza si nutre di lavoro, perché senza lavoro "l'animale che spera" è soltanto disperata solitudine.
    

27 giugno 2013

Indesit: ma è solo colpa di Maria Paola?


Flash n°1. Susanna Camusso sta parlando in Piazza del Comune, sotto un sole cocente. Sul fianco sinistro del palco, allestito last minute, campeggia uno striscione. Vi si rimprovera Maria Paola Merloni per aver chiesto il voto e per aver lasciato la gente nel vuoto. Poco lontano alcune operaie mostrano una foto di Aristide Merloni con stampata una frase del fondatore sui doveri nei confronti del territorio.
Flash n°2. Assemblea sindacale degli impiegati Indesit degli uffici centrali. A incontro concluso Vincenzo Gentilucci, segretario dei metalmeccanici della UIL, posta un commento su Facebook: i colletti bianchi rimpiangono i tempi di Vittorio Merloni quando contava fare industria e non finanza.
Flash n°3. Fabrizio Bassotti, segretario provinciale della Fiom, chiede a Maria Paola e Andrea Merloni un pronunciamento netto sul Piano presentato dal management pur sapendo che quel Piano non poteva neanche essere concepito senza il benestare preventivo della proprietà.
Tre flash che corrispondono a un’unica fotografia: il bisogno di una raffigurazione mitologica del passato da meglio contrapporre alla decadenza del presente, un utilizzo selettivo della memoria necessario per spacciare il merlonismo di prima e seconda generazione come età dell’oro a fronte di una terza generazione distruttiva – come da manuale di organizzazione aziendale – e quindi socialmente insensibile, fisiologicamente assenteista e gestionalmente ignava. Ora, nonostante sia schierato coi lavoratori e con il sindacato mi sento di dire che questa è una narrazione edulcorata e adulterata della storia. Una versione che non convince perché assolve un’intera comunità dai propri peccati e dalle molte complicità, scaricando solo su Maria Paola e Andrea Merloni responsabilità che attraversano per intero la vicenda del merlonismo. So bene che in una fase come quella che viviamo si sente la necessità di capri espiatori e di figure bersaglio a cui addossare tutte le colpe. Ma l’essere storicamente immune dal servo encomio dei Merloni mi impedisce di accettare il codardo oltraggio dei molti che hanno servito e riverito MPM fino  a qualche mese fa, quando un’intera classe dirigente locale  - senza alcuna indignazione da parte dei fabrianesi – partecipò, in quel di Genga, a un indimenticabile aperitivo di sostegno alla candidatura montiana della ex deputata del Pd. La ragione del rifiuto è molto semplice:  l’intero ciclo merloniano – dal fondatore fino alla terza generazione -   stato segnato dal più naturale degli elementi che connotano l’esistenza di un’impresa: la convenienza. E se Fabriano è diventata una company town non è stato per amore ma per vantaggio e per calcolo dei profitti e delle perdite. E ciò che paghiamo oggi altro non sono che i vizi di origine di un modello industriale che, fin dalla nascita negli anni cinquanta, conteneva alcuni degli elementi peculiari del suo declino:  un sistema di bassi salari individuali che diventavano reddito borghese grazie alla remunerazione cumulativa di intere famiglie assunte nelle industrie Merloni; un paternalismo capace di individualizzare ogni rapporto di lavoro senza la mediazione classista del sindacato; un esercito di capi e capetti, elevati al rango di pretoriani del sistema, selezionati in base a criteri di fedeltà e obbedienza e spinti ad agire col fare occhiuto e spione del fattore nel podere mezzadrile; il rifiuto di qualsiasi insediamento industriale non autoctono che potesse alterare la dinamica retributiva del merlonismo spingendola verso l’alto; la progressiva trasformazione di Fabriano in un’appendice amministrativa del sistema industriale da cui pretendere e ottenere varianti, insediamenti e servizi collaterali di funzionamento; una politica concepita come funzione aziendale e come estensione del management d’impresa. E tutto intorno un consenso larghissimo ed entusiasta: le ottomila preferenze ad Antonio Merloni alle comunali del 1990; lo sguardo appenato e stupito degli astanti quando ti chiedevano come mai non “facevi domanda da Merlò”, i conti grassi e ridondanti alla Carifac, la casa a Torrette o a Marotta, il velato compiacimento nel dire che la Famiglia non tollerava svaghi, locali e balere ma manco puttane, scrocconi e delinquenti. Tutto questo per i Merloni era convenienza e per i fabrianesi sogno e dimensione onirica, perché ci si rifiutava di riconoscere l’altra faccia della luna, the dark side of the moon,  e cioè che quelle industrie erano insediate qui perché il gioco valeva la candela e i benefici del radicamento superavano ampiamente i costi della permanenza. Non era filantropia, non era amore, non erano radici ma solo e soltanto impatto sul profitto. Per una lunga fase c’è stata una coincidenza di interessi tra i percorsi di arricchimento e di benessere dei fabrianesi e redditività delle industre Merloni. Oggi quella convergenza tra sogno collettivo e redditività si è definitivamente consumata. Produrre a Fabriano e in Italia a Indesit non conviene più e sarebbe stata la stessa musica anche con Vittorio Merloni saldamente in sella. I lavoratori e il sindacato devono battersi fino all’ultimo respiro per difendere i posti di lavoro ma sostenere che con Vittorio Merloni sarebbe andata diversamente è consolante e sterile; incolpare Maria Paola Merloni di aver chiesto i voti senza fare mea culpa per averglieli dati è ingenuo e sospetto; ricordarsi del tempo felice nella miseria è saggezza dantesca e istinto di sopravvivenza. Ma la verità è un’altra: quel sistema era malato all’origine ma una comunità entusiasta e zelante ha fatto sì, col suo consenso, che non evolvesse e che qualsiasi idea di diversificazione fosse accompagnata da pernacchie e sberleffi. Oggi per non guardarci tutti allo specchio abbiamo bisogno di nemici e MPM e Andrea M. sono figure perfette su cui puntare il dito e imbastire demonizzazioni. Ma come cantava De Andrè, per quanto noi ci crediamo assolti siamo lo stesso coinvolti.
    

26 giugno 2013

I tavoli, i gatti selvaggi e le parole

L'appello lanciato dai sindacati al Ministro Zanonato a fare una scelta di campo, schierandosi dalla parte dei lavoratori e contro la Indesit, è una forzatura destinata a non avere seguito concreto perché significherebbe smentire venti anni di concertazione, di accordi interconfederali e di autonomia delle parti sociali, ridando lustro a uno statalismo negoziale che delegittimerebbe, innanzitutto, il sindacato, nella sua funzione di corpo intermedio e di luogo di rappresentanza del conflitto sociale. Ciò significa che quella richiesta parlava a nuora perché suocera intendesse. E la suocera, nello specifico, sono tutti i soggetti a vario titolo coinvolti nella vicenda, ossia i cosiddetti stakeholders: istituzioni, forze politiche, associazioni, cittadini, comunità locali. E' a queste realtà che si chiede di tirare una riga - o di qua o di là - e di schierarsi: senza remore, senza timori e senza "attendismi". Il problema è che il richiamo alla scelta di campo polarizza ma non mobilita perché contiene un appello alla semplificazione dei problemi e delle soluzioni che un'opinione pubblica esigente fatica ad accettare. I dirigenti delle organizzazioni sindacali sanno bene che nelle vertenze di questa natura è impossibile immaginare un bipolarismo netto di posizioni perché sono tante le implicazioni e le ragioni - materiali e non - che orientano l'atteggiamento delle persone. Anche perché - come scrive il Sole 24 Ore di Oggi - ci sono dati che possono non piacere ma che vanno a comporre il quadro complessivo della vertenza Indesit: un crollo, in dieci anni, della produzione italiana di elettrodomestici da 30 a a 15 milioni di pezzi e nel prinmo trimestre del 2013 un calo produttivo dell'1,8% dei frigoriferi, del 9,8% dei forni a incasso e del 39% delle lavastoviglie. Parafrasando un libro di successo si potrebbe dire che predominano le molte sfumature di grigio piuttosto che le scelte di campo e di civiltà che prefigurano erroneamente una lotta tra il bene e il male. Ed è sufficiente pensare alla posizione mediana degli impiegati per comprendere, senza margini di errore, che la vera sfida è costruire alleanze senza il ricorso a linee di demarcazione morale, perché questa non è una "guerra di movimento" ma una "guerra di posizione" che ha bisogno, nello stesso tempo, di azioni eclatanti e di fine tessitura, di forme innovative di lotta sindacale e di mediazioni in camera caritatis. Da questo punto di vista il Ministro Zanonato - in quanto espressione del Governo, ossia del soggetto neutrale della triangolazione concertativa - può attivare un'azione di pressione e di moral suasion per ammorbidire il vertice dell'impresa sulla questione degli esuberi, che costituisce il principale ostacolo alla riapertura del dialogo. E potrà farlo a maggior ragione se verrà accolta la tesi del Governatore Spacca di aprire un tavolo nazionale con implicazione settoriali e non solamente aziendali. Sul versante delle forme innovative di lotta sindacale, che è l'altro elemento chiave della guerra di posizione, va registrata con favore la scelta di applicare - negli stabilimenti Indesit - i cosiddetti scioperi articolati, a gatto selvaggio, con l'obiettivo di determinare blocchi alla produzione in grado di produrre significative ricadute in termini economici e quindi di sollecitare l'attenzione di un management aziendale attento soltanto alla dura legge dei numeri e delle cifre. In questo quadro sbagliano i sindacati ad affermare che gli scioperi articolati servono a far capire all'azienda che si sta facendo sul serio perché è come se, implicitamente, si ammettesse che la serietà sia sopraggiunta di colpo. E le guerre, siano esse di posizione o di movimento, si vincono anche con un utilizzo sapiente delle parole e per il tramite delle propaganda. Giancarlo Pajetta - il ragazzo rosso del comunismo italiano - raccontò che, durante la Resistenza, la prima Brigata Garibaldi sorta in Piemonte fu denominata quarta. In modo tale che i tedeschi si convincessero dell'esistenza di almeno altri tre raggruppamenti partigiani. Meditate, sindacalisti, meditate.



    

25 giugno 2013

Il monito di Don Giancarlo



Quello che segue è il testo dell'omelia pronunciata ieri in Cattedrale dal Vescovo di Fabriano, Mons.Giancarlo Vecerrica, durante la celebrazione per la nascita di San Giovanni Battista, patrono della Diocesi e della città di Fabriano. Ho deciso di pubblicarla, con laica adesione, perché contiene parole forti e ispirate sul rapporto tra Chiesa e territorio e tra capitale e lavoro, sui doveri che spettano ai cristiani quando sono coinvolti in attività di impresa e sulle sofferenze inferte al cuore di chi subisce decisioni che mettono a rischio il futuro.

1.         Quale è rapporto tra Giovanni Battista e la sua città e il suo territorio?
Giovanni Battista nasce qualche mese prima di Gesù, al tempo di Erode, in una città di Giuda, identificata oggi con Ain-Karim, a 6 km da Gerusalemme. Ecco il suo territorio tra Gerusalemme e il fiume Giordano, dove battezzerà. Giovanni Battista vive un legame stretto con tutto il territorio di Gerusalemme, perché vive fino in fondo le vicende del suo popolo, oppresso dai romani, che accorre alla sua predicazione e a farsi battezzare: come racconta il vangelo di Luca (cap. 3), dà consigli ai pubblicani, invita esattori delle tasse e soldati alla solidarietà, tira su veri discepoli pronti a seguire Gesù, come faranno poi Andrea e Giovanni, critica il re Erode per le sue “scelleratezze”. Ama il suo territorio e vi sprigiona tutto il suo zelo per la conversione, perché, come dice il vangelo di oggi, era certo che “davvero la mano del Signore era con lui”.
2.   Giovanni Battista ci propone una fede che cambia la vita, che entra nella realtà, che guida e converte un territorio con il suo popolo.
Ed ora la domanda è su di noi. Il cardinale Bergoglio, nel libro intitolato “Dio nella città”, si poneva questa domanda: “sto forse dicendo che la fede, di per sé, migliora la città?” e rispondeva: “Sì, nel senso che solo la fede ci libera”. Insieme al cardinale Bergoglio anch’io grido: Sì, la fede cristiana può rendere più felice e più bella questa città con la sua diocesi. Sulla scia di papa Francesco, vorrei anch’io dire: Cari amici della mia diocesi, dalle autorità all’ultimo tra noi, la dedizione della nostra Chiesa per questa città e il territorio è per riportare la fede al centro di tutta la nostra realtà, per fare tutto alla luce del sole, cioè alla luce di Dio, per non relativizzare o nascondere la fede ma per riportare la civiltà dell’amore che i primi cristiani avevano creato, infatti tra loro nessuno era bisognoso perché tra loro vigeva una vera comunità fraterna.
3.         È possibile oggi fare come Giovanni Battista? Come ci propone papa Francesco?
Sì, con l’impegno di tutti. Troppi cristiani stanno alla finestra, come aspettando Godot, cioè aspettando passivamente o si dilettano di dialettiche clericali, anche se laici. Occorre passare dallo sbadiglio e dalle chiacchiere al fascino dell’im-pegno missionario di Giovanni Battista, attorno a papa Francesco.
Oggi, il vescovo chiama tutti a rimboccarsi le maniche. Come?
Ai cristiani della mia Chiesa dico: appassioniamoci alla missione e tiriamo su veri discepoli di Gesù, come ha fatto Giovanni Battista. Discepoli non come li vogliamo noi e non a nostra disposizione, ma come li vuole Dio: discepoli nuovi, forti, coraggiosi, preparati, cristiani “rivoluzionari della grazia” (come li ha chiesti papa Francesco alla sua diocesi di Roma). Tiriamo su le nuove vocazioni. Fabriano e diocesi hanno bisogno di preti come papa Francesco: missionari, coraggiosi e indefessi. C’è bisogno di uomini e donne che nel sociale riportano lo “specifico cristiano”. Educhiamo coloro che sono stati chiamati a dare lavoro, soprattutto si se dicono cristiani, perché non si sentano padroni, non pensino solo ai soldi, che siano consapevoli della dignità dei lavoratori, che si ricordino del loro cristianesimo, che li richiama alla verità, alla giustizia e alla solidarietà. Se i datori di lavoro potessero leggere nel cuore di chi è licenziato o in pericolo farebbero l’impossibile pur di non licenziarli!
Ora mi appello ai giovani: non rimanete nascosti, evitando la Chiesa e l’impegno sociale, rimanendo nel limbo dell’incertezza o del vuoto. No: uscite allo scoperto, ritornate alla comunità cristiana e lottate “per non farvi rubare la speranza”. La Chiesa vi chiama per una creatività inimmaginabile: “siate coraggiosi e fieri – ha detto Papa Francesco proprio ieri – di andare controcorrente”.
E a tutti i lontani dalla Chiesa dico: non riparatevi dalla Chiesa e non abbiate paura ad impegnarvi in essa con l’incontro, con il confronto e con la collaborazione.
4.         Vi annuncio la nuova pastorale per la città e la diocesi
La mia triade – educazione, vocazione e missione – ci ha portati ad aprirci al dialogo verso tutti nei “mercoledì della fede”, che sono una specie del “Cortile dei Gentili”. Passeremo dallo studio del Credo alla riproposta del Padre Nostro, per entrare nel vivo delle sette domande, umane e coraggiose, che Gesù ci ha insegnato con il Padre Nostro: ci trasmetterà quella passione irrefrenabile, necessaria oggi.

Ecco allora la nostra preghiera di oggi:
San Giovanni Battista, nostro patrono,
riportaci tutti a Gesù, come tu hai fatto duemila anni fa.
Riporta tutti coloro che si sono allontanati all’Eucaristia della domenica e alla conseguente solidarietà.
Riporta Gesù e il suo vangelo nelle piazze, nel territorio, nel sociale attraverso preti vivaci e laici creativi.
Sostieni la nostra Chiesa locale perché sia sempre più in dialogo con i lavoratori che sono in una giusta lotta per il lavoro: proteggili e non lasciarli nell’incertezza. Converti coloro che sono alla guida delle industrie e della politica. Ispira alle nostre autorità e a chi ha potere ciò che è giusto, vero e buono.
Ti supplico san Giovanni Battista di convertire i cuori di tutti coloro che fanno soffrire i lavoratori: fa’ che il dialogo tra chi è in alto e chi è in basso sia la strada maestra per ricomporre ciò che è stato rotto.
San Giovanni Battista, suscita nei nostri giovani vocazioni belle, alte, coraggiose e piene della rivoluzione della grazia.

Fabriano 24 – 06 – 2013.                                             + Giancarlo Vecerrica
    

23 giugno 2013

Indesit: se Teverola sbarca a Fabriano...



Sono stati molti i lavoratori della Indesit che ieri, a Roma, hanno partecipato alla manifestazione nazionale per il lavoro indetta unitariamente da Cgil, Cisl e Uil. Per l'occasione hanno indossato tutti una t-shirt bianca con stampato il numero degli esuberi, un grande NO ai tagli previsti dal Piano e uno slogan - "la storia siamo noi" - a simboleggiare il primato del lavoro sul capitale e la certezza che senza il contributo del lavoro non si fa impresa e non si generano dividendi. La manifestazione si è tenuta giusto qualche ora dopo la rottura della trattativa tra azienda e sindacati, che ha sancito una escalation negoziale da cui è emersa la volontà dei lavoratori e del sindacato di radicalizzare la lotta e l'opposizione alle scelte dell'azienda: due scioperi generali nazionali di settore, assemblee, scioperi a macchia di leopardo e senza preavviso fino a inserire nel novero delle cose possibili pure l'ipotesi dell'occupazione di fabbriche, mense e uffici. Una scelta posizione combattiva e di scontro frontale che presenta molti elementi di rischio ma che ieri ha trovato nel Segretario Generale della Cisl Raffaele Bonanni un sostegno che potrebbe risultare decisivo per mantenere compatto il fronte sindacale e allargare le basi di consenso dell'opposizione al Piano Indesit. L'appoggio della Cisl sposta, infatti, in avanti il fronte della vertenza. E ciò per diverse ragioni, a partire dal fatto che la vertenza Indesit non diventa soltanto un fatto nazionale ma assume anche un netto profilo confederale, in grado di offrire garanzie di direzione politica e di qualità dell'azione negoziale. Ma i vantaggi del sostegno cislino dipendono anche da altri fattori: dal fatto che il sindacato di Via Po è quello meno tentato dal dare un'impronta politica all'azione sindacale; dalla sua identità concertativa, che ne fa un punto di riferimento nel dialogo con Confindustria e un protagonista di primo piano nell'applicazione - attraverso gli enti bilaterali - di politiche di sostegno al reddito e di welfare compensativo nel caso di ristrutturazioni aziendali complesse; dalla sua vicenda di sindacato prevalente nel territorio fabrianese e in modo particolare nell'universo merloniano degli elettrodomestici; dalla sua natura di organizzazione capace di fungere da cerniera tra il classismo delle fabbriche e l'interclassismo degli uffici e dei colletti bianchi, il cui orientamento è fondamentale per spingere in una direzione piuttosto che nell'altra la bilancia della vertenza e del confronto tra sindacati e management aziendale. In questo quadro di unità sindacale - che scongiura il rischio degli accordi separati - va registrata una permanenza che si configura quasi come una sorta di distacco irrisolvibile e cioè il deficit di saldatura tra i lavoratori Indesit della Campania e quelli di Fabriano. All'origine di questo distacco ci sono diversi elementi. Tra essi il senso storico di superiorità che i fabrianesi hanno sempre manifestato nei confronti di stabilimenti e maestranze che non nascono all'interno del microcosmo merloniano ma che vengono acquisiti, assieme al marchio Indesit, nel 1987; così come un'indole radicalmente diversa tra il lavoratore marchigiano, antropologicamente alleato del blocco sociale padronale, e i lavoratori del casertano, ispirati da un ribellismo in cui si mescolano le contraddizioni irrisolte del meridionalismo e le pulsioni sottoproletarie di una terra allergica al comando e alle gerarchie. La radicalizzazione dello scontro ha bisogno di pressione psicologica e di lavoro ai fianchi della proprietà e del management e in questo senso i lavoratori casertani, oggi, risultano essere assai più utili, alla fase della lotta dura, dei loro docili colleghi fabrianesi. La sfida è, quindi, quella di far sbarcare Teverola a Fabriano. E non solo per una manifestazione unitaria o per uno sciopero nazionale.
    

21 giugno 2013

Escalation in Indesit


E’ rottura tra Indesit e sindacati. Le organizzazioni hanno abbandonato il tavolo della trattativa perché l’azienda non ha modificato la sua posizione sui 1.425 esuberi previsti dal Piano di salvaguardia e riorganizzazione. Ciò significa che si è giunti a un punto di non ritorno, col numero degli esuberi che diventa una linea del Piave sia per l’azienda che per i sindacati. Chi tiene vince e chi molla perde: un caso da manuale di escalation negoziale che esclude ogni possibile compromesso, perché le parti hanno assunto una posizione rigida e le posizioni rigide conducono al blocco. A questo punto discutere delle reciproche posizioni diventa una gara tra opposte volontà, un braccio di ferro che si risolve soltanto in una contesa sterile, dove ciascuna delle parti tende a focalizzarsi solo sui propri obiettivi e risultati. Con l’abbandono del tavolo il sindacato si è fatto carico di una scelta molto difficile da gestire, perché se non si verifica un cambio radicale di posizioni da parte dell’azienda è difficile tornare a trattare senza dare l’impressione di una resa. E sappiamo bene che sono i lavoratori – in quanto soggetto più debole - ad avere bisogno di un accordo, mentre l’azienda può farne tranquillamente a meno. Per ora la reazione dei lavoratori è stata quella di rispondere alla rottura del negoziato con scioperi ed azioni spontanee. Si tratta di una risposta comprensibile e umanissima che, però, ha bisogno di direzione perché non esiste effervescenza che non si consumi rapidamente e senza lasciare il segno. A questo punto le possibilità sono due: o si trova una via d’uscita concertata e bilaterale tra azienda e sindacati per riprendere le trattative, superando lo stallo negoziale generati dall’entità degli esuberi, o si rischia l’occupazione delle fabbriche e degli uffici. Niente di scandaloso, ovviamente, che si prefiguri pure un’ipotesi di occupazione, che è parte integrante della storia del movimento dei lavoratori. Ma, nel caso, occorre essere consapevoli che siamo all’extrema ratio della mobilitazione sindacale. L’occupazione è una scelta radicale che ha bisogno di gestione e di metodo perché presuppone finalità negoziali, obiettivi organizzativi, una coerente strategia comunicativa, la capacità di sostenere logisticamente un’esperienza di frontiera, di garantire l’adesione solidale dell’intera comunità fabrianese e di evitare che le azioni divisive messe in campo dall’azienda possano avere la meglio sulle ragioni della lotta. Ciò richiede l’esercizio di una leadership sindacale efficace, di una strategia legata ai risultati che si vogliono ottenere e di una tattica conseguente, perché una buona strategia può essere annullata da una tattica scadente e una buona tattica può rendere ottima una scadente strategia. Ma visto il flop che si è registrato in occasione della visita di Susanna Camusso, è davvero ardimentoso immaginare che quelle stesse organizzazioni sindacali siano in grado di gestire una macchina complessa come quella necessaria a sostenere e a dare respiro a un’occupazione. Far saltare un tavolo di negoziazione è bello ed emozionante e magari regala una scarica di vitalismo ribelle e di sindacalismo rivoluzionario ma restringe drammaticamente gli spazi di contrattazione. Il rischio è che il sindacato possa rimetterci la faccia, ritornando al tavolo con la coda tra le gambe come raccontato efficacemente da tanti film e pellicole “sociali”. E a quel punto sarà resa senza condizioni. Per i lavoratori e per tutti i fabrianesi.
    

L'eresia in corpo 11 della senatrice Fucksia



Mi ero ripromesso di lasciare la politica sullo sfondo perchè Fabriano vive una "questione sociale" che merita di occupare per intero la scena. Ma quel che sta accadendo nel Movimento 5 Stelle si proietta anche nella nostra città, perchè due delle tre parlamentari fabrianesi sono grilline e una di loro - la senatrice Serenella Fucksia - si sta caratterizzando come esponente di punta dei dissidenti che si oppongono ai cosiddetti talebani del Movimento. La Fucksia si è ritagliata questo spazio di azione politica a modo suo: con la forza invasiva di un'ingovernabile logorrea, sceneggiando rabbie intrattabili e incompatibili col suo nomen omen, dipensando buoni istinti e assai feriti a mezzo stampa e in corpo 11, interpretando il ruolo di parlamentare border line e di grillina eretica che si fa pellegrina a Campo dei Fiori - in questo più pannelliana che grillesca - onde contrapporre la memoria di Giordano Bruno al Sant'Uffizio del Comico e del Guru. Quel che accade alla Fucksia e ad altri dissidenti mi fa venire in mente la frase che tale Enzo era solito pronunciare quando, nelle balere, riceveva il diniego delle signore alle sue offerte di ballo: "Balli?" "No, grazie!" "Ma allora che ce si venuta a ffà?". Il punto è esattamente questo: come si fa a entrare in un movimento soggiogato da un dominatore assoluto, allergico al confronto, che parla di guerra, di morti, di cadaveri e pretendere che ivi si possa sviluppare una dialettica ragionevole, cartesiana e partecipativa? Il Movimento 5 Stelle non nasce per attrarre spiriti critici e dubitativi ma anime ardenti e militanti. Perchè si autopercepisce e si propone come ordine monastico - militare, come corpo scelto di templari indenni da vizi, tentazioni e compromessi, come fiore nel letamaio che, costi quel che costi, deve diventare prato inglese grazie alle buone cure dei giardinieri pentastellati. E questa missione impone allineamenti e comportamenti catacombali, uno spirito di corpo che si nutre di separatezza e lontananza, perchè le catacombe si trovano sempre a distanza di sicurezza dal Foro e dalle sue mille perversioni e tentazioni. E, in questo senso, ha ragione chi rimprovera alla Fucksia di voler essere grillina a modo suo e di ricercare un modus operandi che è estraneo e nemico dell'ispirazione originaria del movimento. Non si può essere come Nicodemo che faceva il fariseo diurno nel Tempio e il frequentatore notturno del Cristo. Anche perchè il Movimento 5 Stelle non nasce sulla base di una ideologia che puà essere diversamente vissuta e declinata come accadde, ad esempio, tra i marxisti che si scissero in socialisti e comunisti. Il Movimento 5 Stelle senza Grillo non esisterebbe perchè Grillo, attraverso la rete, è stato un brutale ma efficace federatore di istinti e di impulsi che, altrimenti, si sarebbero dispersi in  mille rivoli. In questo senso la Fucksia non può illudersi di salvare capra e cavoli, proponendo un grillismo dal volto umano che, di fatto, non esiste in natura e in cultura. Come Senatrice, senza vincolo di mandato e costituzionalmente rappresentativa della Nazione, la Fucksia si trova davanti a un bivio: o si allinea alla pax grillina, silenziosa e sgobbona come la deputata Terzoni, o si libera definitivamente da ogni appartenenza confluendo nel gruppo misto e svolgendo il mandato parlamentare seguendo i suoi istinti e disegni. Un'altra soluzione non sembra profilarsi. Certo è che stanno venendo al pettine i nodi irrisolti e i difetti di fabbricazione del Movimento Cinque Stelle. Essi non dipendono dalla malizia della stampa o dall'assalto dei poteri forti, ma dall'illusione che possa esistere un movimento di incorruttibili che si mantiene compatto e granitico attraverso la virtù della volontà e l'ardore del desiderio, senza un'organizzazione che ne consenta di governare, in modo piramidale le scelte, i percorsi e le visioni. Un movimento in cui si entra accolti da applausi rigeneranti ed etici e da cui si esce ricoperti di accuse di intelligenza col nemico, di confidenza col denaro e di manifesta ingratitudine. Una polarizzazione di approcci che spiega molte cose e molti dei problemi che pregiudicano le prospettive e il futuro del Movimento 5 Stelle.
    

20 giugno 2013

Milani il leninista, ti tenta tre volte tanto



Ieri l’Amministratore Delegato della Indesit Company Marco Milani ha rotto la strategia del silenzio, rilasciando una lunga intervista al Resto del Carlino. Lo ha fatto proprio mentre Susanna Camusso arringava i pochi operai confluiti in Piazza del Comune, così che l’evento sindacale fosse anche mediaticamente oscurato dalle attesissime dichiarazioni del CEO. A dimostrazione che questa vertenza si gioca pesantemente anche sul terreno, oramai strategico, della comunicazione. La coincidenza temporale tra le dichiarazioni di Milani e la manifestazione della Camusso non è, quindi, un fatto casuale, ma l’effetto della debolezza e della crisi di consenso trasmessa dal sindacato con il comizio del segretario generale della CGIL. Una risposta maoista quella del Presidente di Indesit, stile “bastona il cane che affoga”. L’intervista di Milani, tra le altre cose, è stata il primo vero successo mediatico realizzato dal vertice dell’azienda dopo l’annuncio del Piano di salvaguardia e razionalizzazione e dopo le dichiarazioni di esplicito dissenso messe nero su bianco da Francesca Merloni, a nome dell’altro ramo della famiglia. L’operazione mediatica lanciata ieri dal vertice Indesit aveva una specifica finalità: dividere lavoratori e sindacato, dando il colpo di grazia a quel filo che ancora – ma chissà per quanto - lega operai della Indesit e organizzazioni di rappresentanza. Milani lo ha fatto in modo sottile, meditato, con parole opportunamente studiate e con l’obiettivo di sparigliare e confondere la controparte. E quando c’è la guerra la prima a morire è la verità e la strategia di disinformazione assume un ruolo centrale rispetto all’esito del conflitto. Per questo Milani si è mosso con tattica leninista – un passo avanti e due passi indietro -, confermando senza mezzi termini che il Piano va avanti e che i 1.425 esuberi non si toccano. Ma invece di rivendicarne i contenuti, con l’orgoglio di un Cesare Romiti in Fiat, l’Amministratore Delegato di Indesit ha preferito rilanciare l’immagine di un manager costretto –quasi suo malgrado - a scelte dolorose ed emotivamente difficili. Come se i tagli fossero imposti da un’entità esterna, dal diktat di un mercato narrato come una divinità maligna che costringe e non da scelte deliberate e volontarie di maggiore remunerazione del capitale investito. In questo modo ogni parola di Milani emana costrizione, come se il Piano fosse un figlio adottivo da crescere con rigore e disciplina ma senza sentimento e senza amore. Un registro linguistico abile e funzionale a rompere l’assedio. Ragion per cui Milani può permettersi il lusso di rendere compatibili contraddizioni e contrasti in realtà insanabili: che Indesit delocalizza ma lo fa solo per restare in Italia, che ci sono 1.425 esuberi ma l’azienda non vuole licenziare nessuno, che si è disponibili a trattare col sindacato ma su un Piano che non può essere modificato. Stamattina i sindacati si dicono scettici sulle dichiarazioni del Presidente della Indesit, ma si sente lontano un miglio che le parole sul dialogo sono arrivate a destinazione e hanno alimentato, nei rappresentanti dei lavoratori, la solita, scontatissima illusione dello spiraglio che si apre. La verità è che stavolta la comunicazione di casa Indesit ha funzionato e bene. E Milani stamattina somiglia davvero alla Fiesta Ferrero: quella che ti tenta tre volte tanto. Missione compiuta.
    

19 giugno 2013

Verrà Susanna e avrà i tuoi occhi

Per parecchio tempo si è creduto all'occhio rivelatore e a quella grande mistificazione poliziesca e investigativa secondo cui l'ultima immagine prima della morte era destinata a restare impressa nell'occhio della vittima. Mi sono domandato quale sia stata l'ultima immagine stampata negli occhi di Susanna Camusso al termine della manifestazione di ieri pomeriggio, con quale sensazione visiva sia ripartita per Roma e che disegno negoziale abbia maturato annusando l'odore e l'umore dei lavoratori presenti in Piazza del Comune. Concludendo il suo intervento il Segretario Generale della CGIL ha augurato "buona lotta" ai lavoratori della Indesit, promettendo loro vicinanza, sostegno e condivisione. Ma da sindacalista di rango e di razza credo abbia sviluppato anche deduzioni un po' meno augurali e più amare che provo arbitrariamente a immaginare, simulando un discorso pronunciato sottovoce e non divulgato dai mezzi di informazione. "Cari lavoratori della Indesit, sono venuta a Fabriano a portare la solidarietà e il peso della CGIL, pur sapendo che questa città è stata per decenni un luogo nevralgico del paternalismo padronale e una frontiera inattaccabile di egemonia del sindacalismo collaterale al disegno dell'industrializzazione senza fratture. Ma sono venuta qua convinta che la vertenza Indesit rappresentasse una soluzione di continuità, un vero e proprio trauma sociale, economico e culturale capace di rappresentare una linea del Piave per il lavoro e per la sua cultura civile e solidale. Immaginavo un clima sociale incandescente, una mobilitazione furente e un conflitto al calor bianco. Non li amo in sè ma solo quando sono veicolo e occasione per dare alla lotta un senso e una prospettiva. Per questo ero convinta che si dovesse nazionalizzare la vertenza e fare di Fabriano e degli elettrodomestici una esperienza paradigmatica attraverso cui ricostruire una politica industriale in questo Paese. Osservando la piazza semivuota, gli applausi composti e stanchi, la totale assenza di qualsiasi segnale di devianza e la defezione di molti dei lavoratori che rischiano concretamente di essere messi nel tritacarne, mi sono convinta che in questa città c'è sicuramente un problema industriale e occupazionale serio, ma niente di diverso e di peculiare rispetto a quel che accade nelle realtà del bresciano, del triveneto o in certi distretti del Piemonte. L'impressione che ho avuto e che riporto con me a Roma è quella di una città che è ancora capace di attingere a risorse di welfare familiare e a patrimoni accumulati in una logica di trasmissione familiare, generazionale e parentale. Insomma cari amici non mi è parso davvero di intravedere il sacro fuoco della battaglia, il desiderio trasversale di essere tutti in una stessa barca da riportare a riva, quel mix di rabbia e di orgoglio che serve per fare di una esperienza di lotta una pratica di resurrezione corale e collettiva. Siamo con voi, amici della Indesit, ma dopo questa giornata ci è venuto il dubbio che forse non è Fabriano il luogo più adatto da cui far partire una esperienza innovativa di sperimentazione industriale, sindacale e sociale, valida come buona prassi per l'intero sistema produttivo nazionale". E' sempre difficile e abusivo immaginare e dare forma a un pensiero che non si conosce e di cui non ci sono segni tangibili. Ma per una volta, pirandellianamente, se non ho costeggiato per filo e per segno  i confini del vero, di certo mi pare di aver delineato le tracce del verosimile.
    

18 giugno 2013

Indesit: una piazza da piangere


Foto Gian Pietro Simonetti
Ho la vaga sensazione che qualcuno stasera festeggerà, dalle parti del quartier generale di Indesit Company. Sono sufficienti le poche fotografie sulla manifestazione con la Camusso in Piazza del Comune – e per quel che mi riguarda allego al post un mio scatto personale  – per avere la percezione nitida, anche dal punto di vista visivo, di un fallimento che potrebbe penalizzare la vertenza in corso. In Piazza del Comune non c’erano più di 500 manifestanti. Segno che neanche la presenza del Segretario Generale della Cgil riesce a spezzare l’isolamento creatosi tra stabilimenti fabrianesi e campani, a dare un senso e un indirizzo unitario alla protesta dei lavoratori, a sciogliere il ghiaccio che tiene separati gli impiegati dalla protesta e a smuovere la solidarietà di una città che tutti si sono guardati bene dal chiamare a raccolta e che, a sua volta, si è ben guardata dal partecipare e dal solidarizzare. Cinquecento partecipanti – ammesso e non concesso che fossero tutti lavoratori della Indesit - significa che due terzi degli esuberi non sono confluiti in città e che non hanno partecipato neanche i lavoratori fabrianesi al completo. E a fare da collante all’idea della partecipazione come momento aggregativo fondante non c’era un sindacalista pescato in qualche sperduta struttura periferica, ma il Segretario Generale del principale sindacato italiano, quello che esprime la federazione metalmeccanica più radicale e combattiva. A tale proposito un amico mi ha inviato un sms che condivido: “Ho provato la stessa sensazione di quando c’è stato il terremoto. Mi viene da piangere”. Una sensazione di vuoto e di impotenza, confermata anche da esponenti della FIOM non certi inclini al pessimismo e alla rinuncia. Dal punto di vista sindacale l’esito della manifestazione fabrianese non cambia lo scenario contrattuale e la posta in gioco al tavolo della trattativa. Ma di certo qualsiasi negoziato per cominciare bene ha bisogno di un clima negoziale adeguato, di una pressione esterna univoca e compatta, di prove di forza – anche simboliche - che servono a consolidare e rafforzare i margini di manovra dei negoziatori. Adesso il fronte sindacale è, oggettivamente, più debole e vive ciò che un tempo sarebbe stato definito un arretramento strategico. Ma nonostante questa debacle fabrianese della CGIL e del sindacalismo confederale complessivamente inteso resta intatto, nella sua dimensione e nella sua portata, un grande interrogativo sulla natura, sulla qualità e sulla tenuta del rapporto tra la vertenza Indesit e la città di Fabriano, tra i lavoratori e i cittadini. Oggi il rapporto appare del tutto sfibrato, se non inesistente, e ricercare il colpevole di questa anemia strutturale non giova alle parti, così come non porta valore alla trattativa in corso per salvare il lavoro in Indesit e in questo territorio. La manifestazione con Susanna Camusso, che doveva incarnare il culmine simbolico della vertenza e una prova di forza sindacale, ne ha invece rappresentato il momento di massima caduta del consenso e della speranza di un’intera comunità. Risalire la china non sarà un’operazione semplice e quella piazza semivuota è un atto di accusa che non può essere accantonato o rimosso. Così come è naturale chiedersi se la classe dirigente territoriale del sindacato sia all’altezza o meno di questa sfida epocale. Un punto interrogativo che lasciamo orfano di risposte: senza presunzione ma, deo gratias, anche senza sconti.
    

17 giugno 2013

Il poco lusso d'avere la Camusso

Una seppur minima frequentazione del pensiero liberale insegna che la forma è sostanza e che dal modo in cui si confezionano le cose è possibile dedurre segni e segnali che rimandano alla polpa delle questioni e alla loro natura più consistente e significativa. Domani, tanto per dire, Susanna Camusso sarà a Fabriano. Ora, si può pensare tutto il male del mondo del sindacato ma di certo la presenza del Segretario Generale della CGIL non è, di per sé, cosa di poco conto. Specie se c'è di mezzo una vicenda come quella che vede coinvolta la Indesit, le cui dimensioni sono tali da caratterizzarla come vertenza nazionale e come sfida di sopravvivenza per un intero settore della metalmeccanica. La dimensione della vertenza dovrebbe quindi corrispondere alla qualità e dimensione della presenza, anche perché esiste un antico cerimoniale delle manifestazioni sindacali che serve a rappresentare e interpretare la drammaticità della situazione e di alcuni passaggi. Qualche giorno fa, non a caso, scrissi che la discesa in campo della segreteria generale della CGIL poteva costituire un principio di “nazionalizzazione” della vertenza, potenzialmente in grado di catalizzare qualche risultato positivo e di stimolare volontà contrattuali dell’azienda finora piuttosto latenti se non inesistenti. Ma le modalità di organizzazione della presenza di Susanna Camusso in città fanno pensare a una toccata e fuga, a un giro di consultazioni in do minore, perché ci sono elementi che, senza scadere in un'inutile polemica, paiono tecnicamente e politicamente ai limiti dell’inverosimile. Innanzitutto l’orario. Organizzare un’iniziativa sindacale alle 14, ossia in piena pausa pranzo e con 40° di temperatura, significa ridimensionarne oggettivamente l’impatto. Se qualcuno ha notizia di manifestazioni sindacali organizzate in piena estate e alle 14 ce lo faccia sapere che gli si assegna un premio al valore. Secondo elemento: la manifestazione doveva essere tecnicamente istituzionale perché era previsto che Camusso incontrasse soltanto il sindaco e le rappresentanze sindacali della triplice nell’Aula del Consiglio Comunale che, notoriamente, non contiene più di 50 persone. Invece pare che sia sopraggiunto un cambio di programma e che sia stato allestito un palco in piazza. Un salvataggio in  zona Cesarini che salva l'essenza sindacale dell'incontro ma che segnala qualche confusione più politica e di obiettivi più che logistica e  organizzativa. Terzo elemento: in questo contesto la Camusso parlerà non solo di Indesit ma anche di Cotton Club e di Cave della Rossa. Niente da obiettare, sia chiaro, ma mettere tutto assieme significa mescolare situazioni diverse e territorializzare la crisi senza coglierne un particolare strategico e cioè che è Indesit la madre di tutte le vertenze. Se salta Indesit salta tutto e non viceversa. Affermazione politicamente scorretta ma vera. Quarto elemento: il momento clou della giornata marchigiana della Camusso non sarà a Fabriano ma ad Ancona con una manifestazione pubblica sull'occupazione giovanile che si terrà alle 16.30. Lo ripeto: lungi da me qualsiasi desiderio di polemica ma ho l’impressione che si tratti di una distribuzione errata di peso e di importanza, con la solita, irrisolta dialettica tra centralità anconetana e subalternità dell’entroterra e Ancona che fatica a comprendere che è l’entroterra il ventre molle dell’economia regionale. Quello che consente al capoluogo di essere l'epicentro della vita regionale. Ma fino a quando?
    

Il coniglio bianco nel cilindro sindacale



Ha ragione Vincenzo Gentilucci, segretario provinciale dei metalmeccanici della UIL, quando afferma che non si può considerare in crisi un'azienda come la Indesit che fa utili ed ha, tuttora, margini operativi e redditività degli investimenti di tutto rispetto. Ed è nel giusto, di conseguenza, quando sostiene che il Piano di salvaguardia e ristrutturazione non è un'operazione per uscire dal guado o da un contesto di difficoltà ma una scorciatoia per moltiplicare le performance, scrollandosi di dosso quel sistema di laccio e lacciuoli che altri, democraticamente più ispirati, chiamano responsabilità sociale dell'impresa. Ma come spesso accade questa tipologia di considerazioni non è altro che una Polaroid della realtà, una rappresentazione fotografica della situazione, un resoconto descrittivo di accadimenti senza pretese di modifica dello scenario. Il Piano di salvaguardia e razionalizzazione della Indesit, non a caso, continua a rimanere ben saldo nelle sue linee e nei suoi fondamenti strutturali. Innanzitutto perché  non c'è nessuno strumento giuridico che possa impedire a Indesit Company di trasferire altrove le proprie produzioni. Così come non c'è nessuna possibilità di intervento governativo finalizzato all'interruzione del processo di delocalizzazione, perché qualsiasi provvedimento, orientato in tal senso, cadrebbe sotto la scure dei richiami e delle sanzioni dell'Unione Europea. Inoltre chi afferma che Indesit, prima di andarsene in Polonia e Turchia, dovrebbe restituire fino all'ultimo centesimo avuto dallo Stato dice una cosa bella e giusta ma totalmente impraticabile perché, anche in questo caso, non esiste alcuno strumento giuridico su cui far leva per rendere la delocalizzazione abbastanza onerosa non risultare troppo conveniente. Di fronte a questo "sistema impotente" ci sono poche strade da percorrere e questo deve essere chiaro ai lavoratori coinvolti e all'insieme della comunità fabrianese. Le linee di azione che si profilano sono sostanzialmente tre:
  • La linea del Rimpasto. Il sindacato cerca di concertare con l'azienda un rimescolamento di carte nell'ambito del Piano, senza modifica dei saldi finali. Obiettivo: prendere tempo, dilazionare la tempistica delle chiusure nella speranza che in un paio d'anni si possa modificare, in positivo, la situazione del mercato. E' una linea  fondata sull'idea che un problema rimandato è mezzo risolto e su un non detto: dilazionare potrebbe inceppare il Piano nella sua valenza di condizione di vendita a un player internazionale.
  • La linea degli Ammortizzatori. Il sindacato sposa la linea di una resa condizionata: accetta le linee del Piano e la conseguente perdita di posti di lavoro, operando sugli ammortizzatori sociali e sulle uscite volontarie. Un approccio crepuscolare, di fine corsa contrattata.
  • La linea Pomigliano. Si definisce un quadro di condizioni di lavoro, inquadramento professionale e produttività e di impegno bilaterale che possa rendere competitivo il prosieguo di una produzione italiana da parte della Indesit.
Sono linee che hanno una caratteristica comune: sono tutte e tre difensive e legate al concetto della riduzione del danno. Le prime due trattano sulle modalità di uscita degli esuberi dalla produzione. La terza è legata al salvataggio del lavoro. Di diverso e di meglio per ora non si profila. Sapremo presto, dalla viva voce di Susanna Camusso, se, per caso, c'è un coniglio bianco nel cilindro del sindacato.
    

14 giugno 2013

Tecnowind: una boccata d'ossigeno

Stamattina ho avuto uno spiacevole alterco con un "sagramoliano" che non ha gradito che giudicassi il Sindaco in preda a un eccesso di zelo, venato da pericolose tendenze al presenzialismo e alla riproposizione in salsa pedemontana del brianzolissimo ghe pens mi. E' un atteggiamento, quello del Sindaco, che a consuntivo avrà ricadute problematiche sulla città perché quando si gioca a scacchi il cavallo non replica i movimenti della torre e la torre non fa la parte della regina. Ognuno ha il suo ruolo e i suoi movimenti e l'esito della partita dipende da quanta creatività e abilità si è in grado di produrre in un sistema che funziona attraverso regole che non contemplano eccezioni. Detto questo ritengo che oggi pomeriggio il Sindaco abbia messo a segno un bel colpo sul caso Tecnowind, convincendo le banche a riattivare le linee di credito a breve necessarie per smobilizzare il fatturato. Ciò significa che gli istituti di credito ricominceranno ad anticipare denaro e a far circolare liquidità. Se questa soluzione avrà una funzione di tampone, di polmone o di nuova vita per l'azienda lo sapremo solo vivendo, anche perché sarà necessario verificare quali saranno le prossime mosse della Tecnowind di cui si parla insistemente in città. Dando uno sguardo ai bilanci dell'azienda degli ultimi anni - pubblicati dalla Fondazione Merloni nella sua classifica annuale -  non c'è molto da stare allegri, perchè segnalano frequenti perdite di esercizio, che potrebbero essere generate dal peso degli oneri finanziari, dal valore negativo dell'utile industriale o dal combinato disposto di entrambi gli elementi. Certo è che la continuità operativa della Tecnowind dipende dalla capacità dell'azienda di rigenerare un minimo di redditività, che è la condizione necessaria per mantenere determinati livelli occupazionali; una redditività necessaria anche per evitare il rischio che l'accordo stipulato oggi con le banche, sia soltanto una boccata di ossigeno e a tempo determinato. E' del tutto evidente e lapalissiano che è sempre meglio una soluzione temporanea rispetto a nessuna soluzione, ma è necessario essere pure consapevoli che l'accordo di oggi non risolve i problemi strutturali della Tecnowind e, al netto di interventi forti di natura gestionale e manageriale, rischia soltanto di posticiparne gli effetti. Ciò nulla toglie alla capacità di mediazione di Sagramola, che ha portato a casa un risultato importante, e alla gioia dei lavoratori che, per il momento, possono tirare un sospiro di sollievo. E visti i tempi non è cosa di poco conto
    

Il prevedibile silenzio di Letta

Ieri Dario di Vico - Vicedirettore del Corriere della Sera, quotidiano dell'establishment economico finanziario italiano - ha ripreso e rilanciato una proposta dell'ex deputato del Pdl Maurizio Castro sulla possibilità di dare vita a un polo italiano degli elettrodomestici, guidato da Indesit, aggregando gli stabilimenti italiani di diversi produttori del bianco. In questo modo si determinerebbero sinergie, economie di scala, recuperi di competitività e, forse, anche risorse da destinare all'innovazione tecnologica che - secondo Castro tra l'altro anche ex manager di Electrolux - nel campo dei frigoriferi sarebbe addirittura ferma agli anni sessanta. Si tratta di un'ipotesi suggestiva ma di difficile realizzazione per diverse ragioni che, in parte, sono facili da immaginare e supporre. Non ultima la vera e propria dismissione culturale che ha spinto la politica, da almeno venticinque anni, a escludere dal proprio orizzonte qualsiasi ipotesi di politica industriale e di programmazione pubblica dell'economia. Certo sarebbe stato interessante se l'ipotesi fatta propria dal primo quotidiano italiano, avesse trovato una qualche sponda nella riflessione del Presidente del Consiglio Enrico Letta ha consegnato al Sindaco Sagramola. Il premier, invece, ha bypassato la questione limitandosi a ricordare che il Governo sta seguendo con attenzione la questione Indesit. Che tradotto dalla micro-lingua politichese significa che il Governo intende rimanere alla finestra e che i problemi del "bianco" vanno collocati in un quadro più ampio che è quello della crisi complessiva del settore metalmeccanico. E nel settore metalmeccanico chi conta non è il comparto degli elettrodomestici ma quello automobilistico, ossia la Fiat. Ciò significa che Letta, dal punto di vista dell'interesse nazionale, ha ben chiare le priorità: prima il mantenimento delle produzioni automobilistiche, come previsto dal programma di Fabbrica Italia, e poi, se avanza qualcosa sarà possibile parlare anche di Indesit e dintorni. E' quindi politicamente pericoloso forzare i significati e le posizioni perché, diversamente da quel che scrivono oggi i quotidiani, non ci sono davvero le condizioni per sostenere che Letta abbia rassicurato Sagramola. Quelle parole, comprensibilmente generiche e formali, nulla aggiungono e nulla tolgono alla dimensione e alla portata dei problemi e alle implicazioni del Piano di Razionalizzazione presentato da Indesit. Ma non sorprendono perché il Governo è per sua natura terzo rispetto alla negoziazione tra le parti sociali. Può sollecitare, stimolare, fare pressioni per avvicinare azienda e sindacati ma non certo imporre, perché la teoria e la prassi concertativa non contemplano e non prevedono azioni prescrittive da parte di organi istituzionali. A livello di Governo si è fatto invece riferimento alla possibilità di ricorrere ai contratti di solidarietà, con l'obiettivo di diminuire l'orario di lavoro e mantenere inalterati i livelli di occupazione, applicabili per le aziende per le quali può essere disposta la cassa integrazione straordinaria. Ma anche in questo caso si tratterebbe di una possibilità da esplorare in sede di negoziazione sindacale e non certo di un provvedimento che possa essere imposto direttamente dal Governo violando l'autonomia del confronto tra le parti sociali. Giusto per la cronaca. E senza comunicato Ansa. 
    

13 giugno 2013

Indesit: metereologia di una trattativa

E’ stata una primavera indimenticabile: di piogge torrenziali, di alberi rigogliosi e colline verdissime. Un clima tropicale ma senza l'illusione dei tropici, con la tramontana al posto dei venti caldi e umidi e un susseguirsi rabbioso di nuvole e di freddo dal tratto decisamente scandinavo più che messicano. Poi di colpo è apparso il sole, anche se a Fabriano il bel tempo non sarà soltanto una semplice variabile climatica e meteorologica ma anche un inatteso attore sulla scena sociale. Un sindacalista esperto e contrattualista, di cui ho la fortuna di essere amico, mi ha spiegato - con ricchezza di dettagli - perché nelle vertenze più controverse si tratta prevalentemente a notte fonda e come si agisce per sfinire la controparte puntando alla capitolazione mattutina, quella che sopraggiunge quando comincia ad albeggiare. Oggi, invece, i tavoli di contrattazione si convocano a metà mattina, quando gli interlocutori sono lindi e pinti e si esce a pausa pranzo - inconcepibile tregua per il vecchio sindacalismo - con un nulla di fatto, oppure aggiornando il negoziato al primo pomeriggio. Ma il ciclo del giorno e della notte non è, appunto, l'unica variabile di contesto meritevole d'uno sguardo attento. C’è anche l'elemento stagionale. Nel momento clou della vertenza Indesit è arrivata l’estate, il cielo azzurro e una voglia naturale e giusta di bibite, spiagge e sapore di sale. E forse non è un caso che i piani di ristrutturazione vengano sempre annunciati a ridosso della bella stagione e del solleone, perché l’estate rende spensierati, consuma la resistenza e lo scorno, sollazza distrazione nelle cittadinanze solidali e nutre la vocazione cronachistica dei media che preferiscono la morsa del caldo, il bosco che arde, i fuochi d’artificio nel dì di festa o l'animazione refrigerante di ristoranti e piscine pubbliche, ai molti acronimi che designano gli ammortizzatori sociali o agli stop and go di una trattativa già incagliata dai piedi puntati del management. Martedì prossimo, a Fabriano, ci sarà Susanna Camusso, e il 21 giugno – solstizio d’estate – partirà la trattativa tra azienda e sindacati. Poi, lentamente l’attenzione tenderà al ribasso e, nel contempo, crescerà la quotazione di pizzette, ombrelloni e chinotti. L’azienda traccheggerà fino a metà luglio, delegando al solleone il compito di sancire un probabile black out di attenzione e d’interesse. Puntando dritti alla pausa di agosto, quando "Indesit mia non ti conosco". Diciamolo: il tempo che scorre e la temperatura che sale sono amici del giaguaro e non fanno il tifo per le maestranze, che dovranno imprimere una svolta spettacolare e clamorosa tra l’inizio formale della trattativa e il sopraggiungere delle ferie. E' solo un mese ed è pure destinato a trascorrere velocemente. Poi a settembre è facile supporre che vedremo i morti careggiare i feriti.

p.s.  ANSIA DA ANSA E DICHIARAZIONI A GO GO : (ANSA) - FABRIANO (ANCONA), 13 GIU - Il premier Enrico Letta ''segue con attenzione la situazione di difficoltà del tessuto economico produttivo del Fabrianese e la crisi Indesit, e sta valutando tutte le azioni necessarie in riferimento alle questioni del lavoro, e in particolare della metalmeccanica, anche di concerto con i ministri interessati e il governatore delle Marche Gian Mario Spacca''. Lo ha detto il sindaco di Fabriano Giancarlo Sagramola, ricevuto oggi da Letta a Roma.
    

Una cravatta sulle barricate

I politici hanno una loro stella polare che li orienta, un solo richiamo della foresta che li anima e un unico istinto che ne guida scelte e comportamenti: durare. E per durare servono i voti. Più voti possibile. Merce preziosa che non regala più nessuno, ma che comporta un bisogno eternamente insoddisfatto di apparire, di farsi notare e ricordare. Diceva Machiavelli che governare è far credere e non sbagliava: far credere di avere a cuore, far credere di fare, di farsi carico. Con il solo scopo di alimentare un plauso che possa tramutarsi in consenso e poi in voti e quindi in cariche e potere. E' un riflesso universale della politica, un tic incorreggibile, un'inerzia irrefrenabile che non muove a censura perché solo i moralisti, ossia gli ipocriti, possono figurarsi qualcosa di diverso. Sagramola sulla vertenza Indesit si è mosso seguendo pedissequamente questo istinto di durata: all'inizio scavalcato dagli eventi e come costretto suo malgrado a risvegliarsi da un mesto tran tran di determine e delibere. Poi, di colpo, la trasfigurazione: non più un Sindaco alla ricerca di un'agire felpato, condominiale e vicinale, ma un Masaniello energizzato dalla lotta, ambasciatore e plenipotenziario di effervescenze operaie, protagonista di blocchi stradali, una grisaglia tra le tute e sempre nei paraggi di un microfono o di una telecamera a cui consegnare pensieri e parole. Fino a sfiorare l'insidia della sovraesposizione, la bulimia mediatica che ti spinge a essere sindaco e sindacalista, istituzioni e parti sociali, governo e opposizione sociale. E' il consenso che rintocca, che rode dentro, orienta i gesti e affolla i pensieri. Una pulsione quasi erotica che spinge a tracimare, a invadere, a occupare - come un gas - tutto lo spazio disponibile. Perché i politici sanno bene che chi soffre per il lavoro e si sente sospeso come un equilibrista sullo strapiombo, apprezza la presenza, il calore e la mano solidale. E se lo segna in mente. E magari al prossimo giro se ne ricorda e ti vota. E ti tiene in ballo per altri cinque anni di giostra. Ecco quindi il bisogno di tenere alta la temperatura e quindi sabato riunione dei sindaci, umbri e marchigiani, tutti uniti e solidali; E poi solenni inviti alle banche a fornire altra grana a Tecnowind perché 20 milioni di debito cosa vuoi che sia. Insomma un uomo solo al comando proprio quando la natura complessa della vertenza Indesit richiederebbe un sano policentrismo di personalità e di posizioni. E Sagramola fa venire in mente Moretti in Ecce Bombo: "Ah no, se si balla non vengo. No, allora non vengo. Che dici vengo?. Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo."

p.s. fonti affidabili riferiscono che Sagramola sia a Roma a conferire con Enrico Letta. vediamo se questa amicizia non millantata è solo una medaglia o se porta frutti. Il momento è quello buono.
    

12 giugno 2013

Lutti, origini e traghettatori


Sono diversi i lettori di questo blog che sfidano gli eredi Merloni a uscire allo scoperto, a dichiarare - urbi et orbi e senza interposto manager - cosa hanno in mente e quali sono le scelte industriali e di localizzazione che la proprietà intende perseguire a breve e medio termine. Tutte richieste sensate e comprensibili, ma che, di fondo, rivelano il grido di dolore del fabrianese che ha appaltato a una sola famiglia il suo destino e la sua sorte e che oggi è costretto a elaborare il lutto e a fare i conti con una perdita pressoché definitiva. Oltre al dramma incombente e feroce della disoccupazione di massa si consuma infatti, in questi giorni, anche la consunzione di un rapporto filiale, di una relazione fiduciaria fondata sulla sovranità assoluta della delega. E oggi si piange come i bambini che perdono un genitore e non se ne capacitano, ma sono comunque costretti a diventare adulti in poco tempo. In verità gli eredi Merloni si sono già espressi con molta chiarezza e lo hanno fatto attraverso le scelte societarie che hanno sancito – con il cumulo delle cariche di Presidente e di Amministratore Delegato – di fatto il commissariamento dell’azienda, con una concentrazione di poteri incompatibile con la governance di un gruppo industriale articolato e complesso come Indesit, se non per una fase transitoria e per un’azione di traghettamento. E siccome il valzer delle poltrone è da sempre il primo riverbero superficiale di scosse sotterranee, è abbastanza plausibile sia intenzione della proprietà vendere, anche se nessuno dei Merloni si è pubblicamente dichiarato in merito. Ma c’è anche un altro indizio che segnala un lutto difficile da elaborare per tanti concittadini. Ed è un indizio a cui ha dato legittimazione politica anche il PD - in un suo recente comunicato stampa - e cioè la critica alle scelte dei Merloni attraverso il recupero, perlopiù acritico, delle parole e della memoria di Aristide Merloni, ossia del fondatore di una monocultura industriale che, sin dall'origine, conteneva al suo interno il baco della crisi di cui oggi misuriamo gli effetti. Ciò denota e segnala una carenza profonda di riferimenti culturali, ossia degli strumenti necessari a razionalizzare un distacco che è nell'ordine delle cose e che rappresenta un elemento caratterizzante della nuova quotidianità dei fabrianesi. La verità, parafrasando Nietzsche, è che c’è molto più merlonismo nel nostro corpo che in tutte le nostre filosofie.
    

La posta in gioco



L'operazione dolcificante non è passata e il tentativo di irretire la protesta, fomentando speranze incentrate soltanto su una generica apertura al dialogo del vertice Indesit, si è infranto in poche ore di fronte all'inasprirsi della conflittualità sociale che si concretizzerà in altre sedici ore di scioperi a sorpresa nei diversi stabilimenti coinvolti. Ma per provare a capire annessi e connessi di certe posizioni potrebbe essere utile tornare ad Adamo ed Eva, ovvero comprendere perché Indesit Company abbia elaborato un Piano draconiano di smobilitazione e delocalizzazione. Per avere qualche dettaglio in più sulla situazione può essere utile dare uno sguardo ai dati, pubblicati direttamente dal gruppo, relativi al primo trimestre del 2013 (Comunicato Stampa I° trimestre 2013), da cui emerge una contrazione del fatturato, del margine operativo e dell'utile netto ma non tale da giustificare un'ira di Dio come quella a cui stiamo assistendo. Anche perché, nella valutazione dei ricavi e della redditività dell'area occidentale, il comunicato stampa fa affermazioni che non corrispondono alla narrazione drammatica del mercato che ha accompagnato la presentazione del Piano se è vero che "Il fatturato nel primo trimestre 2013 ha subito una riduzione, rispetto al primo trimestre 2012, del 10,7%. I ricavi per prodotti finiti sono diminuiti in conseguenza di minori volumi di vendita (soprattutto Francia) e della svalutazione della Sterlina rispetto all'Euro. La redditività dell’Europa Occidentale nel primo trimestre 2013 ha subito una riduzione del 36,1% rispetto al medesimo periodo del 2012. Il decremento è principalmente dovuto dal price/mix e dall'andamento negativo della Sterlina. Tali effetti sono stati parzialmente bilanciati dalle efficienze industriali e da un contenimento dei costi in pubblicità e promozione." E anche se uno non è un campione di economia aziendale, quando legge di price/mix e di andamento negativo di una moneta non vengono in mente congiure di mercato ma trend che debbono essere governati perché, altrimenti, non si capisce cosa ci stia a fare un management aziendale tra l'altro lautamente retribuito. L'unica spiegazione possibile, per una drammatizzazione di questa portata, è che il Piano possa rappresentare una delle condizioni di vendita necessarie per la stipula di un accordo di cessione a un grande player. Anche perché, nell'ultimo anno, pare che la capitalizzazione di Borsa sia andata alquanto bene e un Piano come quello presentato, di certo, fa impennare il titolo e consente alla proprietà di arrivare alla vendita attrezzata con parecchia polpa e con le spalle ben coperte. Di fronte a questo scenario potrebbe quindi risultare fuorviante e sterile focalizzare l'attenzione sugli esuberi, perché quel numero non sembra legato alla configurazione e alle dinamiche del mercato, ma a una probabile determinazione a vendere che forse abbisogna di un'operazione preliminare di mietitura e di uno scalpo propedeutico da presentare al player internazionale interessato all'acquisto. Se così fosse vuol dire che la partita non si giocherà sul numero degli esuberi ma direttamente sul fallimento dell'accordo con il player internazionale. Un obiettivo sindacale da far tremare i polsi: o si perde o si vince. Tertium non datur.
    

11 giugno 2013

Sagramola, Milani: Hamburger Hill




E’ stata un’Ansa del primo pomeriggio a informare sull'esito del faccia a faccia tra il Sindaco Sagramola e l’Amministratore Delegato di Indesit Milani. Nonostante un ottimismo trattenuto a stento, che trapela dalle parole del dispaccio d’agenzia ove si paventa una sorta di retromarcia da parte dell’azienda, è evidentissimo che il management del gruppo industriale fabrianese non ha modificato di una virgola le sue posizioni iniziali. Si tratta di un niet integrale travestito da spiraglio. Al Sindaco di Fabriano il Ceo di Indesit ha, infatti, confermato due elementi che ben si conoscono sin dal primo giorno di mobilitazione dei lavoratori, aggiungendone un terzo che si caratterizza come una novità assolutamente marginale e di corollario:

·        che il gruppo intende restare in Italia;
·        che il piano di riorganizzazione con 1.425 esuberi è finalizzato a questo obiettivo
·        che il vertice dell’azienda è disponibile a partecipare a un tavolo nazionale con il Governo

L’unico elemento non comunicato in precedenza è la disponibilità dell’azienda a partecipare a un tavolo nazionale, ma sappiamo bene che sedersi a un tavolo non significa automaticamente essere disposti a fare concessioni e a negoziare seriamente. Ciò vuol dire che la sostanza delle posizioni aziendali non è cambiata e che è stato messo in campo soltanto uno spiraglio funzionale, uno specchietto per le allodole che può ritornare utile per troncare e sopire la lotta e la mobilitazione dei lavoratori. Temo, purtroppo, un effetto contagio sui concittadini meno maliziosi e navigati, che magari si convinceranno di essere di fronte a una marcia indietro dell’azienda. E il passato, da questo punto di vista, non rassicura di certo. Basti pensare a quanta illusione, quanta attesa e quanto cloroformio sociale fu appositamente sparso attorno alla Ardo, col finto gioco delle gare internazionali e degli acquirenti prima cinesi e poi iraniani. Ed oggi ho la spiacevole sensazione che ci proveranno di nuovo, stavolta con una disponibilità di facciata e non di merito, con l’obiettivo di dividere il fronte solidale, che si è stretto attorno ai lavoratori della Indesit, in pessimisti e ottimisti, con quest’ultimi pronti a tornare all’ovile, dove ad attenderli ci sarà il lupo famelico della cassa integrazione e della distruzione del lavoro. Insomma siamo ancora fermi alla collina 937, ad Hamburger Hill, ma vogliono convincere la nostra gente che di fronte c’è di nuovo un prato con al centro una Margherita. E allora mai come ora e mai come oggi: nessun dorma.