
Marco Ottaviani si è dimesso da consigliere comunale a
seguito della nomina a consigliere di amministrazione della Fondazione Carifac.
Si tratta di una notizia che aleggiava da tempo e di una ipotesi che, col
passare delle settimane, era diventata via via più corposa. Ma nonostante gli
annunci sussurrati nei corridoi e nelle anticamere del palazzo, la notizia
resta intatta in tutta la sua portata perché Ottaviani, che piaccia o meno, ha
segnato - con la presenza ingombrante e canterina, con l’eloquio bizantino e la
corporatura penitenziale di un abate benedettino - più di un lustro di vita
politica cittadina. Nel 2007 – assieme a Enrico Carmenati, a Gabriele Patassi e
al sottoscritto – fu uno degli ideatori e dei fondatori del Caffè,
un’esperienza trasversale di successo che si consumò in poche settimane, anche
per via delle sfrenate ambizioni di Ottaviani che la utilizzò come rampa di
lancio politico senza preoccuparsi di dargli un seguito e una prospettiva. Una
rampa che funzionò egregiamente tanto che alle comunali di quell'anno
l’Emergente ottenne un tracimante successo personale di preferenze, che ne
affermò la fama di uomo nuovo della politica fabrianese e di sindaco in
pectore. Il primo mandato da consigliere di opposizione nella lista
Carmenati mise in luce un aspetto essenziale della personalità di Ottaviani e
cioè un’inquietudine irrisolta e permanente, che si andava a innestare in una
personalità fortemente autocentrica, producendo un effetto politicamente
letale: un’innata vocazione all'isolamento politico e a una visione
dell’impegno tutta incentrata sul sé, con la conseguenza che Ottaviani, nel
piccolo fabrianese, è diventato moltiplicatore e incubatore del vizio
principale che condiziona la scena e cioè l’idea della politica come percorso
solitario e al netto di ogni dimensione collettiva. Questa ricerca spasmodica
di uno spazio desertificato di altre presenze in cui valorizzare la decisione
solitaria e un tormento assolutamente individualizzato e non condiviso lo spinse
a lasciare la lista Carmenati, a fondare il Ponte e a compiere l’errore più
grave della sua breve stagione politica: il sostegno a Viventi in occasione delle
elezioni regionali del 2010. Ottaviani considerò quell'appoggio un investimento
che si collocava in un quadro politico caratterizzato dalla nascita del Modello
Marche, ossia l’accordo tra Pd e Udc di ricostituzione dell’antica solidarietà
democristiana, di cui veniva ritenuto un’espressione tecnocratica capace di
garantire la modernità e una tradizione garantita, in termini politici e
familiari, dal ruolo forte ricoperto nel vecchio scudocrociato dal papà Ugo.
Complici il carattere e una sostanziale tendenza a imporre egemonie sul sistema
dei partiti, il suo nome venne rapidamente bruciato nel grande falò delle
candidature a Sindaco del centrosinistra, costringendolo all'ennesima discesa
solitaria, con una candidatura a primo cittadino sostenuta da pochissima
società civile e supportata politicamente dal residuo rottamato di Futuro e
Libertà. I suoi sostenitori più accesi – nonostante lo splendido isolamento - ne
narravano in anticipo le magnifiche sorti e progressive, paventando il
ballottaggio e la vittoria finale al fotofinish ai danni di Sagramola che, pur
essendo sbilanciato a sinistra, era stato scelto come garante del patto tra i
democristiani. Il risultato elettorale fu nettamente al di sotto delle aspettative
e credo che l’idea di un altro quinquennio di opposizione fosse diventata
incompatibile con l’inquietudine e il bisogno di un riflettore acceso.
L’occasione per una fuoriuscita dal gorgo furono le recenti elezioni politiche
quando, dopo essere sceso in campo a sostegno esplicito di Monti, Ottaviani decise
di candidarsi alla Camera per l’Udc – perseverando colpevolmente nella liaison
con Viventi - senza immaginare che l’operazione centrista sarebbe uscita
martoriata e vinta dalle urne. Politicamente la sua carriera finì in quel
momento, perché il risultato quasi da prefisso telefonico dell’Udc sbarrava
definitivamente il passo al vero obiettivo che la candidatura teneva in serbo e
cioè la candidatura alle regionali del 2015. La nomina in Fondazione, con le
dimissioni da consigliere comunale, segna quindi la fine di una carriera
politica intensa ma breve e segnala quanto sia di corto respiro una politica
totalmente incentrata sul talento dei singoli, sulle loro virtù mai mobilitanti
e risolutive e sull'illusione sempre più nefasta che col voto si debba
scegliere la persona e non il partito. Come se la cosa pubblica possa essere
tutelata e valorizzata dal mix capriccioso di personalità e carattere
individuale e non da organizzazioni più vaste in cui le intelligenze si
mescolano e si confrontano smussando angoli, asprezze e pretese di
autosufficienza.